Come è cambiata la genitorialità

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Nell’antichità, l’altissimo livello della mortalità infantile, specie sino ai sette anni, imponeva ai genitori di non affezionarsi troppo ai neonati. Il fatto che diventare madri e padri sia un evento naturale induce a volte a dimenticare i fondamenti culturali su cui si basa ogni variante storica della genitorialità.

Nell’antichità, l’altissimo livello della mortalità infantile, specie sino ai sette anni, imponeva ai genitori di non affezionarsi troppo ai neonati. Il fatto che diventare madri e padri sia un evento naturale induce a volte a dimenticare i fondamenti culturali su cui si basa ogni variante storica della genitorialità. Può essere quindi utile ricordare come in passato il ruolo dei genitori fosse molto diverso da come oggi lo intendiamo.

Bouguereau_Charity1878La pittura vascolare greca, per esempio, non riporta alcuna immagine di un padre intento a giocare con i propri figli. E non a caso. A quel tempo si considerava indecoroso farlo, quasi fosse un atto lesivo della dignità di un cittadino adulto, e comunque contrario ai costumi tradizionali, che prevedevano una rigida separazione dei sessi inglobando i bambini, sino a sette anni, nel mondo femminile.
Si è parlato a proposito di anaffettività genitoriale maschile, di un vero e proprio rifiuto della paternità, ma è difficile giudicare con criteri moderni una mentalità in cui la famiglia era ancora vissuta come un mero istituto procreativo e l’affettività dei maschi si esplicava in dimensioni prevalentemente sociali.

La vice-famiglia
Non che le madri greche, d’altra parte, fossero più accudenti; appena le condizioni economiche lo permettevano, usavano affidare la cura dei piccoli alle nutrici, passando con loro ben poco tempo, almeno secondo i nostri criteri. Lo storico Paul Veyne ha parlato a proposito di una «vice-famiglia», formata dalla balia, dalla nutrice e dal pedagogo, al quale spettava il compito di accompagnare il bambino a scuola, dopo i sette anni.
Dobbiamo concludere che i greci non amassero i loro figli? Certamente no. Il fatto è che allora, e in realtà sino all’epoca moderna, affezionarsi a un neonato non era considerata cosa saggia, data la forte probabilità che non sarebbe riuscito a superare i pericoli dell’infanzia, caratterizzata da una spaventosa mortalità nei primi anni di vita. «Le società antiche, così come le società preindustriali ancora alla fine del XIX secolo, nutrivano speranze disperatamente scarse per quel che riguarda la durata della vita, e vedevano morire almeno un quinto dei bambini in tenerissima età. Tale dura legge era valida per tutte le classi sociali, dal momento che gli esempi più noti sono quelli di Cornelia, la madre dei Gracchi, che vide giungere all’età adulta solo tre dei dodici figli, e di Faustina, moglie di Marco Aurelio, che ebbe tredici figli di cui ben sette morirono prima della pubertà» (Néraudau, 1996).
Prudentemente, quindi, per affezionarsi ai bambini si aspettava che avessero superato la fatidica soglia dei sette anni, oltre la quale le malattie infantili diventavano meno mortali. Ma era anche la legge a favorire questo atteggiamento. Numa Pompilio aveva vietato di portare il lutto per la morte di un bambino che non avesse ancora tre anni. E comunque, il lutto per la loro morte doveva avere una durata, in mesi, pari agli anni che essi avevano vissuto, ma a partire dall’età di tre anni. Per i piccoli con meno di un anno, non era previsto alcun lutto; non erano neppure cremati, come ricordano sia Plinio il Vecchio nella Naturalis historia (VII, 72) sia Giovenale nelle Saturae (XV, 131). Plutarco, che perse una figlioletta di due anni, spiega alla moglie che non si fanno libagioni per i bambini di quell’età, che non si indugia presso il loro corpo e non si ricorre all’opera delle prefiche.

Il problema del bambino cattivo
GheeraertsSecondo la mentalità antica, una seconda buona ragione per non occuparsi dei bambini piccoli stava nella loro naturale cattiveria. Erano soprattutto i filosofi a sostenere questa tesi tanto lontana dalla nostra sensibilità: ancora incapaci di ragionare, i bambini non conoscono la virtù e quindi non possono comportarsi di conseguenza; confondono il bene con il loro personale benessere, diventando così prepotenti, insolenti e villani. Nascono per natura cattivi e tali permangono sino all’acquisizione della cultura.
Solo i filosofi stoici dissentivano da tale teoria, non certo, però, a causa di una migliore osservazione del reale comportamento infantile. Come sempre sino all’epoca moderna, al fondo delle loro riflessioni sull’infanzia vi erano motivazioni di tipo ideologico. Sostenitori dell’intrinseca bontà del mondo, non potevano ammettere questa nascita nella negatività, postulando, pertanto, che i bambini, pur nascendo buoni, fossero subito corrotti dalle nutrici, già a partire dai primi cruciali momenti, in particolare con l’uso dei bagni caldi, che indurrebbero nelle menti dei piccoli, come una specie di imprinting cognitivo, una deleteria associazione fra il bene e il piacevole.
Questa mentalità cambiò radicalmente con l’avvento del cristianesimo? In parte sì. Sono numerosi i passi del Vangelo in cui Gesù apprezza l’esemplare innocenza dei piccoli, invitando gli adulti ad imitarla. «Furono presentati a lui dei bambini, affinché pregasse imponendo su di loro le mani; i discepoli però li sgridavano; ma Gesù disse: ‘Lasciate stare, non impedite che i bambini vengano a me; di tali, infatti, è il Regno dei cieli’» (Matteo, 19,13-14).
Certamente il cristianesimo inaugura una nuova sensibilità, tuttavia troviamo nelle Confessioni di Agostino una spietata riproposizione del tema della cattiveria infantile. «Chi mi rammenterà il peccato della mia infanzia, se nessuno è innocente davanti a te, neppure il neonato che ha un giorno solo di vita sulla terra? Qual era dunque il mio peccato, allora? Forse l’avidità con cui boccheggiavo piangendo per il seno?». Dopo aver ricordato le tirannie compiute verso i genitori e gli sforzi per vendicarsi, per quanto possibile, di loro, picchiandoli, solo perché non obbedivano a degli ordini, il filosofo così conclude: «Dunque è nella debolezza del corpo infantile l’innocenza dei bambini, non nell’anima. Io ho visto e conosciuto bene un bambino geloso: non parlava ancora e già guardava livido, con occhi torvi il suo fratello di latte. Chi non le sa, queste cose? Le madri e le balie si vantano d’avere chissà quali rimedi: ma non la si può chiamare innocente questa insofferenza, questo rifiuto di condividere con altri il latte per abbondante e ricco che fluisca alla fonte, e per bisognoso che altri sia di quell’aiuto, il solo alimento da cui trae la vita».
In realtà, per Agostino la cattiveria infantile è la dimostrazione della persistenza del peccato originale nella storia dell’umanità: la colpa di Adamo, infatti, rivive in ogni individuo come una naturale tendenza alla negatività, sia verso Dio, nella forma della superbia, sia verso se stessi e gli altri, come  un’innata predisposizione alla malvagità, quindi già presente in un bambino con un solo giorno di vita. In breve, la macroscopica enfatizzazione della corruzione morale del neonato serve al teologo per dimostrare la necessità della grazia, ossia dell’aiuto divino per la salvezza, cui l’uomo non può attingere con le sue sole forze. Si tratta quindi, ancora una volta, di una visione strumentale del bambino, più immaginato come modello per gli adulti che indagato nella sua realtà.
Del resto, anche Agostino indica un’infantile qualità esemplarmente positiva: la disponibilità a credere, ad avere fede senza farsi impacciare, come spesso gli adulti, dai legami della razionalità. Per questo, anche per lui, come per Gesù, i bambini sono superiori ai sapienti, più vicini alla verità dei filosofi.

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