Come costruire testi interculturali

Tempo di lettura stimato: 36 minuti
Quale cultura deve essere trasmessa a scuola? Come evitare l’etnocentrismo, come riuscire a far vedere il mondo (anche) con gli occhi degli altri? L’opinione di uno psicologo tra i massimi esperti italiani di intercultura

L’educazione interculturale costituisce una necessità impellente per le nostre scuole non solo per la presenza di persone provenienti da culture “altre”, ma soprattutto per adeguare l’offerta formativa alle esigenze dei nostri tempi. La circolare ministeriale 2 marzo 1994, n. 73, “Proposte e iniziative per l’educazione interculturale”, sottolinea che «l’educazione interculturale non si esaurisce nell’affrontare i problemi posti dalla presenza di alunni stranieri a scuola, ma si estende alla complessità del confronto tra culture, nella dimensione europea e mondiale dell’insegnamento e costituisce la risposta più alta e globale al razzismo e all’antisemitismo. Essa comporta la disponibilità a conoscere e a farsi conoscere, nel rispetto dell’identità di ciascuno, in un clima di dialogo e di solidarietà» (Giusti, 2015).
Belle parole. Peccato che a queste parole non sia seguito quasi nulla.

Non possiamo aspettarci testi “interculturali” belli e pronti nel prossimo futuro, anche perché non sempre è chiaro in che cosa consista l’intercultura. Essa viene spesso confusa con il “multiculturalismo”, che riconosce le differenze culturali ma punta a mantenere separate le diverse “comunità”, per evitare contaminazioni. L’intercultura al contrario vede le “culture” come sempre intrecciate, aperte, in movimento.
Le “culture” come entità monolitiche e impermeabili, separate dalle altre e uguali a se stesse, sono un’invenzione dei gruppi fondamentalisti interessati a far nascere “guerre culturali” ma non esistono nella realtà quotidiana, in cui troviamo ovunque processi di contaminazione e di cambiamento (Mantovani, 2004).

Nella prospettiva interculturale, la “cultura” non è qualcosa che sta al di fuori delle persone e toglie loro la responsabilità delle loro scelte. Il primo requisito di un testo interculturale sarà dunque il rifiuto di reificare la “cultura”, di farne qualcosa di rigido e immutabile, separato e contrapposto alle “altre” culture, e il rifiuto di concepire le “culture” come separate tra di loro e omogenee al loro interno.
Spesso, a opera delle tendenze fondamentaliste presenti in ogni società, la “cultura” viene identificata con la religione. Non è così: la cultura non consiste solo nella religione, ma nell’insieme dei sistemi di mediazione tra cui la lingua gioca un ruolo primario. La contrapposizione tra islam e cristianesimo ora enfatizzata dai media è appunto un caso di reificazione che ignora i molti contatti e contaminazioni avvenuti in passato e anche ai nostri giorni.

È desiderabile che in questa fase storica la produzione di testi interculturali nasca da pratiche “locali”, diversificate a seconda dei contesti e delle risorse disponibili. Proposte che partano dall’iniziativa di un insegnante (o di un gruppo di insegnanti) e coinvolgano gli studenti, le famiglie e le istituzioni del territorio. La prima cosa da fare consiste in una pratica: la critica degli stereotipi che spesso affollano i testi scolastici.
Si tratta di identificare e criticare gli stereotipi direttamente o indirettamente denigratori che invadono i testi scolastici dalle elementari alle superiori: le donne “danno il cencio” in casa mentre gli uomini sono ingegneri, architetti, imprenditori; gli africani sono bisognosi, privi non solo di risorse ma anche di iniziativa, recettori di un aiuto che spetta fornire a chi è in una posizione superiore, per motivi umanitari (la sorpresa di sentire in TV i rifugiati siriani che parlano un ottimo inglese, che dicono di voler lavorare come medici, ingegneri, architetti basterebbe all’insegnante che in classe ci volesse lavorare per criticare gli stereotipi paternalistici di cui è carica anche la narrazione “buonista” del fenomeno migratorio).

Non è sufficiente però ribaltare gli stereotipi che denigrano (“rendono neri”: quante cose dice il nostro lessico, magari senza che ce ne accorgiamo) le persone sulla base della loro origine nazionale, della loro religione, delle loro scelte di vita, del loro orientamento sessuale. Ad esempio, non basta sostituire, nelle narrazioni delle dinamiche di potere, le donne agli uomini, mostrando donne che occupano posizioni importanti che gli stereotipi assegnavano preferenzialmente agli uomini. Occorre mettere in discussione le concezioni dominanti di “potere” e di “successo”: solo così si potrà far comprendere che cosa ci sia di veramente nuovo nel fatto di avere finalmente donne scienziate, astronaute, dirigenti di aziende; e anche donne insegnanti, chirurghe, ministre, badanti.
Per riformattare l’immaginario del “successo” purgandolo delle sue componenti arroganti occorrono narrazioni profondamente innovative che aiutino gli studenti a pensare in modo nuovo alle loro capacità, ai loro desideri e ai loro obbiettivi (Batini e Giusti, 2008).

Nell’uso di un testo è possibile compiere un’altra importante e necessaria azione interculturale: evidenziare anziché occultare i processi di traduzione. Di solito «a scuola le lingue non si incontrano, non dialogano, non si mescolano. E la traduzione, che fa dell’incontro tra le lingue e della negoziazione dei significati una pratica quotidiana e un modo di vivere, è utilizzata principalmente al fine di occultare l’alterità» (Giusti, 2015).
In molte occasioni abbiamo testi che includono espressioni o brani tratti da altre lingue: sono una finestra aperta su mondi “altri”, sia che si parli del codice di onore dei samurai giapponesi (il bushido) che delle impurità che rendono intoccabili i fuori casta nel mondo indù (i dalit). Anche parole che hanno una provenienza più vicina, da “heimat” a “privacy” o “saudade”, svelano la loro “intraducibilità” (se pensiamo che la traduzione annulli la distanza).
Il risultato di un’attenzione critica alla traduzione ci porterà non ad arrenderci alle differenze, riconoscendo l’intraducibilità delle parole e delle narrazioni, ma a vedere l’“altro” come sempre presente nella nostra pratica linguistica, sia che usiamo il termine straniero (non tradotto, e purtroppo spesso anche non compreso, come accade per i termini inglesi) sia che usiamo la traduzione – della cui precarietà saremo consapevoli.

Come superare la presunzione di superiorità del “nostro” mondo

Ma il punto su cui si gioca la questione dell’intercultura è quello costituito dal senso di superiorità della nostra “cultura” rispetto alle altre. Un potente stimolo a questo senso di superiorità è fornito dalle immagini trasmesse dai media delle migrazioni di massa che approdano alle nostre coste: assistiamo allo sbarco di persone stremate dalla fame e dalle guerre che scendono dalle navi che sono andate a salvarle dall’annegamento. Come non avvertire allora come cosa evidente che “noi” stiamo meglio, anzi che siamo migliori di questi disperati che rischiano la vita per cercare una salvezza lontano da casa e arrivano qui bisognosi di tutto, dal cibo alle cure mediche? Una simile disparità di condizione può introdurre una nota di paternalismo anche nelle più generose forme di “accoglienza” e di “aiuto”.
È vero che la problematica dell’immigrazione, nella sua bruciante attualità, è solo uno degli aspetti dell’intercultura, ma l’irruzione di “altri” così palesemente in difficoltà fa pensare all’intercultura prevalentemente in termini di immigrazione, rafforzando la presunzione di superiorità.

Una presunzione di superiorità non solo economica, medica, militare ma anche morale che è assai difficile da superare, perché la portiamo dentro di noi fin dall’infanzia e spesso dalle prime esperienze scolastiche. Una presunzione che è entrata a far parte del senso comune di un Paese come il nostro, che ha vissuto per vent’anni della sua storia recente all’interno di un regime colonialista e apertamente razzista come quello fascista. La guerra di resistenza, la caduta del fascismo, la nascita della Repubblica non hanno cancellato questa pesante eredità, che si deve combattere ancora nella vita di ogni giorno.
Un’eredità ancora chiaramente avvertibile in certe voci del dibattito politico e in comportamenti come le barzellette a sfondo razzista, gli insulti razzisti lanciati in strada o negli stadi, le espressioni razziste usate in alcuni programmi televisivi con il pretesto della cronaca o della libertà del dibattito politico (anche di questo tracimare del razzismo nel discorso pubblico si dovrebbe parlare a scuola; non è compito della scuola fare una seria azione di educazione civile e civica?).

La presunzione di superiorità non è un vizio individuale. È una ideologia costruita su basi pseudo-scientifiche e pseudo-storiche (Mantovani, 2004) che nell’Ottocento viene usata dagli Stati e dalle istituzioni anche scolastiche per giustificare le imprese coloniali. Era dovere degli occidentali (il “fardello dell’uomo bianco” di cui Kipling parla in una famosa poesia che esalta l’imperialismo inglese) “conquistare le nazioni barbare” per portare loro la civiltà, liberandole dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. L’Italia ebbe la sua parte di guerre coloniali, tardive ma non meno feroci di quelle degli altri Paesi coloniali, in Libia e in Etiopia, sostenute da una martellante propaganda esplicitamente razzista che ha lasciato ampia traccia nell’opinione pubblica. Una traccia profonda che riaffiora spesso, anche nelle parole di ex-ministri della Repubblica che paragonano una donna di origine africana, all’epoca dei fatti una ministra italiana, a un orango – purtroppo senza che l’insulto razzista venga sanzionato come ci si potrebbe aspettare.

Come superare la presunzione di superiorità che ha così profonde radici nelle pratiche quotidiane e nelle vicende storiche del nostro Paese? Occorre identificare con precisione dove stia il problema e cosa occorre fare. Il problema consiste nel fatto che il punto di arrivo dell’intercultura è il rispetto dell’altro, della sua morale, delle sue abitudini, della sua storia. Che questo rispetto nasca non è una questione di buona volontà o di buone maniere (“penso ma non dico che sei uno straccione”), ma il risultato di un giudizio fondato sulla conoscenza delle vicende “nostre” e “altre”, che sono intrecciate ma di cui siamo abituati a vedere solo una parte limitata, la “nostra”, e per di più solo dal “nostro” punto di vista. I testi tradizionali raccontano la storia europea e “occidentale” (anche questi sono stereotipi che occorre smontare) prendendo in considerazione le altre aree del mondo solo quando entrano nel “nostro” raggio di azione: dell’Africa si parla a proposito della tratta dei neri, non per parlare dei regni e delle civiltà che vi si svilupparono. Occorre passare da una storia eurocentrica a una storia globale e raccontare la storia facendo posto, accanto al “nostro” punto di vista, al punto di vista degli “altri”. Non è facile.

È un lavoro di lunga durata, che non si può pensare di compiere in tempi brevi, data la situazione, ma che si può e si deve iniziare subito. Come? Aprendo finestre interculturali nei nostri testi scolastici, nei punti in cui ci si presenta l’occasione per farlo. “Finestre” che propongano un approfondimento su un tema circoscritto, ma curato dal punto di vista dei contenuti e della metodologia. “Finestre” che siano esempi, campioni di un lavoro da fare.
L’occasione può essere la conoscenza da parte dell’insegnante di vicende specifiche di altri Paesi, oppure l’interesse degli studenti per un particolare tema, magari evidenziato dai media, oppure la presenza di famiglie provenienti da altre parti del mondo che sono in grado di spiegare la loro storia senza ridurre la diversità a folklore (le feste “interculturali” con i cibi africani, le danze, i canti possono essere belle occasioni di socialità ma non centrano il punto). Quello che è importante è che la finestra sia un vero approfondimento, che a sua volta rinvii a ulteriori approfondimenti sia individuali che di gruppo.

Più delle indicazioni valgono gli esempi. Nell’approfondimento che segue questo articolo viene presentato (con alcune modifiche e semplificazioni) una parte di un mio testo di storia interculturale dal titolo Spezzando ogni cuore e autopubblicato con “Ilmiolibro” (Mantovani, 2013). Il libro è organizzato in sei parti che raccontano altrettanti episodi storici nel periodo compreso tra il 1511 e il 1581 del calendario gregoriano. I racconti, che sono affidati di volta in volta anche alla voce dei personaggi protagonisti o testimoni delle storie narrate, sono preceduti da un prologo che funziona da cornice narrativa.

Per sette sere un narratore, Marco, guida un gruppo di persone sedute all’aria aperta sotto gli ulivi alla scoperta del mondo moderno. Il brano qui riportato racconta un incontro avvenuto nella seconda metà del Cinquecento tra il sovrano musulmano dell’India, il gran moghul Akbar, e un gruppo di missionari gesuiti che il sovrano ha invitato nella sua capitale per parlare di religione. Questo incontro viene accuratamente documentato sul piano storico (nel volume sono riportate in bibliografia le fonti e i percorsi per possibili approfondimenti, che qui sono omessi); in esso il gran moghul, musulmano, appare come promotore di una visione pacifica dei rapporti tra religioni, una visione tollerante che era assente nell’Europa dell’epoca sconvolta dalle guerre di religione.
Un valore a cui oggi teniamo, la tolleranza, era presente in India in un certo momento della sua storia (non certo ora) mentre era assente in Europa: una visione globale della storia ridimensiona le pretese di superiorità morale del nostro mondo.

Il tema generale a sua volta apre altre “finestre”. Anzitutto quella sulla storia dell’impero moghul, che dominò l’India per oltre tre secoli prima della conquista inglese, e su Akbar in particolare (una ricerca su Wikipedia fornisce buone conoscenze di base su questi temi).
Un’altra finestra riguarda il sufismo, un movimento che ha avuto e ha ancora vastissima influenza sul mondo sunnita ed è tuttora maggioritario tra i musulmani dell’India (ottima la voce in Wikipedia); il testo riportato nel box fornisce anche riferimenti attuali al sufismo descrivendo il funzionamento di un tempio sufi nel Sind (Pakistan) con le parole di un grande storico inglese, William Dalrymple (2015). Potremmo anche svolgere una ricerca sulla città di Akbar, Fatehpur Sikri, che sorge a pochi chilometri da Delhi, patrimonio mondiale dell’umanità, magnificamente restaurata dopo un abbandono di secoli (su Wikipedia possiamo trovare molte bellissime immagini della città e un’ampia documentazione sulla sua storia; le immagini che corredano l’approfondimento, invece, sono state scattate durante un viaggio della redazione in India, N.d.R.).
Da questi approfondimenti potremmo ricavare una conoscenza più ampia ed equilibrata della storia di uno dei maggiori Paesi del nostro mondo. Questa conoscenza è la condizione per il rispetto dell’altro e per un reale superamento dei pregiudizi etnocentrici.

PER APPROFONDIRE
F. Batini e S.Giusti, L’orientamento narrativo a scuola, Erikson,Trento 2008.
W.Dalrymple, Nove vite, Adelphi, Milano 2011.
S. Giusti, La presenza della lingua, la visibilità dei traduttori, «Tradurre» n.8 2015.
G.Mantovani, Intercultura, il Mulino, Bologna 2004.
G.Mantovani, Spezzando ogni cuore, http://ilmiolibro.kataweb.it/, 2013.
G. C. Roscioni, Il desiderio delle Indie, Einaudi,Torino 2001.



Fatehpur Sikri, India, 1579-1581

Il racconto presenta il contrasto tra tolleranza e intolleranza in una forma che può sorprendere chi associa l’intolleranza ai musulmani e la tolleranza ai cristiani. Nello stesso momento storico in cui in Europa i cristiani scatenano guerre religiose e bruciano gli eretici, in India un sovrano musulmano, il gran moghul Akbar, proclama nei suoi domini la libertà religiosa. Questa volta i “talebani” siamo noi. Ma le generalizzazioni sono fuorvianti: i successori di Akbar non furono sempre tolleranti, anzi alcuni di essi perseguitarono crudelmente le altre religioni. Piuttosto che al contrasto tra cristiani e musulmani potremmo pensare che sia in gioco il contrasto tra europei e indiani, ma nella realtà i due aspetti della vicenda, quello religioso e quello coloniale, sono qui strettamente intrecciati.

L’incontro tra il moghul e i padri gesuiti avviene nella cornice del movimento missionario che proietta i religiosi cattolici nelle aree del pianeta da poco aperte alle esplorazioni europee. Ma, mentre nelle Americhe i missionari si trovano di fronte sistemi che crollano di schianto sotto l’ urto dei conquistadores, in India essi trovano sistemi politici, economici e culturali che resistono all’incontro con gli europei. I missionari incontrano qui un “altro” che non può essere assimilato con la forza. Si deve ricorrere alla persuasione. La pratica di battezzare migliaia di neofiti dopo pochi giorni di istruzione viene presto abbandonata a favore di strategie di evangelizzazione più complesse, in cui è centrale il ruolo dell’educazione, attività in cui i gesuiti eccellono.

Tuttavia anche in questa fase più matura l’“altro” non è riconosciuto come eguale: i missionari possiedono la verità e gli “altri” no. Non c’ è alcuno spazio di negoziato: l’induismo è un cumulo di oscenità e superstizioni; l’islam è il vecchio avversario della cristianità. Trappole del diavolo per dannare le anime. L’“altro” è intellettualmente e moralmente inferiore, nel caso degli indù, oppure è un nemico, nel caso dei musulmani. I missionari portano dentro di sé, al di là degli oceani, la visione che si è affermata nella Chiesa del Cinquecento. Uno dei padri gesuiti invitati da Akbar insulta il profeta Maometto davanti alla corte del gran moghul, un sovrano sunnita, sia pure di larghe vedute. Rischia la vita ma lo fa volentieri: la prospettiva del martirio è una componente importante della vocazione missionaria. Il missionario desidera ardentemente morire «per la salvatione de infinite anime». Il racconto è introdotto da un personaggio realmente esistito, Mariam-uz-Zamani, la sposa indù di Akbar.

Il gran moghul e la tolleranza (Mariam-uz-Zamani)

Sono la moglie principale del gran moghul Akbar e la madre di suo figlio Jahangir. Mi chiamo Mariam, come la madre del profeta Gesù. Ero indù, di casta rajput. Il mio nome era Jodaa Bai. Mio padre Raja Bharmak, raja di Amber, mi diede in sposa ad Akbar. Dopo le nozze divenni musulmana. Le spose del gran moghul non erano costrette a diventare musulmane ma io volli farlo, anche se nel mio cuore gli dei dell’Industan erano sempre vivi. Ci sono tra i musulmani dei santi uomini, i sufi, che insegnano che esiste un solo Dio che viene adorato con nomi diversi. Akbar era stato educato dai sufi.

Fu un sufi di nome Salim Chisti che viveva a Sikri a predire ad Akbar, quando soffriva per la mancanza di discendenti, che avrebbe avuto tre figli maschi. Dopo la nascita del secondo figlio Akbar costruì un magnifico monumento di marmo bianco per onorare Salim Chisti; le donne senza figli vengono a pregare sulla sua tomba. Qui Akbar costruì la sua nuova capitale, che adornò di splendidi palazzi e piscine verdissime. Amo il palazzo che Akbar mi ha donato, l’Anup Talao Mahal, fresco per il gioco dei venti. Frequento ogni venerdì la Nagina Masjid, la moschea delle donne. Mi piace anche sedere alla sera nel portico del palazzo del tesoro, l’Ankh Michauli, dove Akbar gioca a nascondino con le donne della sua corte. Non sono gelosa della loro bellezza.

Amo anche l’alba, quando l’imperatore si mostra dal balcone del palazzo per lo jahorhka-i-darsan. Davanti a lui stanno in silenzio i generali, poi gli emiri, poi i mercanti e infine gli artigiani, separati da parapetti d’oro, d’argento o di legno, a seconda del rango, ricoperti di tappeti preziosi. Dietro di loro sono schierati gli elefanti da guerra, i cavalli delle scuderie del moghul e le belve del suo zoo. I tamburi rimbombano dalla casa della musica, le trombe squillano e infine, mentre sul balcone esce lo stendardo con lo jak, il corno marino fa sentire la sua voce possente. Allora tutti alzano gli occhi verso l’imperatore: hanno bisogno di vederlo. Se egli non compare al jahorhka il popolo diventa inquieto, i dignitari esitano, i sovrani vicini si chiedono se l’Industan sia rimasto indifeso.

Qualche volta al jahorhka l’imperatore parlava. Ricordo quando parlò la prima volta della Din-i-Ilahi, la Dottrina della fede divina. Disse che chi crede che Dio abbia un solo nome gli fa torto. Si riferiva ai missionari con gli abiti neri, che aveva mandato a chiamare a Goa. Noi donne ascoltavamo ciò che si diceva nel Diwan-i-Khas. Udimmo gli stranieri offendere il profeta, benedetto sia il suo nome, e disprezzare la sati, il sacrificio delle donne rajput che si immolano sulla pira del marito. Temevamo che il nostro signore si lasciasse fuorviare ma Allah nella sua misericordia lo ha mantenuto sulla retta via.

Akbar invita i missionari

Akbar il Grande, terzo imperatore moghul, regnò sull’India per quasi cinquant’anni, tra il 1556 e il 1605. Era salito al trono a tredici anni, figlio di Humayun e nipote di Babur la Tigre, il primo degli imperatori moghul, una casata che arriva in India dall’Afghanistan e che discende da Tamerlano. All’inizio del regno di Akbar il dominio moghul in India è fragile, esposto agli attacchi lanciati dall’Afghanistan, dal Punjab, dalla Persia e dai potenti regni dell’Indostan. Akbar sconfigge i sovrani dei Paesi vicini e arriva a controllare stabilmente l’attuale Pakistan, il Bengala, il Gujarat e tutta l’India esclusa la sua punta meridionale. In questa impresa viene aiutato dai raja guerrieri del Rajasthan che lo appoggiano perché egli accoglie gli indù come generali, visir e sapienti su un piano di parità con i musulmani. L’alleanza tra Akbar e i sovrani rajput viene consolidata da matrimoni in cui la sposa rajput, indù, può mantenere la sua religione – anche se gli ulema radicali protestano contro questa concessione.

L’impero moghul ribolle di conflitti religiosi. Tra musulmani e indù, e anche tra musulmani: i sunniti sono ostili agli sciiti e viceversa, gli integralisti pensano che i sufi siano miscredenti, e così via. Akbar è sunnita e nel corso del suo regno modifica la sua politica religiosa, che all’inizio era intollerante: sceglie ministri e generali indù, rispetta i templi indù e jain nei suoi territori e si impegna personalmente in una sorta di “dialogo interculturale”. Invita i rappresentanti di tutte le religioni presenti nell’impero: sciiti, sufi, jainisti, indù, buddisti, zoroastriani, ebrei, sikh, una religione quest’ultima che inizia in questo periodo a diffondersi. Invita anche esponenti delle scuole di pensiero ateo del tempo. I colloqui destano la preoccupazione degli ulema e creano difficoltà politiche ad Akbar, che deve sedare rivolte nate dal timore che egli intenda abbandonare l’islam. Tutte le posizioni vengono trattate da Akbar con rispetto. Negli ultimi anni del suo regno Akbar formula la Din-i-Ilahi, “Dottrina della fede divina”, che si propone di fondere gli insegnamenti delle maggiori religioni.

Akbar invita anche i cristiani arrivati in India dal Portogallo. La sua decisione viene accolta con ostilità dai religiosi che lo circondano e non piace neppure alle sue donne, la madre e le mogli principali, che sono ostili agli stranieri occidentali. I cristiani europei sono il nemico ereditario per i musulmani, un ruolo fissato da secoli di guerre e soprattutto dalle crociate, una vicenda che è impressa profondamente nell’immaginario musulmano perché coinvolge Gerusalemme, uno dei tre luoghi santi dell’islam. In tutta l’Asia gli europei sono chiamati feringhi, derivato da franchi, il termine che designava gli europei durante le crociate. Grande risonanza ebbero nel mondo musulmano anche la cacciata dei mori da El Andalus, i regni musulmani di Siviglia e Granada, dopo la reconquista da parte dei sovrani spagnoli, e le vessazioni inflitte ai musulmani che scelsero di rimanere in Spagna. I cristiani europei sono arrivati in India da poco: i portoghesi sono arrivati la prima volta nel 1498, e poi una seconda volta nel 1500 e una terza nel 1502 con le flotte di Vasco da Gama e di Pedro Cabral. Cristiani indiani sono presenti in India da tempi antichissimi, e sono insediati a sud, sulle coste del Malabar, e a Est, a Madras, fin dai primi secoli dell’era cristiana.

L’invito del gran moghul arriva a Goa, la capitale dell’India portoghese, dove i gesuiti hanno la loro base per l’oriente. I padri accettano l’invito nella speranza che il moghul desideri convertirsi. Le loro aspettative sono altissime: “la salvatione de infinite anime” – scrive Rodolfo Acquaviva il 29 luglio 1581 dalla capitale di Akbar, Fatehpur Sikri, allo zio Claudio Acquaviva – dipende “dalla conversione di questo re”. (La narrazione della missione dei gesuiti, e la fonte dei brani delle lettere riportati, è il bel volume di Roscioni, Il desiderio delle Indie, del 2001). Grandi sono anche i rischi. Il rischio della vita è compreso, anzi è oggetto di fervente desiderio, come dice ancora Rodolfo Acquaviva: “siamo mandati come morti destinati fra mori così poco osservanti della parola” nelle mani di un “signor potentissimo, il quale in queste parti è come il Gran Turco nelle nostre, che tutti gli altri re tremano di lui”. Sono scelti per l’impresa tre padri, Rodolfo Acquaviva, Antoni de Montserrat e Francisco Henriquez con funzioni di interprete perché conosce il persiano, la lingua in uso alla corte moghul.

La figura di maggior spicco tra i padri inviati a Fatehpur Sikri è quella di Rodolfo Acquaviva. È figlio del duca di Atri, una cittadina vicino a Teramo. La famiglia è imparentata con le più nobili famiglie italiane, tra cui i Gonzaga di Mantova. Uno zio, Claudio Acquaviva, diventa il 9 febbraio 1581 generale della Compagnia di Gesù. Due fratelli sono più tardi nominati cardinali. Rodolfo è il più giovane del gruppo di missionari inviati a Goa, essendo nato nel 1550, ma ottiene il maggior numero di voti nell’elezione. Un segno della stima di cui gode tra i confratelli.

Antoni de Montserrat è un nobile catalano che ha incontrato Ignazio di Loyola ed è entrato nella Compagnia, in cui ricopre importanti cariche. È stato precettore del re Sebastiano I del Portogallo. Nel 1574 viene inviato in India, alla casa madre dei gesuiti a Goa. Nel corso della missione alla corte di Akbar viene incaricato di insegnare il portoghese al secondo figlio dell’imperatore, Murad. Nel 1581 accompagna Akbar in una spedizione nel Nord del Paese. Visita l’Himalaya, il Kashmir, il Punjab e parte del Tibet; è il primo europeo a cartografare l’Himalaia; redige, nel corso di quattro anni, la prima raccolta europea di notizie su queste regioni. Nel 1588 riceve dal re di Spagna Filippo II l’incarico di andare in Etiopia a diffondervi il cristianesimo (anche se l’Etiopia era già cristiana copta fin dai primi secoli della nostra era). Lascia Goa travestito da mercante armeno ma viene tradito dal capitano della nave e consegnato al sultano di Hadramawt, che lo cede al governatore turco dello Yemen. Rimane in prigione a Sanaa fino al 1595, quando viene condannato al remo sulle galee turche nel Mar Rosso. Si ammala gravemente, cosa che non stupisce se si considera la condizione degli schiavi sulle galere e l’età avanzata del padre che ha quasi sessant’anni. Viene riportato in carcere e alla fine, nel 1597, riscattato per la cifra astronomica di mille ducati, torna in India dove muore nel 1600 nell’isola di Salsette, enclave portoghese nella zona su cui sorge oggi Mumbai.

Di Francisco Henriquez sappiamo solo che è nato intorno al 1538 in una famiglia persiana, è stato educato a Ormuz ed è poi entrato nella Compagnia di Gesù per cui lavora a Salsette prima di partecipare alla missione presso il moghul. È un musulmano apostata e, se viene scoperto, corre il rischio di essere condannato a morte. Al ritorno si stabilisce nel collegio gesuita di Goa, dove muore nel 1597.

Aspettative deluse 

I padri arrivano alla capitale di Akbar, Fatehpur Sikri, “Città della vittoria”, il 28 febbraio 1580, dopo un viaggio per mare e per terra di oltre due mesi. Durante il viaggio i padri passano da Navsari, un centro religioso parsi. I parsi sono zoroastriani e hanno orrore dei cadaveri, che non possono essere toccati, dunque li espongono agli avvoltoi nelle torri del silenzio perché non contaminino il fuoco, la terra e l’acqua, che sono sacri. Un parsi che sta parlando con padre Acquaviva lo vede aprire un cofanetto contenente una reliquia di santo Stefano, il primo martire, e gli esprime il suo disgusto per questo contatto con corpi morti. Acquaviva replica: “noi non portiamo le ossa dei morti ma quelle della vita”. (Le reliquie si possono venerare. Il Concilio di Trento ha respinto la posizione della Riforma che vede nel culto dei santi e delle reliquie delle forme di superstizione).

La capitale di Akbar, Fatehpur Sikri, costruita tra il 1571 e il 1585 e abbandonata intorno al 1600 per insufficienza di acqua, è di una bellezza abbagliante. Nel complesso, progettato da Akbar, elementi architettonici indù e musulmani si fondono armoniosamente. La città è circondata da un’ ampia cerchia di mura interrotta da nove porte. Nel punto più alto sorgono la Jama Masjid, la moschea principale, terminata nel 1572, e la tomba del santo sufi Salim Chisti, l’ unico edificio di candido marmo di tutta la città, completato nel 1581. Alla benedizione del santo sufi l’imperatore attribuisce il fatto di aver avuto, dopo una lunga attesa, tre figli maschi, necessari per la successione. Accanto agli edifici sacri sorge il Rang Mahal, il palazzo dei colori, in cui risiede Mariam-uz-Zaman la sposa principale indù di Akbar, poi convertita all’islam, madre del suo successore Jahangir.

Nella parte orientale della città, già terminata al momento della missione, si trovano il Panch Mahal o quintuplice palazzo, così chiamato perché costruito su cinque piani digradanti a formare una torre dei venti, usato dalle donne della corte come padiglione privato, e la Nagina Masjid, la moschea delle donne, che sorge accanto a un giardino su cui si affaccia il Sunhara Makan, o casa dorata, così chiamata per le decorazioni in oro in stile persiano che ne ornano le pareti, in cui vive la madre di Akbar. Di fronte al Panch Mahal si trova l’Ankh Michauli, che ospita la tesoreria, dove Akbar gioca a nascondino la sera con le sue donne. Al centro della città è il grande cortile con la scacchiera per il gioco del pachisi, una specie di dama. Di fronte si trova l’Anup Talao Mahal, il palazzo della sposa principale musulmana di Akbar. Sul lato nord del cortile sorge il Diwan-i-Khas, la sala delle udienze private, l’ edificio più bello, decorato con simboli musulmani, indù, cristiani e buddisti, il luogo in cui Akbar discute di filosofia e di religione con i suoi ospiti seduto in un pulpito circolare collegato ai quattro angoli della stanza che simboleggiano i quattro angoli dell’universo. Dietro la sala delle udienze private sta il Diwan-i-Am, la sala delle udienze pubbliche, in cui si trova il trono.

I padri sono accolti con riguardo, alloggiati in un’ala del palazzo riservata agli ospiti importanti, e hanno a loro disposizione anche un oratorio. Akbar offre ai gesuiti una somma ingente, ottocento pezzi d’oro, che i padri rifiutano. Il giorno del loro arrivo l’imperatore rimane a conversare con i padri fino alle otto di sera. Pochi giorni dopo i missionari presentano in un’udienza pubblica i doni che hanno portato da Goa, tra cui una preziosa Bibbia di Plantin, capolavoro dell’arte libraria europea in quattro lingue, che, stando alle lettere dei gesuiti ai confratelli, il moghul avrebbe baciato. Nei giorni successivi Akbar visita più volte l’oratorio con i tre figli e con dignitari della corte. Akbar mostra interesse per l’immagine della Madonna che i padri hanno collocato nell’oratorio. Del quadro lo interessano gli aspetti stilistici e invita gli artisti di corte a riprodurlo. La Madonna è una figura venerata nell’islam, ma l’immagine portata dai gesuiti è una novità per la corte di Akbar, perché incorpora il frutto delle rivoluzioni artistiche avvenute a Roma, Firenze e Venezia nel Cinquecento.

All’inizio i padri hanno l’impressione che Akbar sia conquistato dai loro discorsi: «il più grande desiderio che ora tiene è sapere qual è la vera lege di Dio, porque tiene la sua lege [l’islam] per falsa e non dà nessun credito alli suoi sacerdoti, que chiamano mulas», scrive Rodolfo Acquaviva il 18 luglio 1580 al generale della Compagnia padre Mercurian. Presto però i padri capiscono che Akbar non può accettare i principi del cristianesimo – la trinità, l’incarnazione e la passione. Inoltre, voci dell’intenzione del moghul di abbandonare l’islam provocano disordini nel Paese. I padri si mettono in urto anche con i membri indù della corte criticando la pratica del sati, il rogo rituale delle vedove, che invece i rajput che sono influenti a corte come ministri e generali considerano un gesto religioso eroico. Scrive Acquaviva: «li gentili ci vogliono male por que habiamo publicamente ripreso il costume que qui ha de se abrusciar nel foco le moliere vive con li corpi delli mariti; et habiamo ditto al re que non faceva bene en dare favore a tal cosa».

Quanto ai musulmani, già ostili ai cristiani, essi certamente non apprezzano gli insulti al profeta, il cui nome i musulmani pronunciano sempre accompagnato da formule di benedizione. Padre Acquaviva nella lettera del 18 luglio 1580 a Mercurian dice che «in presentia del re e di tutti li suoi» aveva dato a Maometto dell’“Anticristo” (dell’“impostore” e del “bugiardo”, secondo le fonti persiane). Parole che gli costerebbero la vita se non fosse protetto da Akbar: «si que, por esquitar la sententia ja data, non si spera [non si attende] se non la morte del rei» (Roscioni 2001). Acquaviva non si preoccupa delle difficoltà che il suo atteggiamento crea  all’ospite e dell’ostilità che le sue parole producono. La morte non gli fa paura, anzi è desiderata: «la maggior allegrezza que in queste parti tengo… è star molto vicino al martirio, porque confessi sumus et non negavimus [abbiamo professato la nostra fede e non abbiamo mai ritrattato]». E persino: «non ci martirizzeranno mai, questi infedeli?» (Roscioni, 2001).

I gesuiti non piacciono alla corte: il nero dei loro abiti sembra infausto a una corte che usa colori squillanti per abiti, veli, turbanti. Padre Acquaviva scrive il 30 luglio 1581 a un confratello: «questa gente ci chiamano in sua lingua sseapux [syiapus, in persiano] que vole dire vestiti di negro, que pare che vogliono dire diavoli incarnati, porque in queste parti nessuno veste di negro; altri ci ciamano ragagis, que vuol dire heretici, altri cafforri que vol dire homini senza lege». Una miniatura del 1603 dipinta da Narsingh, un artista al servizio di Akbar, evidenzia il contrasto cromatico fra i padri vestiti di tonache nere ed alti cappelli neri a fianco di Akbar che indossa un abito arancione con una fascia verde circondato dai cortigiani vestiti di giallo, bianco, rosso e blu.

Il moghul è sempre cortese ma non sembra propenso a convertirsi. I padri però non perdono la speranza. Il 25 aprile 1582 allo zio generale che lo invita a tornare a Goa Rodolfo Aquaviva risponde che Akbar «ci dà miglior speranza de sé che il tempo passato et vole sapere de la lege d’ Iddio et lo fa con più diligentia que prima et si mostra affectionato alla nostra lege», anche se «impedimenti» esterni lo trattengono sulla via della conversione. Akbar non pensa affatto di diventare cristiano, anzi sta per proclamare nei suoi domini la tolleranza religiosa e proporre una religione sincretistica, la Din-i-Ilahi o “Dottrina della fede divina”. Alla fine, nel 1583, i padri abbandonano il progetto di convertire Akbar e tornano a Goa, ma i rapporti con il moghul rimangono cordiali, tanto che in seguito padre Acquaviva viene invitato dal moghul a incontrarlo a Lahore.

Sufismo e tolleranza

Akbar è sempre stato, fin dalla giovinezza, influenzato dalla tradizione sufica, che è fortissima in India. L’idea di “conversione” a una Chiesa dispensatrice unica di salvezza, che è il presupposto della missione dei gesuiti, gli è estranea. I padri vanno in missione per salvare le anime dei pagani; credono fermamente che essi siano dannati se non vengono battezzati. Un’idea del genere è lontanissima dall’orientamento sufico che forma, fin dai tempi del profeta, il cuore mistico dell’islam, specie di quello sunnita.

Un grande storico dell’India, William Dalrymple, spiega come anche oggi il sufismo favorisca il sincretismo religioso e la tolleranza tra fedi diverse. Egli racconta come funziona il tempio-mausoleo del santo sufi Lal Shabatz Qalander che sorge nel villaggio di Shehwan Sharif, una zona rurale del Sindh che si trova nel Pakistan meridionale. Nel tempio e intorno a esso indù e musulmani si mescolano senza tensioni, convinti che «tutti gli dei sono uno solo». «In questa zona i templi e i mausolei sufi sono il principale centro di devozione in quasi tutti i villaggi perché il sufismo, con i suoi santi e le sue visioni, le sue guarigioni e i suoi miracoli e la sua ricerca individuale di una conoscenza diretta del divino, ha sempre avuto una notevole somiglianza con certe correnti del misticismo indù. Tutte le religioni sono una sola, sostenevano i santi sufi, sono manifestazioni differenti della stessa realtà divina. Ciò che era importante non era il vuoto rituale del tempio o della moschea ma capire che la divinità può essere raggiunta passando dal cuore umano – abbiamo il paradiso dentro di noi, se sappiamo dove guardare. I sufi credevano che questa ricerca di dio dentro di sé e la ricerca del fana – l’immersione totale nell’assoluto – liberasse il credente dalle pastoie dell’ortodossia permettendogli di guardare, al di là della lettera della legge, alla sua essenza mistica. Questo permise ai sufi di unire indù e musulmani in un movimento popolare che superava l’abisso apparentemente incolmabile tra le due religioni. Gli insegnamenti della poesia e dei canti sufi crearono un legame tra le devozioni della gente dei villaggi e le raffinate speculazioni filosofiche dei mistici».

Ora come allora i sufi sono malvisti dai fondamentalisti, che quando possono – cioè quando pensano di non destare reazioni troppo ostili nella popolazione locale – fanno saltare con la dinamite i mausolei sufi, ai loro occhi colpevoli di fomentare l’empietà. La posizione dei padri gesuiti non potrebbe esser più lontana da quella dei sufi: mentre i primi sono impegnati nella difesa di un’ortodossia imposta con le persecuzioni dei dissidenti e delle minoranze religiose, i secondi promuovono esperienze religiose comuni a indù e musulmani e legano la fede dei contadini dei villaggi alla cultura religiosa “alta” musulmana e indù usando la poesia, la danza, l’ascesi e i poteri di guarigione dei santi.

Dalrymple descrive una festa, il dhammal, che viene tuttora celebrata presso il mausoleo di Qualander. Il nome della festa deriva dal tamburo damaru con cui il dio indù Shiva fa rinascere il mondo dopo averlo portato alla distruzione con la sua danza. La festa sufica mantiene la memoria dell’antico rito indù e lo traghetta in un contesto islamico, cosa scandalosa per i fondamentalisti di entrambe le religioni. Nella festa c’è tutto ciò che essi odiano: la venerazione del santo e del corpo custodito nel mausoleo, la musica, la danza, la trance. Soprattutto li disturba il fatto che le donne partecipino insieme ai maschi. «Sulla destra del cortile, mentre gli uomini danzavano, le donne prendevano la musica in modo molto diverso. Alcune danzavano come gli uomini: una bella signora anziana saltava di qua e di là tenendo alto il suo bastone. Ma la maggior parte delle donne si era riunita in piccoli gruppi, ciascuno dei quali circondava una donna in trance. Mentre le loro madri e sorelle le sostenevano, le donne possedute sedevano a gambe incrociate ma con la parte superiore del corpo che ondeggiava e si agitava e gli occhi riversi, con i lunghi capelli che si aprivano a ventaglio mentre roteavano selvaggiamente la testa al ritmo dei tamburi».

Molte donne vanno al dhammal per essere guarite perché anche nel rito sufico, come nei rituali sciamanici, la trance è un dispositivo di cura. «L’estasi del dhammal è una valvola di sicurezza che fornisce uno sfogo alle tensioni che altrimenti non avrebbero modo di esprimersi in questa società molto conservatrice. Il dhammal è noto per la sua capacità di curare, e nel Sindh – come dappertutto nell’islam sufico – si crede che una malattia che sembra essere fisica, ma che in realtà ha le sue radici in un’afflizione dello spirito, può essere curata dalla musica e dai tamburi sufici. Si spera che mandando le donne in trance le loro ansie e preoccupazioni verranno calmate e, alla fine, curate». Di Akbar le fonti segnalano la «disposizione alla preghiera e alla meditazione», e anche «un’estasi che avrebbe avuto nel maggio 1578 durante una caccia».  A questa sensibilità religiosa si aggiunge la diffidenza per le rigidezze dottrinali, le sacre scritture e le autorità religiose che accomuna Akbar e il movimento sufico. La Din-i-Ilahi, la “Dottrina della fede divina”  proposta da Akbar, raccomanda di praticare virtù come la pietà, la prudenza, la gentilezza verso gli altri e di evitare la violenza, l’arroganza e la sensualità. Il figlio e successore di Akbar, Jahangir, nelle sue memorie scrive: «nella vastità della Divina Compassione c’è posto per tutte le classi e per i seguaci di tutti i credi… così nei suoi [di Akbar] domini c’era posto per quelli che professavano opposte religioni e la via della discordia era chiusa. I sunniti e gli sciiti si riunivano in una sola moschea, i franchi e gli ebrei in una sola chiesa, e ciascuno osservava la sua forma di religione».

La politica di tolleranza religiosa di Akbar è accolta con favore dai suoi sudditi, che apprezzano i benefici che essa porta all’impero, ma non piace ai fondamentalisti che ritengono loro dovere distruggere i templi indù e sostituirli con moschee.

Il desiderio delle Indie

Poco dopo la conclusione della missione a Fatehpur Sikri l’aspirazione al martirio di padre Rodolfo Acquaviva si realizza: il 15 luglio 1583 egli viene ucciso a Salsette, un’isola su cui oggi sorge Mumbai, insieme a quattro confratelli. Nell’isola, che ospita un grande centro religioso indù, è sorta una comunità cristiana malvista dalla popolazione locale, che è legata anche economicamente ai numerosi templi indù. I portoghesi, per difendere i cristiani, lanciano nella zona un raid in cui vengono distrutti circa 280 templi indù. Poco dopo il raid, arriva a Salsette per confortare la comunità cristiana locale il gruppo di cinque gesuiti guidato da padre Acquaviva. Del gruppo fa parte un lombardo, Pietro Berni, che spinge il suo zelo fino a uccidere con le proprie mani una vacca, animale la cui uccisione costituisce un sacrilegio per gli indù, e ad abbattere la statua di una divinità indù, altro atto sacrilego dato che il credente ritiene che il dio viva nella statua. La reazione non si fa attendere: «mentre i cinque gesuiti erano intenti a scegliere nel villaggio di Cuncolim il luogo in cui erigere una chiesa furono investiti – Valignano [il superiore dei gesuiti per tutta l’Asia] racconta – da indiani che gridavano: “ammazza ammazza questi fattucchieri perturbatori del nostro Paese e destruttori dei nostri dei”». Più di tre secoli dopo, il 30 aprile 1893, padre Acquaviva e i suoi confratelli sono beatificati da papa Leone XIII.

Il resoconto della “felice morte” dei cinque missionari viene diffuso in tutto il mondo cattolico dalla Relatione della felice morte di cinque religiosi della Compagnia di Gesù stampata a Roma dai gesuiti nel 1585. A partire dalla seconda metà del Cinquecento le notizie delle missioni gesuite vengono diffuse da una pubblicazione annuale, le Litterae annuae, che hanno un’enorme influenza all’interno e all’esterno della Compagnia. Le Lettere dalle Indie sono uno strumento importante di «un sistema fondamentale grazie al quale un gruppo ristretto e disperso poté raggiungere il duplice obiettivo di mantenere una forte compattezza interna e di alimentare vivai di devoti all’esterno».

La decisione di pubblicare le lettere è presa dai vertici della Compagnia il cui segretario, padre Juan de Polanco, ne detta le forme di scrittura e di circolazione. Le lettere fanno sognare ai giovani religiosi «lunghissimi viaggi per terre incolte, per montagne e per boschi in estranei Paesi, navigazioni per attraverso l’oceano, e quivi rompimenti e naufragi; insidie e assalimenti di barbari, tempeste di sassi e di saette, pericoli di veleno» come osserva con bonaria ironia il padre Daniello Bartoli nella sua storia della Compagnia di Gesù. Soprattutto, le lettere stimolano l’emulazione e accendono la sete di martirio che padre Rodolfo Acquaviva aveva manifestato con tanto fervore.

Condividi:

Giuseppe Mantovani

Ha insegnato psicologia sociale all’università di Milano e poi in quella di Padova. Ha fatto ricerche e interventi sulle nuove tecnologie, le differenze culturali, l’educazione interculturale. Sull’educazione interculturale ha pubblicato L’elefante invisibile (Giunti, 1998), Intercultura (Il Mulino, 2004), Spezzando ogni cuore (2012). Per seguire il suo lavoro di ricerca si rinvia al sito: www.spezzandoognicuore.it.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it