In occasione del nostro ultimo incontro, un mese fa circa, ci eravamo lasciati con la promessa di vederci presto a cena, insieme alla mia famiglia: desiderava rivedere il mio figlio più piccolo, che aveva conosciuto di pochi mesi e della cui crescita aveva notizia solo dai miei racconti.
Le nostre chiacchierate erano così, in effetti: ci vedevamo per parlare di lavoro, ma presto il discorso di allargava a comprendere il mondo intero, seguendo la traccia esile (e talvolta esilarante) di un’aneddotica in cui Remo era maestro, per poi ripiegare sul nostro privato, di cui eravamo entrambi curiosi: i miei ragazzi, le sue nipoti, i colleghi, i conoscenti, Stanford, Torino…
Non posso dire che fossimo amici: troppa la distanza anagrafica e culturale, breve e sporadico il tempo della nostra frequentazione.
Il nostro era nato come un rapporto di lavoro, cinque anni fa, e aveva preso quasi subito la sua forma definitiva: una serie più o meno costante di incontri per fare il punto della situazione e per discutere degli aspetti pratici e teorici della nostra collaborazione.
A quegli appuntamenti, io mi recavo con l’apprensione che mi danno sempre i progetti ambiziosi: Remo stava riscrivendo integralmente, e da solo, la sua opera scolastica più famosa, Il materiale e l’immaginario. Un monumento della scuola che fu; un pilastro nella formazione di intere generazioni di studenti italiani; l’unico testo di scuola che sia riuscito a sfondare il muro di diffidenza che circonda abitualmente la manualistica, per assurgere al rango di icona.
Tecnicamente, lo faceva perché glielo avevo proposto io, in occasione del nostro primo incontro; in realtà, perché da tempo aspettava l’occasione di riprendere un discorso interrotto: la sfida culturale al sistema che, insieme a Lidia De Federicis, aveva lanciato quasi quarant’anni fa.
“La battaglia l’abbiamo persa”, ripeteva spesso, giudicando l’evoluzione delle pratiche didattiche degli ultimi anni, “ma questo non è un buon motivo per arrendersi: meritiamo la rivincita!”.
Da quegli incontri, insieme alla rinsaldata fiducia nel progetto comune, io portavo a casa sempre qualcosa: un’idea nuova, uno sguardo più acuto, una connessione inaspettata.
Nelle sue parole, dense e pacate, ritrovavo intera e cristallina una visione del mondo, della vita, della cultura.
Ritrovavo, soprattutto, il pensiero e la passione che mi hanno spinto a fare questo lavoro; la ragione e il sentimento che ancora me lo fanno amare.
[Remo Ceserani collaborava a La ricerca tenendo una rubrica intitolata Convergenze.]