Chi paga i debiti dei genitori?

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La riflessione sull’equità fra generazioni dovrebbe essere particolarmente sviluppata in Italia: l’enormità del nostro debito pubblico, infatti, costringe i giovani a pagare i debiti contratti dai propri genitori. Ma questi rispondono d’averli mantenuti, in cambio, come “bamboccioni”. Abbiamo chiesto a un economista se è possibile stabilire chi ha dato e chi ha avuto di più.

40_foto01 A differenza della seconda metà del secolo precedente, in cui il problema del conflitto tra generazioni veniva prevalentemente discusso nei suoi risvolti socio-culturali, l’arrivo del nuovo secolo ha visto prevalere nel dibattito, non solo accademico ma anche politico, un punto di vista più strettamente economico, particolarmente incentrato sul tema delle pensioni. In effetti l’evoluzione demografica dei paesi avanzati a partire dal secondo dopoguerra ha creato notevoli difficoltà ai sistemi pensionistici non solo dei paesi europei ma anche di quelli extra-europei caratterizzati in genere da un welfare meno generoso.

Tuttavia i nodi del problema non si riducono solo alla questione pensionistica ma investono l’intero sistema di welfare e della spesa pubblica nonché, come corollario non secondario, del debito pubblico con tutte le sue implicazioni di trasferimenti inter-generazionali.Possiamo immaginare in astratto che la convivenza tra generazioni, così come quella all’interno di una singola generazione, sia regolata da una sorta di contratto sociale in parte implicito e privato e in parte esplicito e governato da regole e istituzioni pubbliche.Nella dimensione privata i genitori curano i figli e li sostengono fino a che questi non diventano indipendenti mentre i figli supportano i genitori con cure e assistenza quando questi sono anziani.

Nella dimensione pubblica lo Stato, a sua volta, si fa carico di organizzare un sistema di servizi sociali universalistici finanziandolo con il prelievo fiscale accompagnato (almeno in Europa) da un sistema pensionistico non rischioso, ovvero di tipo non assicurativo, finanziato con il prelievo contributivo. Negli Stati democratici l’uno e l’altro dovrebbero essere, almeno in linea di principio, ispirati a principi di equità (sostanziale e non solo formale) tra cittadini coevi e tra generazioni.Com’è noto l’equità intergenerazionale dei sistemi pensionistici è stata messa in forse dal venir meno delle ipotesi su cui essi sono stati costruiti a partire dalle riforme degli anni Settanta.

In particolare sotto il profilo demografico si sono innalzate notevolmente le speranze di vita, con il conseguente allungamento della durata del periodo di godimento delle pensioni, mentre si sono significativamente abbassate le prospettive di crescita dei redditi totali e pro-capite. Nei paesi caratterizzati da sistemi pensionistici privati (in genere co-gestiti da imprese e lavoratori) a queste cause si sono poi aggiunte le ricorrenti crisi finanziarie che hanno reso più incerto, quando non l’hanno ridotto, il valore dei fondi pensione e quindi dei vitalizi che essi potevano garantire.Quanto al fattore demografico, si tenga conto che la speranza di vita alla nascita, che nel 1959 era in Italia poco più alta di 65 anni, nel 2010 (peraltro proprio grazie al welfare) ha superato di recente i 79 anni per gli uomini e gli 84 anni per le donne. Ora, senza ricorrere a complicati modelli attuariali, è del tutto evidente che se, a cinquant’anni dalle riforme pensionistiche del secolo scorso, si inizia a lavorare (in media) quasi dieci anni dopo e se si vive (in media) oltre dieci anni in più, per mantenere l’equilibrio tra i propri versamenti contributivi e il proprio reddito pensionistico, è necessario lavorare (in media) fino a una età maggiore di altrettanti anni che in passato.

Altrimenti, a parità di reddito pro-capite, bisogna accettare una decurtazione di circa un terzo dell’assegno pensionistico o, alternativamente, aumentare di quasi un terzo i versamenti contributivi con una riduzione pro-tanto del reddito lavorativo netto. Ciò, naturalmente, se si vogliono evitare altri aumenti di tasse oppure del debito pubblico che prima o poi sarà pagato dalle future generazioni.Nel caso italiano tuttavia il problema non è solo quello pensionistico ma riguarda l’intero sistema di welfare, come mostra il valore del rapporto tra spesa pubblica dedicata alla parte anziana della popolazione rispetto a quella dedicata alla parte più giovane. Se si esaminano i dati sulla destinazione della spesa sociale nei diversi paesi Ocse, esclusa la spesa sanitaria, si stima infatti che il valore del rapporto tra spesa dedicata agli anziani e quella dedicata ai giovani è in Italia pari a 3,5, contro una media di 1,7 nei paesi dell’Europa continentale, di 1,2 nei paesi anglo-sassoni e di 0,8 in quelli scandinavi.

 

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In particolare, secondo i dati del Social Expenditure Database dell’Ocse (2005), la percentuale sul Pil della spesa per assegni familiari, assenze per maternità-paternità e altri aiuti per i figli non supera l’1% contro una media del 2,1% dei paesi Ocse, e livelli superiori al 3,5% nei paesi nordici. Ciò sembra testimoniare che la dimensione pubblica del contratto tra generazioni italiane sia squilibrata non solo a causa delle pensioni ma anche del basso livello di spesa pubblica dedicata alle giovani generazioni (come quella per fornire servizi di cura per figli in età pre-scolare o di supporto alla maternità-paternità). L’evidenza dello squilibrio degli scambi inter-generazionali emerge facilmente se si analizza poi l’andamento dei redditi medi relativi (si badi, non assoluti) dei vari gruppi d’età sulla base dei dati della Banca d’Italia.

Dalla fine degli anni Settanta a oggi si assiste infatti: (i) all’aumento di circa il 5% del reddito relativo di un gruppo della popolazione già abbastanza benestante, ovvero quello delle famiglie con età di riferimento tra i 51 e i 65 anni; (ii) al forte miglioramento (circa il 15%) delle condizioni degli ultrasessantacinquenni, un gruppo prima assai svantaggiato; (iii) un forte peggioramento (quasi il 20%) della posizione delle famiglie sotto i 30 anni. Secondo questi dati, dunque, chi alla fine degli anni Settanta aveva intorno ai trent’anni ha sperimentato una fase di crescente benessere (curiosamente proprio i protagonisti del Sessantotto). Purtroppo però i destini delle coorti successive, fino ad arrivare ai loro figli, hanno subito da allora un progressivo deterioramento medio. Ci si potrebbe tuttavia domandare se ciò possa essere compensato nella sfera dello scambio privato tra generazioni.

La risposta a questo quesito è piuttosto articolata ma non del tutto positiva. In effetti se si esaminano i dati dell’Indagine ISTAT su Famiglie e Soggetti sociali del 2004 risulterebbe che la frequenza (o probabilità) di ricevere aiuto dai figli cresce con l’età arrivando al 13,3% dopo i 65 anni, così come quella di riceverlo dai genitori scende progressivamente dal 14,1% sotto i trent’anni fino quasi a zero dopo i sessantacinque. Questa simmetria sembra autorizzare l’impressione di una sorta di scambio perfetto e quindi equilibrato nella sfera privata. Tuttavia l’equilibrio dello scambio privato non sembra essere in grado di riaggiustare lo squilibrio della sfera pubblica che richiederebbe, al contrario, un aiuto compensativo molto maggiore dei padri ai figli giovani. Le ricerche comparative a livello Europeo (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) sembrerebbero inoltre evidenziare che l’aiuto ai figli prende in Italia due forme peculiari, ovvero l’allungamento del periodo di convivenza in famiglia e, successivamente, un tipo di aiuto (in media) più episodico ed emergenziale che continuo e diffuso nel tempo.

Si direbbe che questo costituisca l’evidenza dell’addebito di bamboccioni ai nostri attuali figli, non molto gradito all’opinione pubblica italiana ma purtroppo documentato statisticamente dai confronti con gli altri paesi più avanzati.Di tutto ciò sono responsabili le famiglie o le politiche pubbliche? Anche in questo caso la risposta deve essere necessariamente piuttosto articolata. Da un lato le responsabilità pubbliche sono evidenti, visto che ancora oggi si stenta a trasferire parte dei fondi pubblici all’aiuto per i giovani in modo che la loro entrata sul mercato del lavoro e la loro autonomia finanziaria siano anticipate a un’età comparabile con la media europea. Le politiche a favore dei giovani di welfare italiano sembrano infatti fatte più di trasferimenti diretti o sconti fiscali che di azioni attive, a causa da un contesto politico-culturale che sovraenfatizza il ruolo della famiglia non solo come sussidiario ma anche come sostitutivo delle politiche rivolte ai giovani.

I documenti governativi più recenti (che risalgono al precedente governo) sono perfettamente in linea con quello che gli studiosi chiamano il modello del familismo per default. In essi si prevede il permanere di obblighi per le famiglie di assistere i soggetti che necessitano di aiuti e cure, senza però dare loro un sostegno adeguato ovvero senza immaginare un sistema di protezione sociale (come quello attuato in numerosi Paesi europei) che copra le necessità di cura di lungo termine di una popolazione che va invecchiando rapidamente.Dall’altro lato, tuttavia, non si può non sospettare che la generazione degli attuali sessantenni, che ha sperimentato un notevole balzo di benessere relativo nella recente storia italiana, abbia trasmesso ai propri figli aspettative circa il futuro destinate a essere smentite, in particolare circa la possibilità di ottenere facilmente e velocemente livelli di benessere paragonabili a quelli dei genitori.

 

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Ciò probabilmente ha creato una sorta di pretese minime per l’indipendenza economica (di remunerazione, di sicurezza e fissità del posto, e di livello di preparazione tecnico-culturale necessari) non più adeguate ai tempi.La creazione di posti di lavoro è aumentata infatti solo per posizioni ad alto contenuto tecnico-scientifico, che richiedono elevati standard formativi ed elevata mobilità. A sua volta la mobilità è costosa in termini di spese per la casa e impegnativa sotto il profilo delle decisioni di maternità-paternità. Non a caso i pochi figli che entrano sul mercato del lavoro presto e con prospettive remunerative paragonabili a quelle dei padri tornano ad appartenere (in media) a famiglie a reddito mediamente elevato che possono permettersi notevoli spese per l’istruzione.

Come se la conquista di una minore diseguaglianza e di un maggior benessere per tutti avesse generato aspettative tali da determinare la messa in discussioni di quelle stesse conquiste.Tutto ciò è poi aggravato dal circolo vizioso generato dall’invecchiamento della popolazione. Questo infatti ritarda l’uscita dal mercato del lavoro degli anziani proprio in un momento in cui i giovani avrebbero bisogno di entrarvi per guadagnare la loro indipendenza economica. Il dibattito sulla riforma di un mercato del lavoro che protegge troppo i lavoratori che hanno già un posto fisso (gli insiders) e poco quelli che sono in cerca del primo impiego (gli outsiders), in parte ideologico ma in parte reso inevitabile dalle condizioni attuali, ruota tutto intorno a questo problema.Di fronte a questa situazione ci si può domandare quale reazione sociale ci si possa aspettare da tutto ciò. In Italia la percezione del conflitto tra generazioni sembra essere ancora bassa rispetto ad altri paesi, nonostante che il conflitto sia potenzialmente più acuto che altrove. In parte ciò potrebbe dipendere dal fatto che i giovani hanno poca rappresentanza politica dentro un sistema istituzionale piuttosto gerontocratico.

Ma è anche possibile che essi, godendo tuttora degli aiuti di una generazione di genitori sufficientemente beneficiati da un welfare a loro favorevole, non riescano ancora a realizzare quali possano essere i loro destini di lungo periodo. In altri termini la nostra società potrebbe non essere capace di guardare sufficientemente in avanti perché in realtà troppo abituata a guardare indietro.In secondo luogo l’indubbio progresso dell’equità intra-generazionale fino all’inizio degli anni Novanta trova fondamento in un eccellente ordinamento costituzionale per quanto riguarda solo questo tipo di equità. Esso tuttavia poco dice, e forse poco poteva dire allora, dell’equità tra generazioni, della responsabilità a non lasciare debiti ai discendenti e di supportare le giovani generazioni.

D’altra parte gli stessi economisti hanno cominciato solo da pochi decenni a modellare la società come fatta di generazioni sovrapposte piuttosto che di un’unica generazione.In questo quadro le controversie affrontate dalle Corti supreme (e dai Tribunali amministrativi) su questo ordine di problemi sono state risolte quasi sempre in modo favorevole alle generazioni mature attraverso il riconoscimento dei loro diritti acquisiti. L’ondata delle sentenze degli anni Ottanta e dei primi Novanta su tali diritti sta ora ripiegando in nome di criteri interpretativi dei diritti sociali basati sul principio di ragionevolezza secondo cui questi possono essere garantiti solo sotto la condizione del rispetto dei vincoli del bilancio pubblico.

Poiché il rispetto di tale vincolo garantisce le generazioni future dall’eredità del debito, il principio di ragionevolezza assicura un più forte riconoscimento dell’equità inter-generazionale.I ritardi nella presa d’atto dei cambiamenti demografici ed economici sottostanti rendono molto impegnativa la transizione verso un modello di welfare più equilibrato. La ragionevolezza vorrebbe che si accettasse di porre i costi della transizione a carico del sistema fiscale per non creare ulteriore debito.

Dopo tutto nei Paesi scandinavi, dove maggiore è la spesa pubblica per i giovani, anche la pressione fiscale è maggiore che in Italia. È difficile però prevedere quanto ciò sia socialmente accettabile in un Paese come l’Italia, a lungo vezzeggiato con slogan tipo “meno tasse per tutti” e, nel contempo, deluso dalla scarsa efficienza della spesa pubblica che le tasse finanziano. È però vero che l’accettabilità sociale di questa transizione sarà tanto maggiore quanto essa e le politiche che la accompagnano si dimostrano rapide ed efficaci, il che richiede non solo la condivisione dei cittadini governati ma anche una capacità di andare oltre la ricerca del consenso di breve periodo e una determinazione operativa che gli ultimi governi non hanno saputo dimostrare. Non sembra essere un caso che l’Italia necessiti periodicamente di brevi ma intense fasi di governi tecnici che si possono permettere di affrontare le emergenze senza ricercare consensi immediati.

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