Chi ha ucciso l’Innominato?

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Ho atteso le vacanze estive per affrontare le oltre quattrocento pagine dell’ultima fatica dell’instancabile Ben Pastor, e cioè La fossa dei lupi. Come proseguono i Promessi sposi, Mondadori, Milano 2024. L’ho fatto non solo per la cospicua mole del volume, che richiede un po’ di tempo libero, ma anche perché per l’approccio a un’operazione come questa – un dotto divertissement che muove da uno dei capisaldi della nostra letteratura – ho preferito avere la mente libera da pastoie professorali.
La copertina del nuovo romanzo di Ben Pastor.

Alla luce della precedente produzione della scrittrice italo-americana – che è riuscita in numerosi romanzi (dei quali ho già più volte scritto su queste colonne, da ultimo qui) a trasformare in detective uno storico e militare romano come Elio Sparziano e un ufficiale nazista come Martin Bora – non avevo dubbi sulla riuscita di questo nuovo libro. Conosco poi personalmente l’Autrice, della quale ho sovente potuto apprezzare la grande cultura storica (archeologa di formazione, è particolarmente ferrata in questioni militari di ogni epoca) e la peculiare brillantezza intellettuale; inoltre, quando ho avuto modo di parlarle o intervistarla, Ben Pastor non ma mai negato che I promessi sposi siano un modello ineludibile di chi come lei mescola «storia» e «invenzione» nei propri lavori che spaziano, come si può ben comprendere da quanto anticipato, dall’antica Roma al Novecento.

Un sequel dei Promessi sposi

Esordisco dunque dicendo che il libro mi è molto piaciuto, e che il don Lisander credo che non sarebbe scontento di questo sequel, molto rispettoso e tutt’altro che parodistico, come invece spesso capita che siano le rielaborazioni del capolavoro manzoniano. E subito aggiungo che la narrazione comincia – come si suol dire – con il “botto”, e cioè con l’uccisione tra i monti del Lecchese dell’Innominato, qui chiamato spesso come nel Fermo e Lucia «Conte del Sagrato», e anzi proposto pure con le credenziali anagrafiche di Bernardino Visconti. D’altronde – mi verrebbe da dire – se gli 883 cantavano nel 1993 perfino dell’uccisione dell’Uomo ragno, non ci possiamo stupire neppure di questo illustre assassinio!

Ma lasciamo stare le facezie, e  torniamo al romanzo… Incaricato dell’indagine è il giovane e nobilissimo luogotenente di giustizia Diego Antonio Olivares, che si muove tra la sua Milano che sta faticosamente uscendo dalla peste, il Lecchese di Renzo, Lucia (qui tornati con Agnese dalla Bergamasca per far nascere il loro primo figlio) e dell’incorreggibile Don Abbondio, e la Monza dove sta scoppiando il caso che porterà Suor Maria Virginia a essere murata viva per decisione del Cardinale Borromeo.

Diego Olivares, l’indagine in un “mondo di lupi”

Diego agisce – spesso in coppia con il bargello Monti (qualche volta sembrano un po’ un po’ gli Holmes e Watson del 1631…) – in un contesto nel quale hanno un grande peso feroci mercenari di guerre più o meno recenti nonché una marea di bravi ormai disoccupati, sempre alla ricerca di qualche mezzo per sbarcare il lunario e potersi così permettere una bevuta all’osteria o la sosta in un bordello. Alludo a quelli di don Rodrigo e del cugino Attilio, entrambi morti di peste, e dei loro compari di giovanili e spesso violente sbruffonate; ma soprattutto quelli (un tempo terrore di mezza Lombardia) orfani del Conte appena ucciso, che avevano però in gran parte mal digerito la sua conversione al bene dopo una vita di crimini d’alto livello.
Inoltre, il fallito rapimento di Lucia sembra gravare ancora come onta collettiva sulla comunità di delinquenti che l’aveva ideato, formata, come suggerisce il titolo, da veri e propri «lupi»; essi avevano infatti organizzato una sorta di catena che, muovendo da don Rodrigo era arrivata a comprendere il Conte, ma che aveva anche coinvolto – per tramite dello «scellerato Egidio» (all’anagrafe Paolo Osio) – l’inquieta Signora del convento di Monza.
Sembrava perfetta, quella catena, ma la Provvidenza ha disposto diversamente, perché ne ha voluto incrinare l’ultimo e in apparenza più solido anello. Infatti è proprio da Lucia – umile e tremebonda prigioniera quanto potente strumento dalla Grazia divina – che l’Innominato ha appreso che «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia»!

Un’opera composita

Giuseppe Molteni, La monaca di Monza, 1847, Monza, Musei Civici

Di più non posso dire, ovviamente, se non che la risoluzione del caso non è semplice anche se forse non del tutto inattesa. D’altronde non è nello stile di Ben Pastor proporre thriller mozzafiato, bensì raffinate ricostruzioni di ambienti e di psicologie umane. Oltre all’indagine giudiziaria, infatti, Diego deve condurne una interiore: entrare nella Compagnia di Gesù o cedere alle lusinghe della bella, raffinata e dotta Donna Polissena de’ Stampi vedova Gallarati, una delle signore più illustri della Milano del tempo? Anche su questo non dico troppo, anche se forse – dato lo spirito anticonformista della nostra Autrice – possiamo presumere qualcosa…

Insomma: abbiamo una narrazione storica che da un lato si tinge di noir, dall’altro assume le fattezze del romanzo di formazione del suo tormentato protagonista. Due buone, ottime anzi, ragioni per leggerlo. Suggerisco di farlo senza fretta, gustando le numerose digressioni di taglio decisamente “pastoriano”, in un contesto generale che un po’ ricorda – si parva licet – sia il gusto di Italo Calvino per il metaromanzo, sia quello di Umberto Eco per la geniale ricostruzione della vita intellettuale di un’epoca.

Tra questi excursus ce n’è uno che riguarda marginalmente un ritratto giovanile di Marianna de Leyva, non ancora monacata, che mi sembra un omaggio neanche troppo criptato a tutta la produzione artistica cinque-seicentesca (a partire dal mio amatissimo Giovan Battista Moroni, al quale Ben Pastor ha riservato la copertina, per arrivare a Caravaggio e ai caravaggeschi…) che ha ispirato i Promessi sposi, nonché a quella che dal capolavoro manzoniano è stata successivamente ispirata, e che spesso ha privilegiato la figura della Monaca di Monza: e proprio di un ritratto di questa, opera del bravissimo pittore ottocentesco Giuseppe Molteni ma di recente riscoperta,  ho scritto su «La ricerca» qualche tempo fa.

La voce di Ben Pastor

Ho infine approfittato – come anticipavo – della conoscenza dell’Autrice per chiederle, a nome dei nostri lettori, quello che forse tutti vorrebbero domandarle, e cioè: «Ma come hai osato metterti sulla scia del grande Manzoni? Non hai temuto di essere – da un lato – accusata di superbia dai cultori dei I promessi sposi e – d’altro lato – di conformismo da chi Manzoni lo detesta?».

Ed ecco la sua risposta, con la quale mi piace chiudere questa mia recensione:

La domanda, o meglio la domanda e tutto ciò che essa implica, è giusta e puntuale. Mi ha fatto meditare sul ruolo che negli ultimi 150 anni il capolavoro manzoniano ha rivestito nella cultura italiana. Purtroppo, fatto salvo un numero sceltissimo ma ristretto di cultori, il romanzo è stato criminalmente relegato al basso rango di noiosa lettura scolastica. Imposta dall’alto, spesso spiegata male o non spiegata affatto («Leggete da pagina tot a pagina tot…»), ha ingiustamente languito e langue tuttora nel ghetto del disinteresse adolescenziale.

Non è che nessuno non abbia osato scriverne un seguito sui generis prima di me. È che non interessava a nessuno farlo. Il timore non era tanto quello di essere visti come iconoclasti postmoderni quanto quello di essere considerati secchioni, ahimè. Questa è la realtà in un paese dove un terzo della popolazione è funzionalmente analfabeta (dati che ci rimandano agli anni Venti del ventesimo secolo), e, per timore di incomprensioni culturali da parte delle nuove generazioni studentesche di origine italiana e straniera, stiamo pensando di togliere addirittura I promessi sposi – e non solo – dai programmi scolastici. I manzoniani con cui ho avuto il privilegio di parlare hanno trovato La fossa dei lupi gradevolissima e rispettosa, con loro comprensibile sorpresa.

Quando nel corso degli anni nei paesi anglofoni sono uscite riletture e sequels di Moby Dick, Orgoglio e pregiudizio, e altri romanzi fondativi, l’interesse è stato acceso e immediato, quale che fosse il taglio scelto dagli epigoni. In Italia fingiamo di venerare Manzoni ma in pochi abbiamo letto la sua prosa e la sua poesia. Ci vantiamo di Dante ma la maggioranza non saprebbe citare un passo anche solo della Commedia. Questa è la triste realtà. Infatti, il mio desiderio non era quello di provocare i cultori di Don Lisànder e tantomeno quello di épater les bourgeois. Mi spingeva il rimpianto per ciò che in passato questo grande romanzo ha significato per la nostra cultura, e mi stuzzicava l’idea estrosa di renderlo nuovamente interessante per un pubblico diverso da quello scolastico attraverso una reinvenzione che fosse al contempo filologica e spiritosa.

Se ci sono riuscita anche solo in parte, ne sono lieta. Per quel che mi riguarda, ho ancora una volta goduto nel leggere l’originale, nel frequentare la musica, letteratura, arti grafiche, credenze e superstizioni dell’epoca, e soprattutto nello strizzare l’occhio ai miei antenati Salazar, che contavano i grandi de Leyva nella loro varia e numerosa parentela.

¡ A Dios sean dadas las gracias de todo!

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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