A Monza c’è una nuova Monaca

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La recente donazione ai Musei Civici di Monza di un quadro di Giuseppe Molteni consente una riflessione sull’iconografia del celebre personaggio manzoniano.

Qualche anno fa (francamente pensavo meno, ma risaliamo addirittura al 2016!) scrissi su queste colonne un articolo a commento di una mostra allora visitabile al Serrone della Reggia di Monza dal Titolo La monaca di Monza. Ma quel pezzo muoveva, ancor prima che da quella esposizione (costituita per lo più di quadri, stampe, disegni, illustrazioni), dalla riflessione su un vecchio – ma non superato, a mio avviso – saggio di Omar Calabrese intitolato Iconologia della Monaca di Monza, contenuto in un’opera miscellanea (Come leggere i Promessi Sposi, Bompiani, Milano 1989), che proponeva un serrato confronto tra il testo manzoniano e le sue riletture pittoriche: soprattutto, si indagava sulle due diverse Monache di Giuseppe Molteni (1847, ora ai Musei Civici di Pavia) e Mosè Bianchi (del 1867, ora alla GAM di Torino). I due pittori lombardi, secondo il critico, condividevano entrambi aspetti di fedeltà e altri di tradimento dell’originale romanzesco; l’esito iconografico, però, era piuttosto diverso perché la monaca del primo aveva un che di pacificato, mentre l’inquietudine regnava sul volto e nella postura della suora dipinta dal secondo.

La donazione della famiglia Maggi ai Musei Civici

Giuseppe Molteni, La monaca di Monza, Monza, Musei Civici

Qualcuno, grazie al cielo, legge quello che scrivo. Tra i miei «venticinque lettori» (mi si perdonerà l’allusione manzoniana, in questo contesto quasi ovvia) ho così avuto il piacere di annoverare anche la signora Laura Maggi, persona che non conoscevo ma che dopo avermi letto ha avuto la cortesia di contattarmi (oggi non è poi così difficile) per raccontarmi una cosa che a me era colpevolmente sfuggita, complice – credo – la “reclusione” pandemica degli anni passati.
Infatti la sua famiglia (monzese, tra l’altro) custodiva (attenzione al verbo all’imperfetto…) uno splendido dipinto di Giuseppe Molteni anch’esso raffigurante la Monaca di Monza, dalle dimensioni di cm 118 x 145. L’opera era stata acquistata nel 1961 da Gino Maggi, padre di Vittoriano e nonno di Laura e Carlo, e la signora Laura mi ha raccontato della vera e propria passione, quasi un innamoramento, del nonno per quella «sventurata monachella», tale da suscitare la gelosia della nonna… La tela costituisce senza dubbio una variante del quadro oggi nelle collezioni pavesi, dipinta nello stesso anno, e l’autore sembra volere conferire alla scena lo stesso clima di pathos controllato (è forse un ossimoro?) del quale già si è detto: ma è fatto che ognuno può ora constatare con i propri occhi, perché nel 2020, dopo la scomparsa del padre, i fratelli Maggi – con l’assistenza dell’associazione “Amici dei Musei” – hanno liberalmente concesso in comodato gratuito il quadro ai Musei Civici di Monza, allora diretto dal compianto Dario Porta. Chissà se nonno Gino – alla cui memoria i nipoti hanno dedicato il loro gesto – ne sarebbe contento, o non sarebbe lui, stavolta, a essere geloso delle centinaia di sguardi rivolti alla “sua” Gertrude!

Chi scrive è non stato troppo rapido ad andare a vedere la novità museale, e ha lasciato passare – ancora una volta colpevolmente… – qualche mese di troppo. Ora però ho onorato la promessa fatta alla signora Laura, e pertanto posso condividere le mie impressioni con i lettori della Ricerca; impressioni – lo anticipo per correttezza – fatte con il mero spirito dell’osservatore emozionato e appassionato, senza nessuna ricerca d’archivio che possa contribuire a una vera contestualizzazione dell’opera.

Il quadro pavese e quello monzese

D’obbligo, direi, è muovere dal confronto con il più noto (finora, però, tra qualche anno vedremo) esempio di Pavia, del quale – già lo dicevo – si mantiene a prima vista (ma sarà poi davvero così?) l’impianto pittorico e il clima spirituale. Giuseppe Molteni (1800-1867) era infatti un grande ritrattista ed era abituato a non esasperare la psicologia dei suoi clienti nobili o borghesi: l’unico tratto di ribellismo, in entrambi i dipinti, è così l’arcinota manzoniana «ciocchettina di neri capelli» che compare sulla fronte, mentre – almeno nel quadro monzese – la contrizione per i peccati commessi sembra limitarsi al brillio di una lagrima.

Giuseppe Molteni, La Signora di Monza, Pavia, Musei Civici

Nel complesso, a mio avviso, l’opera dei Musei Civici di Monza spicca comunque per una maggiore luminosità rispetto a quella di Pavia: le ombre sul muro sono meno intense, la tonaca nera della suora campisce uno spazio cromatico minore, mentre la presenza di un tavolino accanto alla poltrona invece del comò alleggerisce non poco l’insieme. Più luce, più colore, inoltre, è data dal vaso di fiori che sostituisce l’unica rosa pavese appoggiata sul breviario; manca poi qui a Monza l’imponente crocifisso scuro che regge un Cristo eburneo, sostituito da un dipinto a parete che raffigura San Francesco. In entrambi i casi la penitente – che nel quadro monzese appare più giovane – non degna di uno sguardo l’immagine sacra e ciò ci consente di tornare a parlare della figura umana e osservarne le mani, giunte in preghiera nel quadro già noto: in quello di recente riscoperta, invece, la destra si intreccia nervosamente al cordone, mentre il pugno della sinistra funge da “appoggio” per il mento.

Un soggetto più complesso e pensoso

Questa postura sembra dare al soggetto monzese un che di pensoso, riflessivo (a me ricorda Il pensatore di Rodin…) e conferisce forse una più complessa umanità rispetto al quadro pavese a una Gertrude che ci appare un po’ più donna e un po’ meno monaca. Nulla a che vedere – intendiamoci – con la femminilità aggressiva della Monaca di Mosè Bianchi, in bilico tra disperazione e sensualità. C’è infatti qui – a mio avviso – sì l’immagine di un rassegnato pentimento, ma non manca neppure un accenno di flebile speranza, e – perché no? – di tacita denuncia. Di queste ultime due suggestioni fa fede lo sguardo (cui già ho fatto cenno) che non è abbassato a terra come nel dipinto pavese, poiché nella tela monzese la monaca sembra tenere gli occhi in una posizione intermedia, come se volesse rivolgerli sia verso Dio sia verso il suo umanissimo pubblico. A Dio chiederà – immaginiamo – perdono per i propri peccati, mentre guardando gli spettatori d’ogni epoca sembra voler denunciare tacitamente la condizione di oppressione che l’ha portata a commetterli; perché se è vero che è perfino arrivata a uccidere, questo mai e poi mai sarebbe successo se le rigide convenzioni sociali e familiari non l’avessero obbligata a essere «monaca per sempre».

Una conclusione

Mose Bianchi, La Monaca di Monza, Torino, GAM

Al termine di questa disamina, dunque, possiamo dire che – pur non sconvolgendo del tutto l’impianto e l’effetto d’insieme del quadro dei Musei Civici di Pavia – questo nuovo dipinto ci mostra qualche non insignificante variazione. Perché in fondo ogni opera d’arte, pur se condizionata da serialità e o riproducibilità, è frutto della potenza creativa di un determinato momento.

Questa nostra breve riflessione, inoltre, dimostra ancora una volta come i Promessi sposi non solo siano stati influenzati dalla grande pittura seicentesca lombarda (lo aveva già intuito Giovanni Testori!) e da Caravaggio in particolare (da ultimo lo sostiene Daniela Brogi, Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo, Carocci, Roma 2018) ma abbiano rappresentato un’inesauribile fonte di ispirazione per gli artisti di Ottocento (oltre a Molteni e Bianchi, va ricordato il grande Francesco Hayez: impossibile non alludere a tale proposito alle numerose mostre e ai fondamentali studi di Fernando Mazzocca) e Novecento (citerò solo i paesaggi di Ennio Morlotti, pittore da me amatissimo): d’altronde Alessandro Manzoni non volle forse la “Quarantana” illustrata dalle tavole di Francesco Gonin? Fu dunque lo stesso autore a dare vita a una sorta di ininterrotta “multimedialità” espressiva, nella quale il testo letterario è stato nel tempo affiancato da sue espansioni pittoriche, grafiche, teatrali, cinematografiche e finanche fumettistiche. E la cosa non stupisce anche in virtù dell’attenzione che il romanziere milanese dà sempre alla descrizione della corporeità e della fisicità dei personaggi, fenomeno di recente analizzato da Simone Giusti (A viso a viso. Corpi che si incontrano nei Promessi sposi, Quodlibet, Macerata 2022).

In questo mare magnum di manifestazioni iconografiche, certamente il quadro monzese occuperà d’ora in poi una posizione di tutto rispetto: non sarà pertanto inutile, credo, che i colleghi docenti che vivono e insegnano non troppo lontano da Monza portino i loro studenti a vederlo con i propri occhi.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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