Chi ha abitato la Torre di Babele?

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Veste i panni di Babele nel suo ultimo appassionante romanzo “L’albero di stanze” (Marsilio, 2015), Giuseppe Lupo, docente di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e collaboratore di «Avvenire» e de «Il Sole24Ore».

L’autore di Viaggiatori di nuvole, già premio Dessì, torna dopo tre anni a «far fantasticare» i lettori con la storia del medico sordo Babele Bensalem, cresciuto a Caldbanae (l’onirica Lucania dello scrittore, già presente in Atlante immaginario. Nomi e luoghi di una geografia fantasma, 2014), ma residente a Parigi con la moglie e le due figlie. Il protagonista varca di nuovo la soglia della dimora natia, ora in vendita perché destinata a trasformarsi in un hotel a cinque stelle, per svuotarla dei mobili e degli arredi. Ad attenderlo c’è Crocifossi, il guardiano della casa e del Al protagonista di questa fiaba, «ascoltatore di silenzi», i muri della domus familiae parlano e raccontano storie e desideri, memorie e preghiere, suoni e odori, autunni e primavere.mulino, sorta di Matusalemme, «enigma che dura da quando è nato il mondo» (p. 166); egli è lì fin da quando l’albero di stanze era una «promessa di virgulto». È lui ad accompagnare il protagonista nel viaggio a ritroso lungo il suo albero genealogico; è lui che conosce ogni angolo e sussurro della casa di famiglia, lievitata in altezza così come aveva stabilito bisnonno Redentore, discendente di re magio Balthasar, il quale celebrava ogni nuovo nato della stirpe dei Bensalem (in forte assonanza a Betlem) aggiungendo una stanza, un ramo, alla casa che pian piano saliva verso il cielo.
Al protagonista di questa fiaba, «ascoltatore di silenzi», i muri della domus familiae parlano e raccontano storie e desideri, memorie e preghiere, suoni e odori, autunni e primavere. La casa dove Babele è cresciuto è una «Bibbia di fiati» e narra la parabola della sua discendenza, vissuta cent’anni nel «tirabusciò» che buca le nuvole. Accade così che le pietre della «grande casa», impastate mescolando farina e sogni da Redentore, cavatore di pietre e mugnaio, comunichino ancora la meraviglia delle storie dei suoi inquilini: «ma adesso lascia che il racconto delle stanze si infili nelle mie orecchie. Non ci saranno altre occasioni e io credo che un uomo possa amare una e una sola casa: quella dove si arresta l’acqua del suo fiume, dove inizia e finisce la sua strada. Le altre sono un surrogato […] non è mai capitato di sentirmi come nel paradiso quadrato dove ho respirato la prima aria quarant’anni fa, in cima al ramo più alto e luminoso di casa Bensalem» (p. 81).

Entrare nelle stanze micro-universi della «casa verticale» e conoscere le storie intime e rocambolesche dei suoi inquilini significa salire i gradini di uno ziggurat. È un moderno Cantico dei gradini quello di Babele, novello Davide, che mentre sale riconosce le sue radici. Le vicende di ognuno si incastrano con le altre come in un puzzle incantato. I personaggi si muovono su una scacchiera del tempo, creano un universo geopoetico ben definito, dove si recuperano meraviglie solo a partire da determinate latitudini e longitudini. Le storie incredibili, È un moderno “Cantico dei gradini” quello di Babele, novello Davide, che mentre sale riconosce le sue radici.archiviate come faldoni nei mattoni del centro gravitazionale di Caldbanae, spalancano lo sguardo su verità rimaste a lungo intrappolate tra le crepe dei muri o, come recita l’incipit, a dondolare come stracci su fili di ferro: «È rimasto uno straccio a penzolare al filo di ferro dove mia madre appendeva i panni lavati. Nessuno se n’è accorto in questi anni. Dondola nel fumo dei camini che si accendono in inverno o con le rondini che in primavera accarezzano i tetti. Dondola anche ora, nonostante la pioggia. Forse qualcuno l’avrà lasciato in una delle rare occasioni in cui la casa è stata aperta, ma potrebbe anche risalire a quando ce ne siamo andati. Una dimenticanza, un errore di mia madre: prendi tutto, prendi tutto, poi alla fine scordi sempre qualcosa. Da allora non torno mai volentieri nel luogo dove sono nato: è come strappare un foglio di carta e cercare un rattoppo. Le stanze odorano di prigione, voci e rumori hanno smesso di arrivare alle tende dei balconi e fra i muri è rimasto intrappolato il tempo che spinge, spinge, urta contro le pareti e le porte, batte alle finestre per lo sforzo di uscire a tutti i costi fuori, nel grande pianoforte di tegole» (p. 11).

Leggendo L’albero di stanze, recentemente insignito del “Premio Alassio Centolibri – Un autore per l’Europa”, si perde a ogni passo qualsivoglia coordinata geografica, si lievita cullati nel tempo e si percorre un’ascesa verso il proprio sé più autentico: «più salgo e più mi avvicino ai perché della mia vita» (p. 107). Si respira il tempo lungo della storia qui, della memoria familiare – ritrovata, inseguita, ma, prima di tutto, ascoltata. Il racconto procede fluido e leggero e l’invenzione, visionaria e quotidiana, permeata da una vena surreale eppure così concreta, assume i tratti della leggenda: «I muri non ce la fanno a stare zitti […] cominciano un racconto che non conosco» (p. 15).

Non esiste memoria senza racconto. I personaggi sono una grande lezione sulla bellezza e sulla sacralità del tempo vissuto in famiglia: «il tempo è qualcosa che ci portiamo dentro, come il cibo, i ricordi, i sogni. Siamo noi il tempo» (p. 174). Una scrittura evocatrice, di un tempo lungo e sussurrato, ma che circonda la cronaca di una manciata di giorni, gli ultimi del 1999, quelli che preannunciano l’alba del nuovo Millennio.
La scrittura di Lupo è una scrittura metaforica.Quattro giornate vissute da Babele in un’aurea epica e che “fa attrito”, per dirla con Calvino, con i luoghi del passato, gli unici che aiutano a illuminare il presente, a dare senso all’orizzonte. E dalla casa verticale di Caldbanae alla Tour Eiffel il salto è breve. Le stanze si svuotano, gli intonaci si denudano e si scavalca il millennio al galoppo di comete, «macchine volanti» e «numeri vaganti»: «La discendenza dei Bensalem ha avuto la fortuna di credere nell’arrivo delle comete […] Non conta il tempo che voi Bensalem avete perduto, né quando lo riguadagnerete, eppure ve lo troverete davanti, questo tempo, limpido come un cielo di fine secolo, un manto stellato che avete imparato a fissare dai vostri abbaini. E ritroverete anche i paradisi in cui avete creduto, riconoscerete gli attimi eterni che avete messo da parte giorno per giorno, accumulati nell’immenso granaio che è la vita. Perché questo è il vostro paradiso: alzare la torre e raccontare» (p. 238). Eppure, resta in piedi un muro portante, un architrave emozionale. È il tempo vissuto in quella casa, non più spazio fisico, ma sacrario dei ricordi, che appartiene al protagonista «come il guscio alla lumaca o la corazza alla tartaruga», perché «è la vita che te la mette addosso» (p. 173).
La scrittura di Lupo è una scrittura metaforica. Costitutivamente metaforica. Perché tanto la geografia quanto l’utopia funzionano in virtù di un meccanismo di avvicinamento di rimandi, di appaiamento di significati tra realtà e fantasia, in cui le storie sono rievocate come echi, miti, scritture antiche. I tanti oggetti disseminati lungo il racconto (la forza simbolica del gelso piantato da bisnonno Redentore o, ad esempio, i letti di quella casa: «tutto è cominciato qui… qui si è spalancato il tempo dei figli e dei nipoti, il tempo del pane e delle pietre, delle parole sbocciate all’alba della grande torre», p. 97) non sono elementi accessori, ma favoriscono l’incontro, l’unico che in profondità è in grado di svelare la natura stessa della realtà, costruendo un sistema di somiglianze universali.
Nella narrativa di Lupo, un posto di rilievo è affidato alla parola, alla sua forza memoriale, di testimonianza, alla sua capacità di resistere nel tempo, anche se trasmessa oralmente. Quella parola che nasce solo dopo aver teso l’orecchio: Shemà! e il linguaggio racconta il Nella narrativa di Lupo, un posto di rilievo è affidato alla parola, alla sua forza memoriale, di testimonianza, alla sua capacità di resistere nel tempo, anche se trasmessa oralmente.mondo. Afferma Redentore, poco prima di morire: «Siamo passati dalle pietre al pane e dal pane alle parole […] non bisogna mai terminare le storie, perché sono loro, le storie, a dire che esistiamo e, se uno dimentica questo lusso, non ha più certezza di esistere» (pp. 195-96). Non va dimenticato, a tale proposito, il recente saggio di Lupo, Mosè sull’arca di Noè. Un’idea di letteratura (La Scuola, 2016), dove lo scrittore espone, come fosse un vero e proprio manifesto, la sua personale idea di letteratura, dentro le cui coordinate si percorrono atlanti, si abitano libri, si narrano meridiani, si cercano padri e si va alla ricerca del tempo lungo per inventare, o raccontare, mondi.

Tante sono le mappe immaginarie tracciate da Lupo nelle ultime opere. E in un panorama letterario che sembra cedere sempre più alla cronaca, al quotidiano o al mero autobiografismo, il cantastorie di Atella procede contromano, riancorandoci, in verità, alla vita più di quanto possiamo immaginare e mostrandosi voce davvero originale in mezzo a tanti cloni indistinguibili gli uni dagli altri. Le storie di ognuno hanno un peso, così come le parole, prima ascoltate e poi trasmesse, o le pietre, poste in verticale per avvicinarsi al cielo. Le storie sono «l’humus che alimenta il tempo» e quello di Giuseppe Lupo è il richiamo dei sogni mai interrotti, dei ricordi sempreverdi, delle ascese identitarie, della memoria delle nostre tante piccole Betlemmi. Alle quali tutti, nonostante lo strappo, l’abbandono, l’esilio, prima o poi, dobbiamo tornare. Ecco allora chi ha abitato la torre di Babele: i sognatori come noi.

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Stefania Segatori

È Dottore di Ricerca in Culture dell’area adriatica e del Mediterraneo orientale. All’interno del percorso studiorum si è sempre occupata di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Studi Comparati dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Attualmente è docente di ruolo di Lingua francese presso l’IC di Verolanuova (BS) e collabora con l’Università “Cattolica del Sacro Cuore” – sede di Brescia, nello specifico con la cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea del Prof. Giuseppe Langella.

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