È possibile, oggi, nell’era della dispersione e del dominio della rete, dell’apparente disordine informativo, del trionfo dei social media, della connessione costante, della disintermediazione digitale e dell’accesso diretto e immediato alle informazioni, è possibile salvare il modo in cui ci siamo trasmessi il sapere per secoli, e cioè in modo organizzato per autorità, mediazione, selezione, validazione, autenticazione, cerificazione della qualità? E ha senso farlo? È inevitabile, è giusto, o è una sottrazione di apertura, possibilità di emancipazione, sovranità?
Con queste domande Giorgio Zanchini, giornalista e conduttore radiofonico e televisivo, apre il suo denso volumetto Leggere, cosa e come. Il giornalismo e l’informazione culturale nell’era della rete, Donzelli, Roma 2016.
Riprendiamo alcune parole presenti nelle domande, partendo da mediazione. La Corte di Cassazione ha definito il giornalista come un «mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso». Ci si può quindi chiedere quale sia il ruolo del giornalista oggi, ed estendere la domanda fino a comprendere gli specialisti di vari campi del sapere, in un momento in cui la mediazione sembra aver perso importanza a favore della diffusione istantanea di fatti e opinioni.
Il 7 luglio 2005 una serie di attentati terroristici sconvolse Londra, colpendo mettropolitana e autobus. Nel diffondere le notizie la BBC si rese conto che per la prima volta la sua copertura dei fatti era orientata dai contributi del pubblico. L’informazione utilizza sempre di più i video girati con gli smartphone da testimoni oculari presenti sul luogo in cui si è verificato un fatto.
La seconda parola su cui vorrei soffermarmi è validazione. Nel vocabolario Treccani la troviamo definita come «Controllo della validità e della correttezza di dati scientifici realizzato attraverso il confronto con regole e dati già noti e attendibili (spec. nel linguaggio matematico e informatico): i risultati del test sono stati sottoposti a validazione».
Mi vengono in mente le lezioni seguite al corso per giornalisti, con quel continuo tornare sull’importanza di verificare le fonti di una notizia, incrociandole fra loro. Ma penso anche al lavoro di ricerca storica: anche in questo caso devo sempre verificare le fonti e confrontarle. E trovo che sia molto indicativo il numero di corsi di aggiornamento per la formazione obbligatoria dei giornalisti dedicato alla verifica delle fonti, comprese quelle iconografiche, e al contrasto alle fake news, per conoscere e contrastare i meccanismi che regolano la diffusione di notizie false.
Nel libro di Zanchini mi colpisce anche una storiella dello scrittore statunitense David Foster Wallace: «Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: ‘Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?’. I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: ‘Che cavolo è l’acqua?’» (David Foster Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009). Non sono sicura di averla capita, mi viene in aiuto il commento del giornalista: «È sempre complicato quando si è dentro a un grande cambiamento capire cosa stia accadendo». Stiamo parlando della trasformazione prodotta dalla rivoluzione digitale, ma possiamo riferire la frase a tutte le situazioni, anche personali, in cui siamo immersi.
C’è un’altra parola che non possiamo fare a meno di considerare quando parliamo di questi argomenti: mainstream. Che cosa intendiamo eattamente? Il Lessico del XXI Secolo della Treccani riporta questa definizione: «Espressione usata prevalentemente in ambito artistico (musica, cinema, letteratura, ecc.), per indicare la corrente più tradizionale e anche più seguita dal grande pubblico. In contrapposizione a prodotti artistici d’autore, o legati alla cultura underground e giovanile, il termine può anche avere una connotazione dispregiativa, per indicare quegli artisti che sono spinti da motivazioni puramente commerciali».
Wikipedia (la prima voce che mi appare con la ricerca del termine) riporta due definizioni: «Mainstream è un termine inglese usato come aggettivo in vari campi delle arti e della cultura per indicare una corrente che, in un particolare ambito culturale, è considerata più tradizionale e “convenzionale”, comune e dominante, venendo quindi seguita dal più grande pubblico. Nell’inglese americano indica anche una corrente o una tendenza che, in determinato ambito, beneficia di un seguito di massa, in contrapposizione alle tendenze minoritarie. Questo utilizzo del termine a volte sottende un giudizio di valore, che può essere negativo o positivo a seconda dei casi e dei contesti».
Sono andata a vedere anche la definizione che ne dà il Cambridge Dictionary: «the way of life or set of beliefs accepted by most people», e il rimando ad altre voci, come mainstream media: «forms of the media, especially traditional forms such as newspapers, television, and radio rather than the internet, that influence large numbers of people and are likely to represent generally accepted beliefs and opinions».
Zanchini fa riflettere sul modo in cui il mainstream televisivo utilizza i social media, citando le parole di Lella Mazzoli, docente a Urbino, ideatrice e organizzatrice, insieme a lui, del Festival del giornalismo culturale: «il mainstream dà vita non più a un’opinione pubblica attiva, ma a semplici seguaci, sottoposti ancor più a dinamiche dall’alto, però convinti di scegliere personalmente, proprio per il fatto che la loro opinione viene scelta di continuo» (L. Mazzoli, Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media, Codice Edizioni, Torino 2013).
Il libro parla delle newsletter, tornate in auge per fidelizzare i lettori, dei talk show, di Amazon, di editoria, libri, libri elettronici e librerie. Essendo uscito nel 2016 si appoggia ovviamente a dati di qualche anno fa, ma offre numerosi spunti di riflessione. Proseguo lentamente nella lettura, perché frasi e affermazioni mi suscitano nuovi interrogativi.
Come il pensiero ripreso da Alberto Asor Rosa sulla liquidazione delle forme tradizionali della cultura, non più fondata sulla preminenza del testo scritto, e sulla «crescente e smisurata diffusione degli strumenti di informazione […] che determinano nel mondo forme sempre più omogenee del vivere e del pensare» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Roma-Bari, Laterza, 2009). E la conclusione di Zanchini a proposito di un brano tratto da un altro testo, più recente, di Asor Rosa: «Forzando un po’ questa riflessione potremmo dire che si stanno formando analfabeti e sudditi bene informati».
Il testo continua parlandoci di Elémire Zolla, di Marc Fumaroli e di Peter Burke, del tempo di lettura di un brano, del ruolo dei mediatori, di Facebook, del «New York Times». L’attività di fornire e aggregare informazioni, continua Zanchini, è svolta da persone che non sono giornalisti di professione e che si inseriscono occasionalmente e talvolta casualmente (random acts of journalism) nel flusso dell’informazione. E ritornano le domande: «Possiamo fare a meno di mediatori tradizionali?», chi è in grado di garantire il controllo delle fonti, il fact cheking? In che modo oggi scegliamo un prodotto culturale, un libro, un giornale o un sito e in che modo vengono orientate le nostre scelte?
Sono tante le domande che il testo di Zanchini pone. Io, invece, da quando ho iniziato a leggerlo me ne sto facendo una sola: chi orienta le mie scelte? I mediatori a cui mi affido diffondono informazioni basate su dati concreti, verificabili e verificati? Oppure diffondono informazioni non verificate per superficialità, ignoranza o per raggiungere altri scopi? Forse, ogni tanto, dovremmo chiedercelo.