Canone e merito: un binomio fatale

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Quello di «merito» non è un concetto assoluto, ma nasce all’interno del capitalismo e del patriarcato, più per legittimare rapporti di scambio che per valorizzare chi ce l’ha fatta nonostante tutto. E i «meritevoli» del canone letterario rientrano in questo schema. Dal mumero 24 de La ricerca.
Virgilio e Dante all’inferno, particolare del Giudizio universale di Buffalmacco, 1336-41, affresco (Pisa, Camposanto Monumentale).

Certe parole della lingua sembrano implicare categorie assolute, universali, atemporali, come se non avessero una storia al pari delle altre. È il caso di «genio», «talento», «merito», che segnerebbero le esistenze umane come un’ispirazione innata e indomabile, non diversamente dagli influssi celesti attestati nelle antiche credenze astrologiche.
Secondo questa visione da oroscopo, si otterrebbero successi e premi grazie a una spinta propulsiva più che umana, agente su un sostrato potenzialmente ricettivo, una benedizione piovuta indiscriminatamente così nelle culle dei futuri regnanti come nei tuguri degli incompresi («Anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti», scriveva Boccaccio).
Declinata storicamente, è la mentalità propria di quel calvinismo che Max Weber ha collegato alle prime forme di capitalismo: si ricerca sul campo, nell’imprenditoria, una conferma dell’innata predestinazione alla salvezza. Lo prova l’etimologia della parola, che condivide la stessa radice di «merce», «commercio», «meretricio»: il «merito» corrispondente a un prezzo, a giusto compenso, a un premio di produzione, ha a che fare con il mondo degli affari, degli scambi dare-avere, dei libri dei conti e, ricevendo dall’esterno la maschera di un valore intrinseco, presenta un che di alienante, un’espropriazione capitalistica, secondo le osservazioni di Boarelli.
Alcuni gruppi eterodossi, nell’epoca della Riforma, come gli autori e i lettori del Beneficio di Cristo, best-seller del 1543, si erano ribellati a questa semplificazione, rifiutando l’idea di un premio divino in base al «merito» personale e proclamando che il sacrificio del Crocifisso era più che sufficiente per la salvezza: la Grazia, se esiste, bacia chi vuole, non la si «merita». Chi la pensasse così, era tacciato di superbia e vanità.

In letteratura o, meglio, nella storiografia della letteratura, scegliere quali testi e quali autori siano «meritevoli» a scapito di altri non è un’operazione neutra, ma rivela le pressioni e i gusti di un determinato contesto. Sanguineti individua nel canone letterario, fondato di fatto da Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870-71), l’applicazione letteralmente da manuale della visione borghese della classe dirigente dell’epoca, volta a relegare le donne in una dimensione domestica e muta, a esaltare lo spirito di «patria» e la compenetrazione di idea e forma.
Allora e fino al ventennio fascista, tutto, dai programmi della scuola al lavoro e al dopolavoro, dai modelli familiari alla persecuzione delle identità non conformi, rientrava in un progetto coerente, totalitario: si studiavano i padri per diventare capifamiglia; si cantavano canzoni razzistiche per preservare la «razza» italica; si elogiava la vita nei campi per promuovere l’autarchia alimentare; e così via.
Oggi le cose, intorno a noi, sono cambiate (basta guardare qualche serie), eppure il canone letterario sembra rimanere immutabile come quello della Bibbia, che, però, qualche libro di donna lo vanta, grazie a Ruth, Esther, Giuditta e, tra i giudici, Debora.

Se dovessimo dare retta a De Sanctis, alla sua definizione di «povera donna» appioppata a una mecenate come Cristina di Svezia, alla sua celebrazione del «vero» femminile non nelle autrici ma in Petrarca e Tasso, concluderemmo – come ancora fa (ingenuamente?) qualche studioso – che le autrici hanno scritto solo di sé e del proprio limitato perimetro esistenziale, che le loro opere scopiazzano quelle canoniche, che non hanno stile. Insomma: che gli autori hanno «talento, genio, merito» e che le scrittrici, a parte pochissime eccezioni, no. Ma è proprio così?

Prendiamo Dante, ritenuto il «vero» iniziatore della letteratura italiana, primus inter patres e autore di un riconosciuto capolavoro (talmente capolavoro, per lui, che l’ha lasciato senza titolo e senza versione certificata; ma questa è un’altra storia). Durante degli Alighieri, benestante, non nobile, residente a Firenze in pieno centro, ebbe una formazione irregolare, come molti della sua era, tra scuole religiose e un «maestro», Brunetto Latini, fuori del comune (anche perché aveva viaggiato, in esilio, via da Firenze), in seguito fatto sprofondare all’inferno tra i «sodomiti».
Con tutte le lacune e le difficoltà del tempo, il giovane Dante, maschietto volenteroso e ricco, godeva di libertà di movimento, aveva amici letterati, entrava e usciva dalle biblioteche dei monasteri e delle case private, poté persino sottrarsi con la fuga a condanne ingiuste, tra le inevitabili sofferenze fisiche e psicologiche dell’esilio.
Nonostante tutto, non rimase analfabeta, non subì angherie – a quanto ci risulta – dai genitori né dalla consorte Gemma Donati (mai da lui nominata), non girava per l’Italia a capo e piedi coperti potendo parlare solo in presenza di altri membri della famiglia, non fu venduto come schiavo né come prostituto, non rischiò di essere violentato né di morire di parto.
È dunque così strano che, nell’Europa del Due-Trecento, il capolavoro della Commedia abbia la firma di un uomo e non di una donna? Il «merito» e il «genio» di Dante (del Dante poeta, naturalmente, non del Dante politico, sconfitto dalla storia) sono il risultato di un dono divino, delle sue Muse e dei suoi Apollo pagano-cristiani, dell’influsso della costellazione dei Gemelli? O non fruttificarono piuttosto su un terreno già ampiamente dissodato?
Se più o meno negli stessi anni di Dante una poet(ess)a come Compiuta donzella, che non poteva frequentare lezioni né biblioteche, che dovette sottostare a un matrimonio combinato perché il padre non aveva accettato di mandarla in monastero (figuriamoci lasciarla single!), ci ha tramandato dei sonetti ben scritti, potenti, con le rime e le figure retoriche al posto giusto, non è forse, per la logica del «merito» quale effetto del superamento delle barriere, altrettanto se non più «meritevole» di essere letta e parafrasata?
Non si vuole fare la classifica dei versi più belli del Medioevo – il sistema stesso delle classifiche, dei primi, dei triumviri, delle corone, del canone andrebbe ripensato. Ma se vogliamo valorizzare chi è riuscito/a a farsi leggere a secoli di distanza a dispetto di un sistema oppressivo, che considerava contraddizione l’essere donna e lo scrivere/parlare, Compiuta batte Dante.

In realtà il «merito» per cui Dante è entrato nel canone è postumo; screditato dagli amanti del latinorum come il poeta volgare dei commercianti e degli artigiani fiorentini, odiato dalle gerarchie ecclesiastiche e dagli inquisitori dell’Indice (i domenicani di Pisa, secondo Giulia Ammannati, lo fecero dipingere tra i dannati con il suo Virgilio), osteggiato da Bembo per la sua non imitabilità, Dante scalzò Petrarca soltanto nel Risorgimento, quando il lato politico della sua biografia e le tirate patriottiche delle sue terzine furono abbinate alla retorica nazionalistica e anticlericale del Regno d’Italia (lo spiega Amedeo Quondam). È però indubbio che, dentro e fuori della scuola, il suo nome non è mai stato davvero dimenticato.

Lo stesso discorso – così ben svolto nella Stanza tutta per sé da Virginia Woolf con esempi britannici – potrebbe essere esteso quasi fino ai giorni nostri, quando ancora riscopriamo non solo dagli archivi ma dalle stesse antiche tipografie, dai cataloghi di grandi case editrici, dagli annali dei premi letterari, nomi dimenticati e che pure avevano conosciuto una certa fama.
Nel suo Amatissime, Giulia Caminito, che già come redattrice ha contribuito alla rimessa in circolazione di alcune autrici del Novecento, si interroga su questa dinamica di successo-oblio e propone i casi di Paola Masino, Laudomia Bonanni, Livia De Stefani. Il «merito» delle scrittrici, diversamente da quello degli scrittori, non è eterno; quando pure viene riconosciuto pubblicamente, è temporaneo, elargito postumo oppure associato a un qualche compagno, marito, corrispondente epistolare con meno problemi a essere considerato «genio». La nozione di talento innato, del resto, come ci ricorda Maria Serena Sapegno nella sua analisi del mito di Atena, generata senza madre dalla testa del patriarca Zeus, poggia su una protezione paterna, sia essa garantita dal padre effettivo o dallo sposo, comunque sempre da un uomo.
La retorica del merito, c’è poco da fare, ha radici capitalistiche, patriarcali, sessiste, perché, quando riguarda figlie di famiglie non geneticamente «talentuose», presuppone uno scopritore e poi un coltivatore e un divulgatore. Le eroine «meritevoli» della storia e della letteratura, che pure hanno ispirato tante riflessioni femministe, hanno subìto il peso dello sguardo maschile, che ne ha enfatizzato il lato guerriero e militarista (si pensi a Giovanna d’Arco o a Clorinda) oppure si sono viste «premiate» in quanto, dopo atroci sofferenze e prove, hanno dimostrato di avere il «talento» della promessa sposa esemplare (Psiche, Cenerentola, Griselda, Lucia ecc.).

A causa di una preparazione scolastica chiaramente irregolare, e tale per legge (durante il fascismo era quasi impossibile per una ragazza accedere al liceo o all’università), si potrebbe dire (ed è stato detto) che le autrici non hanno scritto bene, in bello stile, limitandosi a sfoghi autobiografici sentimentali e paratattici. Vecchio luogo comune da sfatare. E che ne presuppone un altro: che cioè il bravo autore, l’autore «vero», scriva in maniera talmente originale da risultare comprensibile solo a pochi eletti (e qui il «merito» non è richiesto solo agli scrittori ma anche ai pazienti e raffinati lettori).
Ora, se i modelli discriminanti sono, per la prosa, Gadda, il Gadda della Cognizione del dolore, e per la poesia Montale, il Montale della Bufera e altro, allora possiamo eliminare dal canone letterario buona parte degli autori dal Sette al Novecento.
Certo non basta scrivere senza errori ortografici per fare letteratura, ma non necessariamente, per lo stesso obiettivo, bisogna inventarsi una lingua inedita. Carolina Invernizio e Caterina Percoto, che scrivevano benissimo, avevano molti più lettori e lettrici di tanti scrittori uomini per cui oggi bruciamo incenso sugli altari della letteratura, eppure sono state dimenticate. Si dirà che la letteratura popolare, dei romanzi d’appendice e dei racconti pubblicati sui periodici, non è di serie A: allora perché propiniamo le novelle di Verga o di Pirandello (per non parlare dei romanzoni francesi e inglesi), che avevano la stessa destinazione editoriale? Inoltre, Dante e diversi umanisti scrivevano in un pessimo latino, tanto da essere presi in giro dai colleghi ciceronianisti; tuttavia, a scuola nessuno sfugge alla lettura, in traduzione, della pagina del De vulgari eloquentia sul volgare «illustre, cardinale, aulico e curiale». Dante è il padre Dante anche quando biascica latino; Compiuta è l’irrilevante Compiuta anche se scrive in perfetto italiano.

Le pochissime ammesse al banchetto del canone hanno prima dovuto ottenere il timbrino di donna eccezionale, di donna «vera»: una patente concessa dalla solita cricca, che aveva (ha) tutto l’interesse ad accogliere qualche outsider virtuosa e casta per dimostrare la forza della norma. Tutte le altre (e anche i maschi non allineati) sono spinte ai margini, accusate – come ha spiegato Daniela Brogi – di aver osato usurpare un ambito non di loro pertinenza e raggiungibile a patto di dimostrarsi ottime, ligie alle regole, impeccabili (l’errore, l’aurea mediocrità, per le donne, non sono ammessi).

Ritratto autentico di Moderata Fonte a 34 anni, stampa dall’edizione del Merito delle donne (Imberti, Venezia 1600).

Per quanto riguarda la parità di genere, il discorso sul merito non è nuovo e si intreccia con le opere che con piglio sociologico hanno affrontato i nodi della condizione femminile. Nell’anno 1600, ad esempio, nel furore dell’ennesima polemica misogina, fu pubblicato postumo, in forma di dialogo tra sette interlocutrici, Il merito delle donne, ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette de gli huomini. Lo aveva scritto Modesta da Pozzo, in arte Moderata Fonte, una casalinga veneziana non aristocratica che, con argomenti estremamente attuali, vede nell’emancipazione economica e nell’accesso a tutte le professioni la premessa per una piena parità (lo analizza con lucidissimo rigore filologico Virginia Cox). Fonte attinge solo marginalmente alla visione idealizzante cara ad altre scrittrici, come la conterranea Lucrezia Marinelli, autrice, nello stesso anno, del trattato Della nobiltà, et eccellenze delle donne, che ebbe maggior successo proprio per lo sguardo in parte retorico sulla questione, tanto caro ai letterati. Il «merito» a cui Fonte pensa è spiegato da una delle personagge del dialogo, Corinna, single e intellettuale per scelta e perciò controcorrente (all’epoca il nubilato a vita fuori dai monasteri era oggetto di sospetto e biasimo). Per Corinna, la valutazione del «merito» ha margini di ambiguità, come quando si antepone la bellezza fisica a quella d’animo: non si è «meritevoli» di rispetto in quanto belli (la bellezza è caduca), lo si è invece in quanto virtuosi (la virtù è per sempre).
Parafrasando e integrando le sue parole, potremmo dire che, se proprio dobbiamo riconoscere un «merito» a qualcuno/a, esso non nasce bell’e pronto, ma deriva da scelte concrete, che presuppongono condizioni di partenza uguali per tutti e tutte. Su queste bisogna agire, fin dalla scuola primaria, quando le differenze socio-culturali sono più marcate e vincolanti. Spesso i governi intervengono, ad esempio negli Stati Uniti, con sistemi molto articolati di borse di studio che premiano i giovani «talenti» dalla fine delle scuole superiori all’università, nella convinzione di valorizzare e redistribuire il «genio»; accorgendosi però che il sistema non favorisce la diversity, quegli stessi governanti e funzionari accademici si vedono poi costretti a introdurre le quote etniche (come fa una studentessa cresciuta in un quartiere difficile, anche se potenzialmente «talentuosa», a conoscere, perseguire, soddisfare criteri definiti e sviluppati per e da privilegiati?).
Gli interventi, quindi, devono essere fatti a monte, alla radice delle disuguaglianze, non a valle, correndo a discutibili ripari. L’ideale di una politica scolastica equa è che, compatibilmente con i gusti e le inclinazioni personali e a prescindere dalla storia familiare, tutti gli/le studenti siano nelle condizioni di poter scegliere tra gli stessi indirizzi, e non che alcuni istituti diventino il castello degli eletti spiriti magni e altri il rifugio degli outcast.

La prassi didattica può giocare un ruolo attivo, nelle proposte di lettura e nei percorsi letterari. Proviamo a riadattare il concetto di «merito» e, acclarata la sua evoluzione storica, ad applicarlo ai testi. Quali autori e autrici «meritano» di essere analizzate oggi? La tradizione e il canone ci danno un elenco prescrittivo, ma grazie all’abolizione dei programmi ministeriali e alla libertà d’insegnamento si possono proporre delle integrazioni. Alla luce delle questioni scottanti condensate nei 17 obiettivi dell’Agenda 2030, oltre che già nella Costituzione italiana, possono «meritare» attenzione quanti e quante si occupano di ecologia, di diritti delle minoranze, di accesso all’istruzione, di sostenibilità energetica, di multietnicità, di migrazioni. E ci sorprenderemo, forse, a non depennare dall’elenco tutti gli autori del canone, anzi a valorizzare quei passaggi delle loro opere che ci offrono un appiglio per il presente.

Qualche esempio tematico.
1) La riflessione sul rispetto dell’ambiente non può prescindere dal Cantico di san Francesco, ma nemmeno dal suo sodalizio con santa Chiara (autrice di una Regola scritta), e può includere gli sfondi paesaggistici delle poesie di Leopardi, Montale, Zanzotto e i giardini cari a tante scrittrici, dalla citata Moderata Fonte ad Amalia Nizzoli, da Amelia Rosselli a Pia Pera.
2) La vitalità delle identità non conformi non si trova solo nelle figurine idealizzate degli adolescenti di Penna e di Saba o nei «ragazzi di vita» di Pasolini, ma attraversa l’intero canone: Brunetto Latini in Dante, Ciappelletto e Pietro da Vinciolo in Boccaccio, il trio Bradamante-Ricciardetto-Fiordispina in Ariosto, Adone efebo travestito in Marino, fino agli sguardi penetranti, clitoridei, verso la timida Lucia della monaca di Monza (consigliasi la lettura queer dei Promessi sposi di Tommaso Giartosio), che apre uno squarcio sull’omosessualità lesbica vissuta nei monasteri e immortalata da Amalia Guglielminetti in versi e in prosa; e ancora Pier Vittorio Tondelli, Goliarda Sapienza, Giovanna Cristina Vivinetto, Jonathan Bazzi, che ci propongono narrazioni non più cupe e dilaniate (come quella del povero dottor Fadigati di Giorgio Bassani, schiacciato dall’omofobia oltre che dall’antisemitismo) ma orgogliosamente variopinte.
3) L’esilio degli autori antichi, di Dante, di Petrarca, di Foscolo e le persecuzioni religiose o politiche come quella di Galileo sono un’occasione per agganciare letture legate alla migrazione e alla deportazione, come i romanzi di Igiaba Scego e Amara Lakhous, quelli sull’esilio giuliano-dalmata di Fulvio Tomizza e Marisa Madieri, La Storia di Elsa Morante, le opere di Natalia Ginzburg sul confino e l’omicidio del marito Leone, il memoriale di Liliana Segre. Si potrebbe estendere questa prospettiva aperta alla storia e alla geografia, superando l’eurocentrismo e proponendo narrazioni decolonizzate e globali, per grandi temi e fenomeni con i loro passati multipli anziché per guerre e battaglie, come nell’esperimento di Stewart Gordon e nei manuali digitali ad accesso gratuito del Cisp.

Molte delle opere delle autrici citate hanno vinto premi letterari nazionali e internazionali, ma non è bastato per assicurare loro l’ingresso nel canone. Il sedicente «merito» è un jolly che si può giocare una volta sola: per una Grazia Deledda che ha vinto il Nobel, sembra che non ci possa essere una Grazia Deledda che si sia conquistata un capitolo autonomo e corposo in tutta la manualistica scolastica.

Visto che il «merito», come ci insegna Fonte, è frutto di scelte precise, non si acquista in sala parto, lo si può verificare anche alla luce delle reazioni di lettori e lettrici, che apprezzano poco ciò che studiano a scuola e, al massimo, spulciano qualche titolo contemporaneo in vetrina o su Instagram. È uno scollamento che ha conseguenze gravissime sull’analfabetismo funzionale. Secondo l’insegnamento della scuola di Barbiana, dover leggere in classe una lingua semi-sconosciuta in maniera passiva, sottoporre i testi a tormentose parafrasi e a esercizi di grammatica e di investigazione retorica, finisce per allontanare studenti e studentesse dalle librerie e dalle biblioteche, percepite come luoghi che potrebbero ravvivare quei tormenti adolescenziali.

Se non vogliamo ricorrere alla soluzione radicale, di abbattere completamente i concetti di «merito» e di «canone», impariamo a considerarli, in letteratura, non come iperuranici assoluti ma come dispositivi malleabili, capaci di recepire le più diverse sollecitazioni, anche quelle personali. Vedere riconosciute oggi come «meritevoli», in un libro di testo e in classe, le opere di autrici e autori ai quali la Storia ha negato ogni «merito», è una delle rivoluzioni di cui a scuola tutti e tutte, docenti e discenti, abbiamo bisogno.


Bibliografia

G. Ammannati, Dante all’inferno. Il volto di Dante fra i reietti nel Giudizio di Buffalmacco?, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia» 13.2, 2021, pp. 461-76
M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Bari-Roma 2019
D. Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, Torino 2022
C. Bernardi, Eric Vanhaute, Una storia globale dell’umanità, 3 voll., Cisp 2021
G. Caminito, Amatissime, Giulio Perrone, Roma 2022
V. Cox, The Single Self: Feminist Thought and the Marriage Market in Early Modern Venice, «Renaissance Quarterly», 48.3, 1995, pp. 513-81
M. Fonte, Il merito delle donne, a cura di A. Chemello, εἶδος, Venezia 1988
T. Giartosio, Non aver mai finito di dire: classici gay, letture queer, Quodlibet, Macerata 2017
S. Gordon, A History of the World in Seven Themes, Oxford University Press, Oxford 2021
A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Rizzoli, Milano 2004
F. Sanguineti, Per una nuova storia letteraria, Argolibri, Ancona 2022
M. S. Sapegno, Figlie del padre: passione e autorità nella letteratura occidentale, Feltrinelli, Milano 2018
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1967
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. di A.M. Marietti, Bur, Milano 1991
V. Woolf, Una stanza tutta per sé [1929], trad. it. di M.A. Saracino, Einaudi, Torino 1995

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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