Una squadra fortissimi

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Sperereste di essere reclutati da un coach catenacciaro, gioco a zona o calcio-champagne? Da un allenatore ruvido ed intransigente o da un fine psicologo, che saprà come farvi dare il meglio di voi stessi? Conte o Guardiola?

 

Qualche giorno fa il ministro dell’Istruzione Giannini è ritornata sul tema del reclutamento dei docenti, auspicando la chiamata diretta da parte dei dirigenti. Lo ha fatto nel consueto linguaggio informale – per molti inopportuno – che caratterizza lo stile comunicativo della nuova compagine governativa: il dirigente scolastico deve “potersi scegliere la propria squadra”. Si tratta di un tema delicato, sul quale sarebbe il caso di riflettere con minore velocità e maggiore ponderatezza.

All’ipotesi si oppone, innanzitutto, l’art. 97 della Costituzione, che al comma 3 recita: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. La ventata di tendenza privatistica, allargata anche alla scuola pubblica; la perdita progressiva del principio di scuola come istituzione dello Stato, a vantaggio di quello di scuola come agenzia di servizi, non devono far dimenticare che il concorso pubblico – senza dubbio perfettibile, in alcuni casi inficiato dall’italica propensione al malcostume o da errori – è non solo garanzia del principio di pari opportunità nel reclutamento; ma anche di pari opportunità per il diritto all’apprendimento degli studenti. Nonché del fatto che, tra i principali strumenti che lo Stato ha a disposizione per configurare il principio di uguaglianza (comma 2 dell’art. 3 della Carta: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), c’è anche e soprattutto la scuola pubblica. La scuola, cioè, come strumento di emancipazione da destini socio economici determinati dalla nascita, come “ascensore sociale” che permette di migliorare se stessi e se stessi all’interno della società attraverso la cultura, poggia la propria ragione di essere e interpreta la propria funzione nell’ambito di un sistema nazionale di istruzione che, nelle sue componenti fondamentali,  deve contemplare ordinamenti generali e procedure  condivise da Sondrio a Lampedusa.

Ciò detto, è noto che i fan della “chiamata diretta” sono stati molteplici. Tra questi una delle massime sostenitrici è stata Valentina Aprea, un tempo presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati in quota Forza Italia-Popolo della Libertà, ora assessore della Regione Lombardia. Aprea aveva già dichiarato tale sua preferenza  nel 2008, nell’ambito del suo indimenticabile omonimo disegno di legge, che ha avuto l’indubitabile pregio di raccogliere un tale livello di dissenso da creare una mobilitazione permanente, contraria anche ai ritocchi che, nel tempo, furono apportati al progetto originario (la cosiddetta Aprea-Ghizzoni). Divenuta assessore per l’istruzione alla Regione Lombardia, 2 anni fu tra gli ideatori della legge Regione Lombardia n. 7 del 18 aprile 2012 “Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione”. Ecco il testo dell’art. 8: “Al fine di realizzare l’incrocio diretto tra domanda delle istituzioni scolastiche autonome e l’offerta professionale dei docenti le istituzioni scolastiche statali possono organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi per reclutare il personale docente con incarico annuale. E’ ammesso a partecipare alla selezione il personale docente del comparto scuola iscritto nelle graduatorie provinciali fino ad esaurimento’‘. Di cosa si trattava? Della possibilità per gli istituti scolastici di formare proprie graduatorie interne – indipendenti dai punteggi attribuiti ai singoli insegnanti in quelle provinciali – dalle quali attingere per i contratti ai supplenti. Una visione soft della chiamata diretta, pur sempre svincolata da criteri uguali e garantiti per tutti. La legge fu impugnata dal Consiglio dei Ministri presso la Corte Costituzionale per violazione dei principi fondamentali in materia d’istruzione, dal momento che un intervento sul reclutamento dei docenti “eccede dalle competenze regionali” (secondo l’art. 117 della Costituzione) e quindi sarebbe incostituzionale. La Corte accolse il ricorso e cassò la legge.

L’Aprea (“consentire alle scuole di scegliere gli insegnanti è un dovere che abbiamo nei confronti dei nostri cittadini”) sostenne che l’obiettivo della legge era “rafforzare le autonomie scolastiche anche sul piano della responsabilità della scelta dei docenti. Nello stesso tempo, punta a ridurre il rischio di mancanza di continuità didattica legato alla percentuale di supplenti annuali”. In realtà essa avrebbe consentito di ignorare graduatorie e diritti acquisiti, segnando un fatale passo avanti da una parte verso una visione privatistica della scuola della Repubblica, dall’altra dando il via ad un reclutamento basato su cordate, interpretazioni soggettive, conoscenze, segnalazioni, improprie intromissioni e selezioni opinabili (ipoteticamente: adesione sindacale, provenienza regionale, stile didattico, laicità o confessionalità e così via). Un’insidia, in linea più generale, a due principi costituzionali: quello di laicità e quello della libertà di insegnamento.

È tanto tempo che ho smesso di professare la religione “insegnanti, tutta brava gente”. Ho dismesso quella lettura un po’ romantica, un po’ utopica che, nei primi tempi della mia collaborazione su quotidiani (risalente ormai a quasi 15 anni fa), mi sembrava il modo più efficace per esigere quel rispetto che sentivo molti di noi meritano non solo per la passione e l’impegno con cui mettiamo a disposizione le nostre competenze, ma anche per la funzione – semplicemente – che abbiamo deciso di svolgere all’interno della società: la più politica, nel senso letterale del termine, se pensiamo al concetto di cittadinanza. Quella le cui prerogative sono scandite limpidamente e semplicemente dalla nostra Costituzione. A poco a poco ho cambiato parere. E mi sono accorta che l’abbassamento dei livelli di competenze, i salari con un potere d’acquisto sempre più avvilente, lo scarso investimento sul ruolo del docente e sulla scuola pubblica che ha – trasversalmente, purtroppo – scandito le politiche scolastiche degli ultimi lustri, hanno avuto effetti negativi sulla motivazione di molti. Il disagio cresce quotidianamente, e si concretizza persino nella scelta di alcuni di fare dell’insegnamento la sinecura che garantisca di portare a casa uno stipendio con uno sforzo a basso costo.

D’altro canto, di persone serie – è sotto gli occhi di tutti – ce ne sono molte in giro. Questo lo sanno benissimo anche gli sconsiderati cantori dell’epica del “fannullonismo”, che a più riprese sono intervenute su temi quali reclutamento, valutazione, premialità. La perdita di una funzione culturale e di uno statuto sociale dei docenti di una società che si alimenta di ben altri miti, sono sintetizzati da due estremi, altrettanto demagogici e occhieggianti a consensi opposti, che danno in maniera analoga il senso di una professione che non riesce più a trovare una collocazione significativa all’interno di questa società: da una parte la glorificazione – a salario fermo e contratto bloccato da tanti anni – di coloro che ci hanno chiamato e ci chiamano eroi; dall’altra la ventata di strategie diffamatorie dell’intera categoria degli insegnanti – inaugurata da alcuni interventi sui più importanti quotidiani di economisti editorialisti come Ichino, Panebianco, Giavazzi – che sono alla base di un’asfittica e punitiva visione della valutazione e di una premialità legata a criteri fluttuanti, lontani anni luce da ciò che si deve sapere e saper fare per interpretare dignitosamente ed efficacemente la nostra professione. Spesso inconsapevoli di ciò che la scuola è, nella sostanza. O ansiosi di giustapporre al “luogo scuola” – con le sue particolarità e specificità – i limiti angusti, e ad esso incoerenti, delle realtà aziendali.

Si tratta di due rappresentazioni che denunciano la perdita di contatto tra la società e chi continua a svolgere questo lavoro con passione e responsabilità: tantissimi, nonostante tutto. In questo smarrimento del senso, in questo patto infranto – quel patto che ha consentito cooperazione, idem sentire, condivisione tra il dentro e il fuori della scuola, negli anni che hanno reso solide le basi della nostra democrazia – gli insegnanti oscillano tra una sfiduciata dismissione culturale e relazionale, che accompagna quella sociale; e un ostinato esercizio della vocazione missionaria che molti di noi hanno; quella vocazione che ha consentito  alla scuola di andare avanti comunque, tentando di tamponare e di neutralizzare i danni che gli strateghi delle politiche dell’istruzione producevano impunemente.

Nessuno dei nostri politici ha pagato il conto di errori marchiani (l’abbassamento dell’obbligo scolastico, la diminuzione drammatica delle competenze di lettoscrittura nei quindicenni scolarizzati nel nostro Paese, ad esempio), di scoop ad uso della stampa che si sono tradotti in nulla o – peggio – in operazioni opinabili (la geostoria, il portfolio, il tempo pieno ridotto da diritto a fortunata opportunità, la politica della “semplificazione”). A nessuno è stato presentato il conto di cambiamenti continui – traumatici o a colpi di “cacciavite” – che la scuola ha subito protestando o no, ma troppo spesso sostituendo all’opposizione e alla condivisione della resistenza l’adattamento (responsabile o di comodo) alle novità. Le responsabilità sono fluttuanti: non sappiamo o preferiamo non assegnare a nomi e cognomi, per chiedere ragione delle continue bizzarrie (che di pedagogico – da qualsiasi parte politica siano provenute – non hanno nulla) alle quali, con camaleontico spirito da bricoleur, siamo stati addestrati ad adeguarci.

In questo contesto si inserisce l’insistenza sul tema della chiamata diretta. Inopportuno, dunque, sia dal punto di vista normativo che delle condizioni concrete. Quali sarebbero i criteri che garantiranno identiche condizioni di accesso? Quali le caratteristiche dei profili più richiesti? Per quali motivi gli istituti scolastici meno rinomati (e dunque meno ambiti), già caratterizzati da una popolazione studentesca svantaggiata, dalla localizzazione in zone marginali, dovrebbero – come è ovvio e fisiologico che sia – accontentarsi dei docenti meno titolati, meno referenziati dal punto di vista culturale – ampliando così i margini di svantaggio già esistenti?  Come si misura la capacità di relazione e di cura che un insegnante è in grado di sviluppare? Qual è il vantaggio di amplificare il gap che già esiste tra zone del Paese e – nell’ambito del Paese – tra scuola e scuola? Queste e tante altre le domande.

Le dichiarazioni di Giannini sono in linea con quanto il non ancora premier Renzi affermò circa un anno fa nel programma con cui si candidò alle primarie del centrosinistra, “Una scuola in cui si impara davvero”: al centro l’autonomia, ampia, “anche riguardo alla selezione del personale didattico e amministrativo, con una piena responsabilizzazione dei rispettivi vertici e il corrispondente pieno recupero da parte loro delle prerogative programmatorie e dirigenziali necessarie”.

La scuola, però, non è una squadra. La scuola è il luogo aperto a tutti dove tutti i giovani hanno l’identico diritto – ovunque e in qualsiasi situazione siano nati – di provare a diventare donne e uomini, cittadini consapevoli; di emanciparsi attraverso la cultura; di conquistare pensiero critico e migliorare se stessi; di gettare basi solide rispetto a ciò che saranno in futuro. Di imparare, per capire e per capirsi, e per esistere in maniera tanto più dignitosa quanto più quello – la scuola – sarà stato l’unico luogo in cui saranno entrati in contatto con cultura e pensiero emancipante.

Per questo l’unitarietà del sistema scolastico nazionale è un principio da difendere senza se e senza ma.

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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