L’idea ispiratrice era che la scuola pubblica, laica e pluralista fosse non solo il luogo dell’istruzione, dell’educazione e del rafforzamento della cittadinanza consapevole, ma anche lo strumento privilegiato per predisporre le condizioni ottimali affinché la Repubblica potesse far fronte adeguatamente alla previsione del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, quello che sancisce il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
La prima tappa fondamentale di questa interessantissima ed entusiasmante avventura si è verificata nel 1962, con la legge 1859, che ha sancito la scuola media unica, nel preciso rispetto del dettato del secondo comma dell’art. 34: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Non più differenze tra i nati bene e i figli di un Dio minore: tutti – obbligatoriamente – a scuola fino alla terza media. Da quel momento il progetto di scuola della Costituzione prese man mano forma, restituendo – attraverso una serie di provvedimenti fondamentali non solo per lo sviluppo culturale, ma anche sociale ed economico del nostro Paese – un’idea d’imprescindibile collaborazione della scuola allo sviluppo italiano: cittadinanza e cultura per i futuri cittadini; possibilità per le donne di accedere al lavoro; respiro pedagogico di estremo rilievo, che ha segnalato alcune esperienze italiane come le più avanzate in questo campo. La legge 444/1968 istituì la scuola materna statale; la legge 820 del 1971 il tempo pieno; la legge delega 477/73, con i successivi decreti delegati, il governo democratico della scuola; rispettivamente nel 1979, 1985 e nel 1991 i programmi della scuola media, elementare e materna (allora si chiamavano così); la legge 104/1992 diede voce al suggestivo incipit dell’art. 34 della Carta – “La scuola è aperta a tutti” – segnalando il nostro Paese come l’avanguardia più progredita nel percorso inclusivo della diversabilità. Uno sforzo poderoso, che ha creato un sistema scolastico con un forte impulso sulla cittadinanza attiva, che ha dato vita a pratiche e percorsi pedagogici di grande rilevanza e di impatto notevole sulla vita degli individui, aprendo la strada ad un progetto di società che, attraverso l’istruzione, accordasse ad ognuno, indipendentemente dalla nascita, il diritto all’emancipazione. Una società d’impegno, partecipazione, progresso. In cui democrazia, cultura emancipante, diritti di cittadinanza collaboravano e si integravano.
Nel 1993, con il d.lgs. 29 di quell’anno (governo Amato), comincia ad invertirsi la direzione di marcia: quella norma regola la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con il conseguente processo di aziendalizzazione degli uffici pubblici e quindi anche della scuola statale. L’idea era quella di realizzare l’unità di tutti i lavoratori; non si consideravano, però, le diversità strutturali e finalistiche tra l’azienda privata regolata dalla logica del profitto dell’imprenditore e l’ufficio pubblico, che deve perseguire l’interesse generale che quasi mai coincide con quello dell’amministratore. Quella norma inaugurò una prospettiva i cui sviluppi sono purtroppo apprezzabili ancora oggi. Seguì l’“autonomia scolastica”, introdotta per delega della legge 59/1997 (Presidente del Consiglio Prodi, Ministro della Funzione Pubblica Bassanini, Ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer), che ha indubbiamente ampliato le competenze delle istituzioni scolastiche, collocandole però nella logica della nuova idea di scuola, non più istituzione che svolge una funzione statale nel prevalente interesse generale, ma azienda pubblica che, al pari di un’azienda privata, svolge un servizio pubblico, sulla scorta dell’analoga esperienza nel settore sanitario. Nella logica di una scuola-azienda erogatrice di un servizio pubblico, al pari del servizio sanitario, del trasporto pubblico ecc., anche per la scuola statale con la riforma del Titolo V del 2001, voluta dai DS (anche nel vano tentativo di guadagnarsi le simpatie degli elettori della Lega), si delinea una forma di regionalizzazione, peraltro molto ibrida e contraddittoria e di difficile applicazione.
La direzione è chiara: essendo la scuola, statale o privata, un servizio alla persona e dovendo corrispondere, in un regime di concorrenza tra le scuole pubbliche e private, alle esigenze specifiche dell’utenza, è più funzionale che ciascuna Regione definisca un proprio modello scolastico sia sotto il profilo organizzativo sia anche, per taluni aspetti, sotto il profilo dei contenuti. Tale provvedimento, peraltro, ha riguardato soprattutto, l’ordinamento più debole del sistema scolastico nazionale, quello dell’istruzione professionale, caratterizzata oggi da 21 sistemi diversi, tante quante sono le regioni, con rare punte di eccellenza ed una omogenea e drammatica situazione di disagio, essendo quel segmento quello che raccoglie la popolazione scolastica più svantaggiata.
Sono questi i presupposti politico-istituzionali, e soprattutto culturali, in cui collocare la precedente legge di parità (62/00) – questa volta concessione dei DS ai Popolari, confluiti nello schieramento di centro-sinistra – che avrebbe dovuto dare attuazione all’art. 33 della Costituzione:
“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato”.
“La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.
In realtà quella legge ne ha sovvertito il dettato, considerati gli oneri per lo Stato che, da allora, si sono determinati per sovvenzionare le scuole paritarie con la fiscalità generale, persino ai tempi dell’”epocale riforma” Gelmini, che nel 2008, con la legge 133, tagliò più di 8 miliardi alla scuola pubblica. Il sistema integrato, peraltro, è incompatibile con l’obbligo costituzionale della Repubblica di istituire scuole di ogni ordine e grado per tutti; inoltre l’integrazione presuppone una omogeneità dell’attività di insegnamento che non è realizzabile, perché l’insegnamento della scuola pubblica deve essere pluralistico, mentre quello privato può legittimamente essere di orientamento. Infine il d.lgs. 165/01, che ha istituito la dirigenza scolastica, sostituendo la figura del preside, primus inter pares, con quella del dirigente-manager subordinato all’Amministrazione in una scuola tendenzialmente aziendalizzata; il passaggio dal preside al dirigente scolastico ha alienato a questa figura la sua natura essenzialmente didattica per trasformarla in una figura quantomeno ambigua, tendenzialmente manageriale ed amministrativa.
Cosa ha segnato lo spartiacque, il punto di non ritorno, che ha determinato la sostituzione di un modello davvero pubblico, inclusivo e democratico? Un modello d’istruzione riorganizzato in base a urgenze economiche può garantire l’interesse culturale generale? Il Pensiero Unico, che ha accompagnato il cambiamento, tagliando non solo diritti al lavoro e all’apprendimento, ma anche respiro culturale e pluralismo, può presiedere efficacemente a un’idea di scuola che sia realmente viatico di cittadinanza attiva e consapevole? Perché non si ritiene più che lavoratori più colti siano anche lavoratori più felici e che non investire sulla scuola pone una pesantissima ipoteca sul miglioramento anche economico di una società? Sembra essere venuta meno la spinta propulsiva che animò la stagione della scuola democratica, inclusiva, emancipante, culminata in quel capolavoro di pedagogia e didattica che furono i programmi dell’85. “L’aver proceduto alla definizione dei programmi prima che a quella delle forme istituzionali può essere stato senza dubbio un rischio calcolato non privo di qualche vantaggio. [Con] il primato del pedagogico sull’amministrativo o in generale sull’esecutivo si è voluto prima disegnare un nuovo modello di scuola, e poi decidere gli aspetti strutturali da esso richiesti. A sua volta il legislativo dovrebbe inquadrare e raccordare la nuova realtà con l’ordinamento generale”. Così Mauro Laeng, Ordinario di Pedagogia e al tempo vicepresidente della relativa Commissione ministeriale sui Programmi della Scuola Elementare. È la descrizione di un percorso costitutivo che parte dalle esigenze dell’apprendimento e non del bilancio. Il primato della pedagogia sull’economia e sulla omologazione rappresenta una scelta di campo precisa, che stabilisce un netto sistema di priorità.
Purtroppo tutto negli ultimi anni – in particolare dalla scuola delle “3i” della Moratti e poi dalla “riforma epocale” della Gelmini, che partì, per riformare la scuola, dal capo della legge 133 indicativamente intitolato “Contenimento di spesa nel pubblico impiego”, andando però a toccare i gangli vitali della scuola (ordinamenti, insegnamenti, rapporto alunni docente, tempo pieno e prolungato, classi di concorso, ecc) – ci si è mossi in direzione contraria rispetto a questi assunti. Non bisogna dimenticare che la sponda normativa a questi interventi è stata data, da dopo il ’93, da governi di centrosinistra. La scelta di disinvestire sulla scuola della Repubblica è stata dunque trasversale, confermata peraltro anche dai cosiddetti governi “tecnici” e simili che si sono succeduti negli ultimi anni fino ad oggi. La lontananza siderale dalle parole di Laeng – e da tutto il lavoro politico, amministrativo, pedagogico che è stato fatto in quella prima fase costruttiva – è alimentata dalla diffusa indifferenza alle sorti della scuola pubblica, che richiama interesse solo come luogo di risparmio. E così hanno buon gioco etichette linguistiche trendy, in nome delle quali si compiono operazioni gestionali pericolose: semplificazione, valutazione, merito, privatizzazione, modernità, premialità, selezione, cambiamento.
Siamo in un guado molto pericoloso. Alcuni di coloro che avranno letto questo intervento penseranno che, in fondo, il dettato costituzionale è “antico”, demodé. E che le parole che servono per interpretare l’oggi sono quelle che proliferano nelle bocche di quanti ci hanno e ci stanno amministrando e governando. Vorrei però ricordare che la scuola italiana – dove più, dove meno – ha potuto resistere all’ondata massificante del Pensiero Unico e della logica economicista, che ha tentato e tenta in tutti i modi di imbrigliarla in una mortificante visione aziendalista, solo ed esclusivamente grazie al lavoro di insegnanti che, qualunque fosse la loro appartenenza politica, ai principi della Carta hanno creduto e continuano ostinatamente a credere.
È a loro che lo Stato dovrebbe dire grazie:è in virtù del loro volontariato, di passioni ed energie, dell’impegno politico nel senso letterale del termine con cui hanno, nonostante tutto, continuato a interpretare il proprio mandato, che sono stati tamponati e coperti in modo quasi indolore i vizi e i guasti del primato dell’economia su educazione, mediazione, cura, didattica, pedagogia, cultura, cittadinanza. Sarebbe il caso però di non continuare a tirare la corda. E che la parte inerte della scuola, che pure esiste e accetta acriticamente i colpi di mano che ci vengono periodicamente imposti – per disimpegno, per disinteresse, per assuefazione – alzasse finalmente la testa.