Per delle foto significative occorre tecnica, certo, ma soprattutto, “visione fotografica”, per dirla con Bresson. Cioè, uno sguardo. Non a caso Grazia Cerchi, che nel 1995 ebbe l’idea di raccogliere in un volume i tanti ritratti di scrittori di Vincenzo Cottinelli, scelse come titolo Sguardi e chiese a Lalla Romano di accompagnare ogni scatto con delle didascalie, in modo da accomunare fotografie e letteratura.
Alcune foto di Cottinelli fatte nell’appartamento di via Brunetto Latini a Firenze (quartiere Le Cure) compaiono anche nel volume su Romano Bilenchi Un uomo contro (2009) e sono quelle che ritraggono Romano con la moglie Maria Ferrara, donna colta, nutrita alla scuola di Garin e di Luporini e prima lettrice di ogni prosa del marito, nonché insostituibile segretaria di redazione al «Nuovo Corriere» di Firenze negli anni in cui Bilenchi lo diresse.
L’obbiettivo privilegia la sfera emotiva degli sguardi reciproci o la suggestione di uno sfumato che, merito del controluce, si fa rarefazione luminosa nei due profili, che si fronteggiano, evidenziandone la complicità. L’immagine sembra tradurre visivamente una celebre affermazione di Bilenchi che, sollecitato a elencare le cose più importanti della sua vita, non aveva esitato ad anteporre la moglie alla politica, che pure tanta parte aveva avuto nella sua attività di giornalista e di direttore di testate, e anche al calcio, seguito fin da adolescente con viscerale passione.
Di segno ben diverso il ritratto posto in copertina al volume. Vi campeggia un primo piano dello scrittore di Giovanni Giovannetti, ritratto sempre in via Brunetto Latini. Si tratta di un’immagine restituita senza elaborazioni, filtri, sfumature, sporcature. L’attenzione cade vigile sui dettagli: la piega della bocca, l’arco ampio e divaricato alla radice delle sopracciglia, l’indecifrabile labirinto delle rughe, le macchie senili dell’epidermide, le unghie ingiallite dal fumo. L’obiettivo cerca un punto dal quale l’osservatore possa partire e al quale possa ritornare, un punto che si colloca all’altezza degli occhi, immersi in un altrove indecifrabile. Del resto ogni uomo è ignoto a sé stesso, diceva Mallarmé, e lo scrittore è, tra gli uomini, il più ignoto a sé stesso, come ricordava anche Leonardo Sciascia, grande collezionista di ritratti di scrittori comprati sulle bancarelle di anticaglie di tutta Europa. Sciascia era riuscito a raccoglierne più di 200, e di ciascun artista scrutava con meticolosa attenzione il reticolo di ogni linea corporea o gli oggetti visibili sullo sfondo per rintracciare indizi rivelatori di quanto nelle opere viene taciuto.
Il volto, insomma, rimane una mappa di cui servirsi per capire lati in ombra dello scrittore, talvolta usando come grimaldello tutto ciò che quel volto consente d’immaginare. Questo avviene, ad esempio, nel ritratto di Bilenchi fatto da Tullio Pericoli, in cui la somiglianza fisionomica è scardinata dall’allungando degli occhi e dalla dilatazione della distanza fra le sopracciglia, finché ad emergere è un Buddha in meditazione, solo intuito.
Nel ritratto di Giovannetti una delle prima cose che risalta è l’assenza dell’ambientazione. Eppure, il pioniere della ritrattistica intellettuale, Arnold Newman, aveva sostenuto l’importanza del ritratto ambientato: il pittore nel suo studio, lo scrittore davanti alla libreria, lo scienziato nel laboratorio. Le persone esistono nello spazio e lo spazio parla anche per loro, come aveva esemplarmente dimostrato nel ritratto di Igor Stravinsky dietro la cassa sollevata del suo pianoforte a coda: la grande suggestione dell’immagine sta nella capacità d’immergere l’osservatore nell’ambiente sonoro di quello strumento corvino, che occupa quasi tutta l’immagine, respingendo il pianista in un angolo della foto.
Lo spazio della foto di Giovannetti è invece uno ‘stiacciato’ donatelliano, che obbliga l’osservatore a una misurazione lenta dei volumi: quello fra lo scrittore e il tavolo su cui tiene appoggiato un gomito (lo si intuisce solo dalla spalla destra leggermente più alta, visto che il tavolo non compare) e quello fra lo scrittore e le finestre poste alle spalle. Uno spazio compresso, serrato, ma capace di restituire il senso di costrizione vissuto da Bilenchi, relegato in casa per dieci anni perché affetto da una forma grave di diabete, che gli aveva compromesso le articolazioni dei piedi.
L’appartamento di via Brunetto Latini sarebbe diventato l’approdo per ogni amico intellettuale, per ogni giovane letterato, per ogni aspirante scrittore che arrivasse a Firenze e tutti, avvolti da una costante nuvola di fumo, sapevano di poter rimanere in quel salotto-studio fino alle prime luci del mattino, dato che lo scrittore era solito dormire solo qualche ora.
Bilenchi fumava sempre le amate Nazionali. Un fotogramma di Giovannetti coglie l’attimo dell’accensione, un altro affida al fumo che sale lento dal portacenere la metamorfosi del tabacco, un altro ancora si sofferma sui mozziconi spenti e chiude la sequenza. Questa visione lenticolare del fumo restituisce, in maniera impeccabile, i tempi lenti su cui si ritmavano le giornate dello scrittore e i momenti della scrittura, che avrebbero potuto interessare la dendrocronologia, secondo un celebre giudizio di Giacomo Debenedetti espresso sulle pagine de «l’Unità». Se un albero possedesse cinque sensi e fosse in grado di raccontare le storie del nostro mondo come lui le osserva dall’interno della sua vita vegetativa, notava Debenedetti, «probabilmente i risultati non sarebbero senza analogia con quelli di Bilenchi».
Romano Bilenchi stesso subiva il fascino del linguaggio fotografico e più volte aveva confidato a chi scrive il desiderio di voler carpire alle immagini la stessa capacità sintetica. Per descrivere una macchia sul muro, diceva, sono necessarie molte, forse troppe parole, mentre un’unica foto può raccontare tutto in un attimo. Di qui, l’urgenza di rendere sempre più essenziale il dettato prosastico, di qui l’acribia degli interventi correttori sulla pagina, fino alla «nevrastenia stilistica», secondo la celebre definizione di Maria Corti. Basterebbe a dimostrarlo anche una sola variante apportata nell’edizione dei Racconti del 1958 ad Anna e Bruno fra le migliaia e migliaia che punteggiano tutti i dattiloscritti delle opere:
Bruno, anche per le altre persone, di fronte a lei doveva consistere in una macchia turchina che interrompeva la striscia di muro bianco sotto la spalliera verde delle piante fuggenti dal giardino attraverso la cancellata.
Ma sentiva di essere, per la madre e le altre persone, non più di una macchia turchina che interrompeva la striscia bianca del muro del giardino.
Si vira verso una soggettiva, finché la scarnificazione della prosa non diviene capace di notomizzare solo una porzione di avvelenata certezza, come in un fotogramma: essere non più di una macchia sul muro.
Fra i documenti visivi che possono dirci qualcosa della quotidianità dello scrittore c’è anche la prima tessera del Partito Comunista, datata 1942. Riporta l’indicazione della Sezione Cure, il quartiere fiorentino dove Bilenchi avrebbe trascorso molti decenni della sua vita, prima in via Fra Bartolomeo 31, angolo via Masaccio, e poi in via Brunetto Latini 11[1]. Quest’ultima casa compare anche nel ricordo della morte di Vittorini:
La notte tra il 12 e il 13 febbraio […] Sognai Elio. Nel sogno – e anche questo sogno non lo dimenticherò mai – abitavo dove vivo oggi, all’inizio di via Brunetto Latini. Ma mi scorgevo dormire molto più in alto di un terzo piano, su un letto quasi sospeso nel cielo, e le pareti che davano sulla strada erano di vetro talmente trasparente, come se non esistessero. La città e la mia strada erano rumorose, piene di folla, opache. A un tratto la strada divenne deserta, silenziosa, per metà illuminata da un sole chiaro e lucente come nelle mattine di primavera. Quando i tetti delle case ebbero segnato una linea netta fra luce e ombra, dall’angolo opposto al lato dove abito apparve Vittorini. Era magro, con il volto serio e rattristato, portava il basco turchino, lo stesso cappotto grigio di stoffa diagonale, la stessa sciarpa di quando lo avevo conosciuto la prima volta nel 1930. Tenendo le mani in tasca come quella sera, fece, un po’ curvo in avanti, alcuni passi fino al cancello di casa mia. Alzò la testa. Stette lì qualche minuto in silenzio con un’espressione di malinconia e di stupore nello sguardo. Poi scomparve dietro l’angolo dal quale era venuto. Mi svegliai pieno di tenerezza (R. Bilenchi, Vittorini a Firenze, in Opere, Milano, Rizzoli, 1997, p. 830)
Il contratto di acquisto del n. 7 di via Brunetto Latini, l’appartamento più piccolo dove abitava la madre, è del 1971, quello del n. 11, dove abiterà Romano, risale invece alla fine degli anni Settanta.
Per molto tempo è rimasto il dubbio di sapere quando realmente Bilenchi si sia trasferito in quella casa. Domenico De Martino, raggiunto telefonicamente all’Accademia della Crusca, ha confermato di essersi trasferito nella casa di via Brunetto Latini 11 quando era adolescente nel 1965, data in cui il condominio era già terminato, e che Bilenchi era venuto ad abitarvi poco tempo dopo (Testimonianza del 6/12/2019).
In effetti, a fugare ogni dubbio, basterebbe una carta d’identità di Romano Bilenchi rilasciata il 6 febbraio 1965, nella quale è già indicata come residenza via Brunetto Latini 11.
Potremmo chiederci come mai lo scrittore acquisti una casa ‘nuova’ alle Cure, quando da sempre aveva dichiarato il suo amore per le case antiche:
Da molti anni abitavo a Firenze e avevo cambiato più volte casa e me ne erano capitate anche di gradevoli con ampie stanze di soggiorno, con larghi corridoi e scale interne, vecchie come a me piacevano (R. Bilenchi, La pistola di Salò, in Opere, cit., p. 955).
La prima ragione è che il condominio di via Latini viene costruito da una Cooperativa di giornalisti (soprattutto della «Nazione» e del «Mattino»), situazione che assicurava sia facilitazioni economiche nell’acquisto, sia la vicinanza di condomini, che di fatto erano tanti amici giornalisti. La seconda è che Bilenchi preferisce rimanere nel quartiere delle Cure, che già gli è familiare per l’abitazione di via Fra’ Bartolomeo, ma soprattutto per le peculiarità del quartiere stesso.
Fino agli anni Settanta, infatti, le Cure erano un quartiere operaio, tant’è che derivano il nome dalle lavandaie (chiamate “curandole”) della Lavanderia Bellucci (1810-1975) sul Mugnone. Dagli anni Settanta in poi il quartiere sarebbe diventato residenziale, in seguito alla chiusura di numerose aziende come appunto la Lavanderia Bellucci, il Mulino Biondi (1884-1962), la Tipografia Salani (1888-1962) e il Colorificio Romer (1895-1961), ma anche per il trasferimento degli stabilimenti industriali della Galileo e della Fonderia Cure (1868-1967 e dal 1967-1983 a Castellina)[2].
Le battaglie operaie di quest’ultima industria saranno raccontate da Bilenchi in La Ghisa delle Cure, mentre Vasco Pratolini in Lo scialo (1976, p. 275) avrebbe raccontato come Rifredi e il Pignone sarebbero diventati i nuovi centri produttivi e le Cure lentamente si sarebbero trasformate in agglomerati di villini.
In La ghisa delle Cure, che esce su «Il Contemporaneo» il 5 marzo 1955, Bilenchi racconta le travagliate battaglie sindacali della metà degli anni Cinquanta e la volontà degli operai di salvare quella Fonderia delle Cure, fra via del Bersaglio e via Maffei, che Francesco Berta aveva acquistato al suo ritorno da New Orleans nel 1876. Dal 1898 al 1930 era stata gestita da Giovanni Berta e sotto la sua direzione erano avvenuti nel 1921 due eventi luttuosi: il primo era la morte nel suo ufficio il 27 febbraio 1921 di Spartaco Lavagnini, segretario del sindacato ferrovieri ed esponente del Partito Comunista, e l’altro era l’oscura fine il 28 febbraio 1921 di Giovanni Berta, figlio ventiseienne dell’omonimo proprietario e aderente ai Fasci di combattimento: era finito in Arno dal Ponte Sospeso (oggi Ponte alla Vittoria). La fabbrica venne chiusa e, solo a maggio, riaperta sotto l’insegna del fascio littorio.
La situazione finanziaria della Fonderia sarebbe nuovamente precipitata nel 1953, al punto da causare un primo intervento del sindaco Giorgio La Pira riguardo al problema dell’affitto e nel 1955 quando con un’ordinanza del sindaco i vigili urbani poterono requisire la fabbrica e affidarla alla gestione degli operai, come racconta Bilenchi:
La cooperativa è nata il 3 febbraio 1955, quando per lottare contro lo smantellamento e dinanzi a concrete prospettive di ripresa economica della fabbrica, gli operai decisero di accollarsi nuovi sacrifici e di mettersi al lavoro. […] Era dal novembre del ‘54 che gli operai non riscuotevano più il salario. […] La Pira è andato in mezzo a questi operai, ha difeso, con un gesto non impulsivo, ma certo di istintiva giustizia, come gli era accaduto per la Pignone, questa cooperativa.
Dopo aver concesso in gestione ai sessanta operai della Cooperativa Lavoratori Officina e Fonderia delle Cure, La Pira avrebbe provveduto anche ad assegnare loro la prima importante commessa, consentendo la ripresa economica dei lavori: la realizzazione di tutti i tubi in ghisa dell’acquedotto comunale.
Note
[1] Non siamo in grado di ricostruire ogni trasloco di Bilenchi, ma grazie all’epistolario, soprattutto con Cesarini, e alle prose di Amici gli studiosi sono ormai in grado di indicarne alcune. Il primo approdo a Firenze è dovuto agli studi liceali a Firenze dal 1925 al 1927, città che lascia dal 1927 al 1930 per ricoverarsi all’Istituto Codivilla di Cortina e curare la tubercolosi ossea alla colonna vertebrale. Alla fine del 1930 ritorna a Colle. Si trasferisce a Firenze però, in modo definitivo nel 1934 per lavorare alla «Nazione» e vive Presso Pucci, in via delle Badesse dal 16 luglio 1934. In seguito troverà residenza in via delle Carrozze 2 e poi Presso Angeli, in via di Barbano 10. Nel 1937 è in via XXIV maggio e nel dopoguerra, al tempo della direzione di «Società», si stabilisce in via Fra’ Bartolomeo 31.
[2] Sarebbero rimaste nel Quartiere Cure, a dimostrazione di quel passato operaio, la Società di Mutuo Soccorso San Marco Vecchio, la Società cooperativa di consumo operai delle Cure e l’Unione delle Cure.