Beslan, dieci anni fa

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A Beslan, dieci anni fa, morì definitivamente la speranza: quella che l’odio e la sete di potere – le “ragioni” dei grandi, di troppi grandi – risparmiassero la scuola, il luogo dedicato ai bambini, lo spazio dei piccoli.

A Beslan, dieci anni fa, morì definitivamente la speranza: quella che l’odio e la sete di potere – le “ragioni” dei grandi, di troppi grandi – risparmiassero la scuola, il luogo dedicato ai bambini, lo spazio dei piccoli. Vita, futuro, fiducia, speranza sono state massacrate senza pietà, sommariamente, ciecamente. Il vuoto che quell’episodio lasciò nelle nostre menti e nelle nostre coscienze fu troppo grande, troppo più grande di qualunque pensiero.


Troppo più terrificante dell’incubo più terrificante. Da allora nulla è stato più come prima, perché quella speranza non c’è più e non potrà più esserci. In quel caso l’agonia fu lunga e il mondo ebbe modo di riflettere, di pensare profondamente a quello che stava accadendo. Immagini, filmati: la scuola presa in ostaggio, le invocazioni dei bambini, la fame e soprattutto la sete, le prime vittime; le mamme straziate in attesa, fuori dalla scuola; l’illusione che qualcosa si muovesse, i negoziati funzionassero. Poi la fine.

Entrare in una scuola e sparare, all’impazzata, a dei bersagli indifesi: rispondere con questo dolore insensato al dolore. Si è ripetuto, pochi giorni fa, il 16 dicembre scorso. Il copione macabro, a Peshawar. Un altro paese sfregiato dalla violenza, il Pakistan. Questa volta, però, siamo arrivati a “cose già fatte”: la notizia è stata data quando tutto o quasi tutto si era compiuto. Il tempo della riflessione è stato meno prolungato o non c’è stato affatto: 141 vittime, di cui 130 studenti dai 10 ai 20 anni. 124 feriti (121 bambini). L’attacco è stato sferrato da un commando di kamikaze talebano della formazione Tehreek-e-Taliban (TTP). Il commando TTP ha rivendicato con queste parole l’assalto: «Abbiamo scelto con attenzione l’obiettivo da colpire con il nostro attentato, – ha detto il portavoce del movimento, Mohammed Umar Khorasani. «Il governo sta prendendo di mira le nostre famiglie e le nostre donne. Vogliamo che provino lo stesso dolore». Per Khorasani, inoltre, l’attentato «è solo un trailer» e «presto ci saranno altri attacchi». Attentato e rivendicazione sono stati condannati da altri talebani, come quelli afghani: È un atto «contro l’Islam», hanno avvertito.

Ci coinvolge? O dobbiamo – ancora una volta – girare il capo dall’altra parte, leggere quei numeri non come bambini e ragazzi in carne ed ossa, che la mattina si erano svegliati insonnoliti o vitali e pieni di energie, avevano fatto colazione; che – magari – attendevano una verifica, che avevano salutato i loro genitori, che stavano vivendo, ascoltando, ridendo, chiacchierando come in un giorno qualsiasi della loro vita? Oppure dobbiamo pensare che queste cose non tocchino a noi: esistono solo in paesi di culture diverse o per scarti insondabili del destino; di quel destino che ti fa trovare – in una mattina qualsiasi – sulla tua strada di bambino e di ragazzo la scheggia impazzita, il malato psichiatrico o il fanatico, che premeditava da tempo la strage, complice anche un uso spregiudicato delle armi, come accade purtroppo frequentemente nelle scuole americane? Non ricordiamo, allora, il 2012, quando a Tolosa, in una scuola alla periferia della città, l’odio razziale portò all’ennesima profanazione dello spazio scolastico, con l’uccisione di Jonathan Sandler, 30 anni, di cittadinanza franco-israeliana, residente a Gerusalemme, insegnante di religione, e i suoi 2 figli Arieh (6 anni) e Gabriel (3) e di un’altra bambina, Miriam, di circa 8 anni, figlia del direttore dell’istituto scolastico? È accaduto anche da noi, ancora nel 2012: Brindisi, Istituto Falcone e Borsellino, il 19 maggio; in seguito all’esplosione di un ordigno collocato presso il portone della scuola all’ora di entrata, muore Melissa Bassi, di 16 anni. Alcuni ragazzi rimangono feriti, un paio molto gravemente.

È l’intenzionalità che sconvolge. Ancor più del male stesso. Vuol dire: io voglio fare male, tanto male; ma voglio farlo precisamente lì, in una scuola, in quella scuola. Non è un elemento privo di significato. La scuola è il luogo della tutela, dello stare al sicuro. Il luogo a cui affidiamo tutti i giorni i nostri figli, in cui entrano i nostri studenti, il nostro luogo di lavoro. I ragazzi, i bambini, entrano lì ogni mattina fiduciosamente; nessuno pensa di non tornare indietro: non è un’idea immaginabile.

«Il senso non è nelle caratteristiche personali delle vittime, ma nella loro identità collettiva», dice Adriano Zamperini, docente di Psicologia della violenza all’Università di Padova, della ‘strage degli innocenti’, commentando la strage di Peshawar, l’assalto alla scuola dei figli dei militari. Da questo punto di La scuola è il luogo della tutela, dello stare al sicuro. Il luogo a cui affidiamo tutti i giorni i nostri figli, in cui entrano i nostri studenti, il nostro luogo di lavoro. vista gli studenti chini sui libri – o anche che scherzano, si piacciono, socializzano, litigano – rappresentano, nella contrapposizione delle ideologie, delle religioni e dei poteri, il nemico nella sua essenza più pericolosa, il virus da estirpare violentemente, da scovare sotto i banchi di una scuola, perché non possa riprodurre e riprodursi. «Non c’è un nome scritto sulla fronte di ognuna delle vittime, sono bersagli identificati come entità sociale, senza un’anima personale, da abbattere con furia selvaggia, per la potenzialità che incarnano: sono e potranno essere teste e cuori pensanti, si trovano nel luogo in cui la mente si allena a comprendere il nonsenso di tutte le guerre e il loro inutile perpetuarsi.

Se questo dovesse accadere, se dai banchi della scuola uscissero eserciti disarmati di nuovi abitanti della terra a portare fratellanza e concordia, sarebbe la novità intollerabile da combattere, costi lo sterminio sul nascere di ogni vita. La bestia umana che si nutre di sangue e dell’odio assaporato, divenuto ragione sufficiente per vivere e morire, vagherebbe per i deserti a ululare alla luna. Era il sogno degli studenti di Peshawar e del mondo». Così conclude Zamperini. E ancora: la scuola è vista da alcuni anche come il più grande ostacolo al reclutamento di questi bambini per una vita di violenza. L’istruzione non è solo il miglior antidoto possibile contro la povertà; è anche uno dei modi migliori per combattere il terrorismo. Aiuta a uscire dalla disperazione e ad avere un’opportunità.

La scrittrice indiana Anita Nair ha forse espresso il più lucido e toccante commento alla strage di Peshawar: «Ditemi, Taliban, ditemi, tutti voi fondamentalisti islamici, in che modo, nel vostro distorto sistema di giustizia, potete accusare dei bambini di aver ucciso altre persone o portato corruzione sulla terra? Quale sura del Corano autorizza ad ammazzare bambini? Quale detto del profeta esorta a farlo? Al contrario: Abu Bakr al-Siddiq, il primo califfo, dava queste istruzioni ai suoi eserciti: “Vi istruisco in dieci materie: non uccidete donne, bambini, vecchi o infermi; non tagliate alberi che producono frutti; non distruggete nessuna città…” (dal Libro del Jihad).
I bambini non sanno che cosa santifica o proibisce la religione. I bambini non sanno che cos’è il governo, o che cosa sono i confini. I bambini non progettano strategie di guerra o operazioni militari. I bambini non sono responsabili di quello che fa una terra o gli adulti di quella terra. I bambini sono la nostra speranza per il domani.
E allora come potete, voi che combattete guerre di religione, convivere con la consapevolezza di aver preso la vita a dei bambini? Loro che sono il cuore del futuro, perché devono pagare il prezzo del presente e del passato?».

Esisterà mai un mondo in cui le scuole – almeno le scuole, per la loro funzione, per il significato simbolico che hanno, per l’umanità giovane che accolgono – possano essere considerate (finalmente) zona franca rispetto al sonno della ragione e alla violenza della sopraffazione?

Non lo credo, purtroppo. Ma spero tanto di sì.

 

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