Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani

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La storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare, come quella dei diritti e delle loro conquiste, delle lotte delle minoranze, è una lezione che intreccia storia e educazione civica, e che dà un senso profondo alla formazione dei nuovi cittadini e cittadine

In una delle lettere di don Milani, divenuta tra le sue citazioni più celebri, si legge:

Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.

Si tratta del memoriale difensivo che il priore invia ai giudici romani in vista del processo al quale, gravemente malato, non può partecipare. Come l’articolo 3 della Costituzione, potrebbe stare bene sui muri di una classe. Certo, va ben compresa, perché nel focalizzarsi sulla tentazione dell’obbedienza, non si perda di vista il richiamo all’assunzione di responsabilità che chiude il periodo. Una sorta di spiegazione si trova nella stessa lettera, qualche pagina prima:

In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.

Le due lettere, ai cappellani militari e ai giudici[1], scritte da don Milani nel 1965, costituiscono forse l’episodio più noto nella storia accidentata del riconoscimento dell’obiezione di coscienza in Italia. Possono essere al centro di una lezione che intreccia storia ed educazione civica. Da un lato è necessaria una contestualizzazione storica degli anni Sessanta: il processo a don Milani si colloca all’intersezione tra i mutamenti della società, le permanenze autoritarie nel sistema giudiziario, la svolta del Concilio, la preparazione antiautoritaria del Sessantotto. Dall’altra sono affrontate questioni centrali nell’educazione alla cittadinanza democratica: il rapporto tra obbedienza alla legge e legalità, la relazione tra autorità e coscienza, la costruzione dell’idea di Stato e di quella di patria e il nesso tra queste entità e il singolo individuo.

In realtà, la storia dei diritti e delle loro conquiste dovrebbe occupare uno spazio non marginale nello studio della storia del Novecento: ricostruire il percorso dello Statuto dei lavoratori, della legge Basaglia, del femminismo e delle sue conquiste rappresenta uno snodo educativo fondamentale per capire il secolo trascorso e per formare il cittadino e la cittadina. Dentro questo percorso può avere un posto anche la storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Pur coinvolgendo numeri ridotti, costituisce un buon angolo di visuale per leggere la storia della Repubblica. Inoltre la sua eredità è una realtà che molti giovani sperimentano, una volta terminata la scuola: il Servizio civile universale. Dentro questo percorso una cesura è rappresentata dal 1972, quando una legge di compromesso riconosce l’obiezione di coscienza, non come diritto, ma quale opzione: sarebbe infatti spettato a una commissione deliberare rispetto alla richiesta di un giovane.

In questo articolo non vi presento un laboratorio. Trovate già una bella proposta di Luigi Garelli sul sito Novecento.org dal titolo “Fuori ordinanza. L’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia”. Cerco di indicarvi invece alcune possibili tracce sul modo in cui questa storia può essere compresa dentro la storia sociale dell’Italia. Per quanto possibile indicherò materiali reperibili online. Segnalo in particolare tre portali: l’archivio del Centro Studi Sereno Regis[2]; la mostra multimediale “Signornò” curata dal sottoscritto e da Massimiliano Fortuna, dedicata all’obiezione di coscienza a Torino, dove vi sono anche brevi clip di testimonianze orali di alcuni protagonisti di allora[3]; l’archivio creato dall’obiettore Claudio Pozzi e ora conservato dal Cesc Project[4].

Un antefatto: la Grande Guerra

I primi casi di obiezione in Italia nel Novecento si hanno durante la Prima guerra mondiale. Si tratta di atti isolati, che rimangono a lungo segreti, almeno fino al secondo dopoguerra: nascono da una spiritualità interiore, maturata intimamente dalla lettura di Tolstoj o in comunità chiuse come quella dei testimoni di Geova. Alcune di queste storie sono state narrate da Andrea Filippini, Ercole Ongaro e Amoreno Martellini[5]. Ne rimarco alcune. Dello zoccolaio Luigi Luè potete trovare alcuni stralci di due lettere autobiografiche scritte a Edmondo Marcucci nel 1951[6]. Del processo al Tribunale di Alessandria del testimone di Geova Remigio Cuminetti il progetto Triangolo Viola, dedicato alla persecuzione dei testimoni di Geova, riporta la relazione di una testimone, Clara Cerulli[7]. Andrebbe incrociata con gli atti del processo conservati presso il Fondo del Tribunale militare di Alessandria a cui fa riferimento Filippini. Sul fisarmonicista Giovanni Gagliardi esiste un bel progetto realizzato dal Liceo “Melchiorre Gioia” di Piacenza e dall’Archivio di Stato approdato a un libro Giovanni Gagliardi. Una vita spiata[8]. La scuola ne ha anche realizzato un cortometraggio reperibile su internet. Alberto Long, avventista, è la figura meno nota. Potrebbe essere riscoperta attraverso una sua memora digitalizzata dal Centro Studi Sereno Regis[9], un testo inedito che si presta bene a un lavoro in classe.

Chiaramente sono piccoli frammenti, che appartengono alle “storie minori” della Prima guerra mondiale. Non possono certo sostituire l’approfondimento dei dati di contesto: la mobilitazione bellica, la novità rappresentata da una guerra di massa, la contrapposizione tra interventismo e neutralismo. Tuttavia costituiscono tracciati personali unici di rifiuto della violenza della guerra, scontato non senza sacrifici: alle memorie dei fanti[10] e dei prigionieri di guerra[11] possono accostarsi le vicende di questi intransigenti pacifisti. Oppure quelle dello sparuto gruppo di donne che anima una militanza pacifista e giunge a organizzare il Congresso delle donne di pace del 1915[12]. Una sola veniva dall’Italia: è la figura affascinante di una protofemminista, pacifista e stilista valtellinese che ha dato un’impronta significativa alla moda italiana: Rosa Genoni[13].

Lotta per la pace

Il ventennio fascista silenzia nelle carceri militari gli obiettori, solitamente provenienti dalle comunità dei testimoni di Geova[14]. Durante la Seconda guerra mondiale, il caso più noto avviene in Austria: è quello di Franz Jägerstätter, obiettore austriaco, giustiziato dal nazismo. Di recente Terrence Malick ha dedicato alla sua vita il film A Hidden Life[15]. Per l’Italia è interessante lo scambio epistolare privato tra un aviatore e il parroco di una sperduta parrocchia del mantovano. Siamo nel 1941, con l’inerzia della guerra ancora favorevole all’Asse, quando don Primo Mazzolari riflette sull’obiezione di coscienza, sul tema dell’obbedienza di fronte al flagello della guerra e sulla incompatibilità tra fascismo e cristianesimo. Quel lungo testo, rimasto a lungo inedito, si concludeva così:

Il martire che aveva coscienza di morire per Cristo ha inaugurato il regno dei figli di Dio e dei veri uomini liberi; il soldato che muore, senza sapere perché muore, porta al colmo il regno dei servì[16].

Nel dopoguerra l’obiezione di coscienza entra nel dibattito pubblico[17]. Nasce come istanza intellettuale nei circuiti raccolti attorno al filosofo Aldo Capitini e all’ex sacerdote Giovanni Pioli. Nonostante fosse un’istanza pressoché ignota in Italia, davanti al ricordo del conflitto passato, garantito dall’obbedienza cieca di milioni di uomini ai comandi più odiosi, e al timore di uno nuovo combattuto con l’arma atomica, l’obiezione di coscienza appare una strada certa per bandire la guerra, perché in essa coincide il fine del diffuso desiderio di pace e il mezzo, ovvero, un intransigente rifiuto della violenza. Il tema non conosce particolare diffusione, ma approda all’Assemblea costituente grazie a un deputato cremonese del neonato Psli, Ernesto Caporali. Il relatore di maggioranza, il democristiano Umberto Merlin, l’avrebbe liquidata con poche battute. Tuttavia il dibattito attorno all’articolo 52 contiene diversi elementi di riflessione[18].

Aldo Capitini, il più importante filosofo della nonviolenza italiana, insieme ad alcuni giovani, in un confronto durante il seminario sulle Tecniche della nonviolenza nel 1963. Da questa esperienza sarebbero nati i Gruppi di azione nonviolenta, che avrebbero animato lungo gli anni Sessanta la richiesta del riconoscimento dell’obiezione di coscienza. (Archivio fotografico “Movimento nonviolento”).

L’obiezione di coscienza ottiene una tribuna pubblica quando, nel 1949, il rifiuto di prestare servizio militare da parte di un giovane ferrarese, Pietro Pinna, diventa un caso nazionale. Sul sito del Centro Studi Sereno Regis si trova una corposa rassegna stampa del caso: articoli de «La Stampa», del «Corriere della Sera», de «L’Avanti!», de «Il Candido» di «Oggi», de «l’Unità», di «Cronaca Nera»,  de «Il Giornale dell’Emilia». In particolare, segnalo la fotocronaca del primo processo di Roby Morgan apparsa su «Crimen»[19] e il memoriale di Pinna, che contiene le sue motivazioni profonde[20]. La vicenda si conclude dopo due processi, due condanne e il congedo per un’inesistente nevrosi cardiaca. Sullo stesso sito sono presenti materiali sui casi di Elevoine Santi e dell’anarchico sanremese Pietro Ferrua, gli obiettori che assieme a Mario Barbani succedono a Pinna nel 1950.

Il contesto in cui matura una crescente sensibilità verso l’obiezione di coscienza può essere seguito sul lungo periodo. Permette ad esempio di osservare i cambiamenti e i conflitti che attraversano la Chiesa sulla dottrina della guerra giusta. Negli anni Cinquanta la difesa degli obiettori è affidata alla voce solitaria di don Primo Mazzolari sulle pagine di «Adesso» e poi su un libretto uscito anonimo Tu non uccidere. Gli anni Sessanta sono invece segnati dai processi ai primi obiettori cattolici e a padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani, che avevano preso le loro difese. Sullo sfondo vi sono  la Pacem in terris e la svolta conciliare. Sacerdoti e obiettori, condannati dalla magistratura civile e militare, ricevono parziale soddisfazione dal Concilio Vaticano II, che nella Gaudium et spes auspica leggi che «provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana». È una formula di compromesso, ma strappata alla ferma opposizione dei vescovi americani: siamo nel pieno della guerra del Vietnam.

Volgendo lo sguardo agli anni che seguono il Sessantotto, che vede una crescita consistente della mobilitazione per l’obiezione, ci si può rivolgere al mutamento del lessico generazionale. Il rifiuto della leva diventa politico e parte da una interpretazione antiautoritaria e di classe: per obiettori e gruppi antimilitaristi l’esercito partecipa alla repressione dei moti popolari, serve per contenere la disoccupazione e ridurre la conflittualità sociale, distoglie risorse che potrebbero essere utilizzate per servizi popolari come scuole e ospedali. Il servizio civile appare invece come prefigurazione di una società giusta e inclusiva, che passa attraverso l’impegno politico nel sindacato, a sostegno di disabili, tossicodipendenti, internati nei manicomi e popolazioni colpite da calamità, trascurate dallo Stato. Inoltre l’obiezione non è più la scelta singola di una singola coscienza, ma diventa collettiva. Può essere interessante un raffronto tra il memoriale di Pietro Pinna e le dichiarazioni collettive sottoscritte da alcuni obiettori nel 1971 e nel 1972[21].

Muta anche la rappresentazione scenica e iconografica: obiettori e pacifisti occupano strade, piazze, sfilano nelle marce antimilitariste attraverso la Lombardia, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia[22], bruciano cartoline precetto, occupano piazza San Pietro vestiti da carcerati[23]. I volantini immortalano generali pingui che mangiano uomini e defecano soldati.

Libertà negate in tempi di Guerra fredda

La storia dell’obiezione di coscienza non può essere separata dal contesto di Guerra fredda. Solo guardando ad esso si possono comprendere le resistenze dello Stato a un suo riconoscimento. Nessuna delle principali culture politiche intercetta le esigenze degli obiettori. Gli approcci securitari  alimentano timori speculari: la Democrazia cristiana avverte nel riconoscimento dell’obiezione il pericolo di un boicottaggio da parte del Pci, in caso di invasione dell’Urss. Il Partito comunista vede in essa una forma elitaria e controproducente in caso di un colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti. La leva generalista, insegnando l’uso delle armi, appare una salvaguardia della stessa democrazia. Al tempo stesso, entrambi i partiti intendono rassicurare l’elettorato, e vedono l’esercito come luogo di propaganda. Un sostegno all’obiezione non sarebbe invece ripagato. Quanto alla Chiesa, questa interpreta l’accento posto sulla coscienza con la lente del protestantesimo (oltre che dell’anticomunismo). A parte il sostegno di alcuni deputati, come Umberto Calosso (Psli) e Igino Giordani (Dc), l’obiezione non trova sponde in Parlamento.

La situazione comincia a mutare quando, in seguito alla repressione della rivolta ungherese del 1956, il Partito socialista si allontana dal Pci. Da questo momento, a ogni legislatura avrebbe presentato un progetto di legge. Con gli anni Sessanta anche dalla sinistra democristiana, coinvolta dalle nuove aperture della Chiesa, giungono proposte per riconoscere l’obiezione. Tutti i tentativi si arenano in Commissione Difesa, anche per l’ascendente sul governo dello stato maggiore, contrario alla riforma.
L’iter politico è utile per evidenziare le difficoltà incontrate da tutte le riforme, nei primi due decenni della Repubblica.

In secondo luogo, l’obiezione di coscienza costituisce un osservatorio privilegiato per scorgere le permanenze antidemocratiche nell’ordinamento repubblicano. Da un lato, infatti, gli obiettori entrano in contatto con l’anomalia della giustizia militare che, almeno fino alla riforma del 1981, costituisce un corpo separato[24]. Non essendo prevista l’obiezione nemmeno come reato, sono condannati per disobbedienza continuata. Tuttavia i loro processi sono caratterizzati da forzature nella procedura e dal persistente rifiuto della corte a portare le norme del codice penale alla Corte costituzionale. Scontata la pena, il dilemma per loro si rinnova: un nuovo rifiuto costa un altro processo e una nuova condanna, così fino al 45esimo anno d’età. Per gli obiettori supportati da una rete che conferisce visibilità al loro gesto interviene un congedo per qualche motivo fisico. Per i più remissivi testimoni di Geova le condanne sono più dure e lunghe, talvolta accompagnate dall’internamento in manicomio militare. Inoltre, gli obiettori sperimentano quell’universo reclusorio costituito dalle carceri militari, di cui diventano reporter[25]. A loro si devono le denunce circa le condizioni di detenzione: il freddo, le condizioni igieniche precarie, i suicidi, i pestaggi compiuti dalle guardie, gli abusi. Nel 1951 Elevoine Santi pubblica un resoconto anonimo per il mensile «L’Incontro»[26]. Negli anni Settanta i “diari dal carcere” sono diffusi dalla stampa pacifista: molti sono facilmente reperibili[27].

Accanto alla reclusione fisica degli obiettori vi è la persecuzione delle idee: parteggiare per gli obiettori può costare un processo per apologia di reato o istigazione di militari a disobbedire. Nel 1961 la Commissione censura impedisce la distribuzione di Tu ne tueras point, film di Autant Lara, che metteva in scena il processo realmente avvenuto a un obiettore francese e l’assoluzione di un sacerdote tedesco che, durante la guerra, ancora seminarista, aveva obbedito all’ordine di uccidere un maquis disarmato. Il sindaco di Firenze Giorgio La Pira disobbedisce e organizza una proiezione nella città, venendo processato e infine assolto[28]. Due anni dopo è processato e condannato in appello padre Ernesto Balducci per avere manifestato, in un’intervista su «Il Giornale del Mattino», «silenziosa ammirazione» nei confronti degli obiettori. La sentenza è davvero sorprendente: il giudice lo accusa di frode per non aver riportato il pensiero autentico della Chiesa. Nel 1965 comincia il processo a don Milani per la lettera con cui respingeva un comunicato dei cappellani militari in congedo della Regione Toscana, che definivano l’obiezione «estranea al comandamento dell’amore» ed «espressione di viltà». Assieme a lui è imputato il direttore responsabile di «Rinascita» Luca Pavolini (come in precedenza era stato imputato quello de «Il Giornale del mattino»). Don Milani muore prima della conclusione del processo, mentre Pavolini è condannato.

Anche pacifisti e antimilitaristi che manifestano chiedendo il servizio civile sono sottoposti a fermi, interrogatori e processi, spesso conclusi con l’assoluzione. Significativa è la retata, con grande dispiegamento di forze motorizzate, che nel marzo del 1966 porta all’arresto di due radicali, quattro marxisti-leninisti e due vecchi tipografi. Il motivo stava nella diffusione di alcuni volantini antimilitaristi, avvenuta nei pressi di una mostra allestita dall’esercito il 4 novembre dell’anno precedente, giorno della vittoria della Prima guerra mondiale[29]. L’assoluzione finale ci restituisce la presenza di due tendenze dentro la magistratura, in parte formatasi sotto il fascismo, in parte sotto la democrazia. Ci permette inoltre di aprire uno squarcio sul peculiare contesto della procura di Milano, che chiede la condanna degli antimilitaristi. Sette giorni dopo avrebbe fatto lo stesso per i liceali redattori de “La Zanzara” colpevoli di aver pubblicato una tavola rotonda su sessualità e famiglia, dove si parlava anche di rapporti prematrimoniali. Così avrebbe parlato il procuratore Oscar Lanzi:

La vostra sentenza può essere una spinta decisiva per gettare la morale nel baratro! Ai nostri tempi […] non c’erano gli obiettori di coscienza, i capelloni: noi dunque rabbrividivamo al suono degli inni nazionali, si fremeva per la patria, non si parlava di libero amore ma dei martiri del risorgimento.[30]

Agli atteggiamenti repressivi manifestati da una parte delle istituzioni, si aggiungono le violenze da parte delle formazioni di estrema destra. Talvolta le forze dell’ordine intervengono per tutelare la libera espressione dei movimenti pacifisti, come avviene a Torino nel febbraio del 1971. Altre volte invece accompagnano i pestaggi: accade sempre a Torino, in piazza Castello, il 4 novembre 1971. Anche in questo caso, a finire sotto processo non sono i militanti di estrema destra autori delle violenze, ma i pacifisti che le avevano subite[31].

Una lotta di minoranze

La legge 772 del 15 dicembre 1972 che riconosce l’obiezione di coscienza non è particolarmente liberale: prevede una durata del servizio civile maggiore di otto mesi e una commissione che avrebbe giudicato l’autenticità delle motivazioni degli obiettori. Chi rifiuta il servizio civile o se lo autoriduce per protesta o non si rimette alla decisione della commissione continua a essere condannato. Per questo obiettori nelle carceri militari avrebbero continuato a esserci fino alle soglie del 2000. Tuttavia, pur con molti limiti, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza partecipa a quella fase riformista che attraversa gli anni Settanta e allarga gli spazi delle libertà in Italia: riconoscimento del divorzio, istituzione delle Regioni, Statuto dei lavoratori, modifica dello stato di famiglia, legge Basaglia, istituzione del servizio sanitario nazionale, depenalizzazione dell’aborto, abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, solo per citare le leggi più note.

Inserire l’obiezione dentro la storia dei diritti conquistati ci permette di considerare due aspetti: innanzitutto che qualsiasi conquista non appare all’improvviso, ma ha alle spalle una battaglia lunga. Il Sessantotto, attraverso l’inedito protagonismo giovanile, aggiunge nuove maturazioni, linguaggi diversi, una maggiore visibilità a vicende che lo precedono. In secondo luogo, ci ricorda che la mobilitazione per i diritti civili è sempre condotta da minoranze.

Nell’obiezione di coscienza questo aspetto è particolarmente accentuato. Dall’inizio della Repubblica fino al riconoscimento dell’obiezione di coscienza gli obiettori sono 706. Di questi 622 sono testimoni di Geova, che si distinguono dagli altri per le motivazioni e per la ritrosia a dare pubblicità al proprio gesto. Il gruppo capitiniano che inizialmente sostiene Pinna e gli altri obiettori è costituito da una manciata di persone. Ma anche in seguito l’obiezione rimane storia di minoranze: nonviolenti, libertari, anarchici, testimoni di Geova e valdesi (la prima chiesa cristiana a chiedere, con il suo massimo organo, il Sinodo, il riconoscimento dell’obiezione nel 1958). Solo quando l’istanza incontra il mondo cattolico, la risonanza cresce, ma anche in questo caso dobbiamo parlare di una minoranza di vescovi e sacerdoti. Contestualmente, i dimostranti presenti alle prime manifestazioni di piazza organizzate dal Movimento nonviolento fondato da Aldo Capitini si contano sulle dita di una mano. Il Sessantotto conferisce un altro ordine di grandezza alle manifestazioni: si passa dalle decine alle centinaia (raramente migliaia) anche grazie alla capacità di mobilitazione messa in campo dal Partito radicale. Tuttavia, pur non giungendo a coinvolgere le masse, la crescente adesione rende sempre più popolare l’idea dentro l’opinione pubblica e riesce a esercitare una pressione vincente sul governo.

Può essere interessante vedere, infatti, come la legge sia strappata al Parlamento, grazie all’iniziativa nonviolenta di due radicali, Marco Pannella e Alberto Gardin. Il loro digiuno di 38 giorni provoca una mobilitazione internazionale che impone a Camera e Senato di discutere la legge. Di quella lotta Marco Pannella avrebbe steso un diario[32].

Obiezione di coscienza e riflessioni sugli stereotipi di genere

La costruzione della cittadinanza maschile a partire dalla Rivoluzione francese è fortemente interconnessa con la prestazione del servizio militare. Così come vi è legata l’esclusione da essa delle donne. Al tempo stesso, la dimensione guerriera contraddistingue la costruzione del modello maschile egemone: non solo il servizio militare è rito di ingresso alla maschilità adulta, ma la disponibilità al combattimento e al sacrificio in armi per la patria è una componente fondamentale della rappresentazione della virilità. Messo in discussione verso la fine dell’Ottocento, questo modello esce rafforzato dall’affermazione del nazionalismo, dalla retorica bellicista della Prima guerra mondiale e infine dall’affermazione del fascismo. La Seconda guerra mondiale – con i suoi lutti, l’ignominia di una guerra d’aggressione, il vile sbandamento dello stato maggiore dopo l’8 settembre – avrebbe aperto uno iato non più colmabile tra costruzione del maschile e servizio militare. Tuttavia, il clima conservatore degli anni Cinquanta avrebbe rallentato tale divaricazione.

L’obiezione di coscienza costituisce una radicale messa in discussione del tradizionale modello di virilità. Propone una maschilità non più orientata al combattimento bensì, attraverso il servizio civile, al lavoro di cura. Gli obiettori, tuttavia, non colgono la portata di questa novità. Mano a mano che si politicizzano, si rivolgono a una prospettiva di classe, non di genere: gli obiettori si sentono parte del mondo degli sfruttati, ma raramente lo sguardo alle dinamiche oppressive che coinvolgono operai, studenti, disabili, internati nei manicomi si allarga anche alle forme di potere maschile eterosessuale.

Di contro, la trasformazione dell’immaginario maschile rappresentato dall’obiezione è ben presente nell’oltranzismo militarista e nell’estrema destra: l’immagine dell’obiettore si sovrappone a quella di un maschio dimezzato, per virtù morale, in quanto vigliacco, o per capacità fisica e sessuale. Soprattutto alla fine degli anni Sessanta, quando il movimento omosessuale rivendica in maniera più visibile il proprio diritto di cittadinanza, negli striscioni, nei volantini anonimi, talvolta persino negli interventi di parlamentari come quello di Birindelli (tra i congiurati del golpe Borghese)[33] la diade “obiettori” e “invertiti” diventa ricorrente.

Una riflessione sul servizio militare da un punto di vista di genere sorge invece nel pacifismo femminista. Già alla fine dell’Ottocento, e poi nell’immediato dopoguerra, alcune intellettuali avevano cominciato a riflettere sul peculiare ruolo della donna nella costruzione della pace, originato dalla sua natura materna. Se certamente il pacifismo maternista era condizionato dalla cultura dell’epoca, è anche vero che questa autorappresentazione permette alle donne di discutere un ambito prettamente maschile e di trasformare la propria specificità in una militanza contro un potere maschile all’origine di due guerre devastanti: le donne ne erano state le prime vittime, subendo il dolore atroce della perdita dei propri figli. In questa direzione si muove l’Associazione Madri Unite per la Pace, animata nel dopoguerra da Maria Remiddi e Anna Garofalo[34]. Entrambe avevano trasformato il loro vissuto della guerra in un romanzo, uscito nel 1945[35].

Negli anni Settanta, con la nascita dei movimenti femministi, il nesso donna-maternità-pace è ormai anacronistico. Se una parte riflette in un’ottica di parità, caldeggiando l’apertura del servizio militare anche alle donne in forma volontaria, un’altra rifiuta tale opzione, sempre partendo da una prospettiva di genere: l’esercito e la gerarchia militare sono prodotti intrinsecamente pervasi di una cultura patriarcale e dei suoi valori, quali gerarchia, comando e forza, e del mito dell’uomo forte che ha determinato la sottomissione delle donne. L’ingresso delle donne non favorirebbe alcuna evoluzione, perché a determinarla non sarebbe una prospettiva emancipatoria, ma la necessità di coprire buchi dovuti alla futura crisi demografica o di alleggerire un contesto che generava un forte stress emotivo tra i soldati: da angeli del focolare, le donne si sarebbero convertiti in angeli della caserma, senza alterare la natura di una istituzione autoritaria. Alla donna sarebbe invece spettato il compito di combattere contro tutta l’istituzione militare per essere forza trainante di una liberazione che riguarda anche l’uomo, rompendo quella catena di oppressione-repressione di cui il patriarcato era uno dei capisaldi. Questa visione sarebbe culminata nella mobilitazione del pacifismo femminista contro gli euromissili, prima a Greenham Common e poi a Comiso[36]. È una riflessione che scema nel corso degli anni Novanta, quando l’ingresso delle donne nell’esercito incontra un favore crescente, mentre la leva obbligatoria è superata da quella volontaria nel quale i ruoli di uomini e donne sono parificati. Tuttavia, rivedere le pratiche politiche collettive messe in atto a Comiso e i linguaggi del femminismo pacifista, analizzare le posizioni dei diversi femminismi rispetto all’ingresso delle donne nell’esercito o ragionare sull’influenza di un certo modello di maschilità sulla propaganda bellica dove è esaltato l’uso della forza, mi pare possano aprire in classe utili spazi di riflessione con inevitabili agganci all’attualità.


Note

[1] Per una edizione delle lettere filologicamente accurata rimando a L. Milani, Tutte le opere, a cura di F. Ruozzi, A. Canfora, V. Oldano, S. Tanzarella, II vol., Mon­dadori, Milano 2017. Nell’archivio del Centro Studi Sereno Regis potete ritrovare riproduzioni di originali, apparse sui giornali, tra cui la riproduzione della lettera con il titolo I preti e la guerra che avrebbe dato inizio al processo («Rinascita», n. 10, 6 marzo 1965).

[2] Si veda https://archivio.serenoregis.org/.

[3] SI veda https://signorno.net/.

[4] SI veda https://www.obiezionedicoscienza.org/.

[5] E. Ongaro, No alla guerra (1915-1918), I libri di Emil, Città di Castello 2015; A. Filippini, L’o­biezione di coscienza nell’Italia repubblicana (1861-1919), Youcanprint, Tricase 2018; A. Martellini, Fiori nei cannoni: nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2006. Trovate una pregevole sintesi di Filippini su https://rivista.clionet.it/ intitolato I primi passi dell’obiezione di coscienza alla guerra nell’Italia liberale.

[6] Biblioteca Planettiana, Fondo Marcucci, b. 11, fasc. 1/7 d. Scoperte da A. Martellini, Fiori nei cannoni, cit., vi si trovano ampie riproduzioni in E. Ongaro, No alla guerra, cit., pp. 111-116 (http://www.ilborgonotizie.it/luigi_lue.html).

[7] Si veda https://www.triangoloviola.it/cumma15.html. La sentenza è riprodotta in Minoranze, coscienza e dovere della memoria, prefazione di M. Mellini, Jovene Editore, Napoli 2001, pp. 191-197. Si veda anche V. Paschetto, L’odissea di un obbiettore durante la I guerra mondiale, ne “L’Incontro”, anno IV, n. 7-8, 1952 (scaricabile dalla sezione “Bolletini e periodici” in https://archivio.serenoregis.org/).

[8] Archivio di Stato di Piacenza, Liceo “Melchiorre Gioia”, Giovanni Gagliardi. Una vita spiata, Piacenza 2018. Per il video Giovanni Gagliardi, Momenti di una vita spiata: https://www.youtube.com/.

[9] Memorie di Alberto Long in https://archivio.serenoregis.org/ (in originale: Archivio del Centro Studi Sereno Regis (ACSSR), Mir Roma (MR), Addizione, Ua 491).

[10] M. Mondini, La guerra italiana, partire, raccontare, tornare, 1914-18, il Mulino, Bologna 2018.

[11] G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

[12] B. Bianchi, Il militarismo, la maternità, la pace. Voci dal femminismo italiano (1868-1918), in P. M. Filippi (a cura di), Parlare di pace in tempo di guerra: Bertha von Suttner e altre voci del pacifismo europeo, Osiride, Accademia Roveretana degli agiati, Rovereto 2015. Si può reperire qui: https://iris.unive.it/handle/10278/3677630. Si veda anche S. Bartoloni, Donne di fronte alla guerra: pace, diritti, democrazia (1979-1918), Laterza, Roma-Bari 2017.

[13]  M. Soldi, Rosa Genoni. Moda e politica: una prospettiva femminista fra ‘800 e ‘900, Marsilio, Padova 2019.

[14] P. Piccioli, L’obiezione di coscienza al servizio militare durante il fascismo, in «Studi Storici», 2 (2003).

[15] E. Putz, Franz Jägerstätter. Un contadino contro Hitler, Berti, Piacenza 2000; F. Comina, Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, Il primato della coscienza, Emi, Verona 2021.

[16] P. Mazzolari, La chiesa, il fascismo, la guerra, a cura di L. Bedeschi, Vallecchi, Firenze 1966, p. 122.

[17] M. Labbate, Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana, Pacini, Pisa 2020; A. Martellini, Fiori nei cannoni, cit.; G. Vecchio, Pacifisti e obiettori nell’Italia di De Gasperi, Studium, Roma 1993.

[18] Tutte le discussioni articolo per articolo sono riportate qui: https://www.nascitacostituzione.it/. Segnalo in particolare la discussione in prima sottocommissione, dove partecipano Moro, Togliatti e Basso. Rispetto alla discussione in plenaria, oltre all’intervento di Caporali, segnalo quelli di Calosso, Azzi, Gasparotto, Sullo e Nobile.

[19] R. Morgan, Il soldato Pietro Pinna obiettore di coscienza, in «Crimen», 1949, n. 37, https://archivio.serenoregis.org.

[20] La parola a Pietro Pinna, in https://archivio.serenoregis.org.

[21] Prima dichiarazione collettiva di obiezione di coscienza, (ACSSR, Mir Piemonte, UA 78), in https://archivio.serenoregis.org. Su https://www.obiezionedicoscienza.org/ trovate anche la foto della conferenza stampa in cui è presentata la prima dichiarazione collettiva.

[22] Si trovano vari volantini delle marce antimilitariste su https://archivio.serenoregis.org. Resoconti possono essere rintracciati su «Azione nonviolenta», nei numeri estivi. Sono scaricabili nella sezione «Bollettini e Periodici» sullo stesso sito.

[23] Fotografie della manifestazione di piazza Lagrange a Torino dell’11 marzo 1972 (ACSSR, MP, Ua. 89), https://archivio.serenoregis.org.

[24] S. Canestrini, A. Paladini, L’ingiustizia militare: natura e significato dei processi davanti ai giudici in divisa, Milano, Feltrinelli, 1973.

[25] Un disegno della cella di isolamento a Gaeta realizzato da Claudio Pozzi si trova in https://www.obiezionedicoscienza.org/.

[26] Necessario e urgente rinnovare il sistema penitenziario italiano, in «L’Incontro», 9 (1951). Potete scaricarlo nella sezione «Bollettini e periodici» su https://archivio.serenoregis.org

[27] R. Cicciomessere, Diario di ricordi da Peschiera e dintorni in https://old.radicali.it/ («La prova radicale», n. 4, 1972); M. Pizzola, Diario dal carcere militare, in «La prova radicale», nn. 2 e 3 (1972) ora in Id., La sporca pace. La mia obiezione di coscienza, Multimage, Firenze 2023; V. Minnella, Vigilando reprimere, in «Se la patria Chiama», n. 1, 1971 e n. 2, 1972 (reperibile su https://www.selapatriachiama.org/); A. Trevisan, in «Bollettino Pax Christi», 1972, n. 3. Sono invece rimasti a lungo nel cassetto e pubblicati in anni recenti i diari di E. Bellettato, Diario di un obiettore. Strapparsi le stellette nel ’68, Emi, Bologna 2012 e C. Pozzi, Uno spicchio di cielo dietro le sbarre: diario dal carcere di un obiettore di coscienza al servizio militare negli anni ’70, Centro Gandhi, Pisa 2019. Infine vi sono le memorie degli obiettori su quella esperienza. Segnalo: P. Pinna, La mia obbiezione di coscienza, Edizioni del Movimento nonviolento, Verona 1994; A. Trevisan, Ho spezzato il mio fucile, Edb, Bologna 2005; V. Minnella (con Wu Ming 1 e Filo Sottile), Se vi va bene bene se no seghe. Dall’antimilitarismo a Radio Alice e ancora più in là, Ed. Alegre, Roma 2023.

[28] Trovate alcuni documenti sulla mostra virtuale https://cinecensura.com/ alla voce Non uccidere.

[29] Si veda M. Pannella, La nota politica: Lorenzo e Andrea Strik Lievers in carcere, in http://old.radicali.it/. Alcuni approfondimenti: L’obiezione di coscienza di fronte alla magistratura, in S. Cecchi, C. Panizza (a cura di), Indagare l’Italia repubblicana. Momenti di una storia lunga 75 anni (1945-2021), Aras, Fano 2021; A. Martellini, Tutti gli eserciti sono neri…o quasi. L’antimilitarismo, in Laban­ca, Le armi della Repubblica dalla Liberazione ad oggi, pp. 576-581.

[30] Guido Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003, p. 206.

[31] Su entrambi gli accadimenti trovate numeroso materiale su https://archivio.serenoregis.org. Il tema è trattato anche in M. Labbate, Non un uomo né un soldo. Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino, Torino, Ega 2023.

[32] M. Pannella, Diario di un digiuno, in https://old.radicali.it/.

[33] AP, Camera, 7° Commissione, 6 dicembre 1972, pp. 32-33 cit. in A. Martellini, Il cinismo della storia. Il cinquantesimo anniversario della legge sull’obiezione di coscienza e il dibattito parlamentare sulle spese militari, “Storia e problemi contemporanei”, 2021, n. 87, pp. 160-173.

[34] Donne per la pace: Maria Bajocco Remiddi e l’Associazione internazionale madri unite per la pace nell’Italia della guerra fredda, FrancoAngeli, Milano 2006.

[35] A. Garofalo, In guerra si muore, Roma, Universale, 1945; Maria Remiddi, Pianto di Ecuba, Roma, Gismondi, 1947.

[36] Rimando al numero di «Dep», n. 46, 7/2021 scaricabile su https://www.unive.it/. Si veda anche E. Baeri, Violenza, conflitto, disarmo: pratiche e riletture femministe, in T. Bertilotti, A. Scattigno (a cura di), Il femminismo degli anni Settanta, Viella, Roma 2005.

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Marco Labbate

è dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino.  Ricopre l’incarico di vicedirettore scientifico dell’Istituto di storia contemporanea di Pesaro e collabora con l’Istituto storia Marche e con il Centro studi “Sereno Regis” di Torino. Tra i suoi ultimi libri pubblicati, “Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana”, Pacini Editore 2020, e “Non un uomo né un soldo – Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino”, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2022.

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