Già ho parlato, su questa rivista, del bellissimo Musée de la Romanité di Nîmes, da me visitato poco dopo la sua inaugurazione nel 2018. Nei giorni scorsi ci sono tornato per vedere una mostra che non ha certo deluso le mie aspettative: il suo titolo è L’Empereur romain, un mortel parmi les dieux (aperta fino al 19 settembre 2021) e ripercorre le origini del culto imperiale, pratica introdotta dal primo imperatore di Roma, Augusto, nel I secolo a.C.
Non avevo dubbi sulla sua qualità, visti la curatela di Dominique Darde, conservatrice del locale museo, e lo spessore culturale del comitato scientifico composto da Michel Christol, Pierre Gros, John Scheid, tre “grandi vecchi” del mondo accademico francese, che mi è capitato di incontrare – nel corso degli anni – in qualche convegno d’Oltralpe.
Inoltre avevo già visto dal sito web del Museo che delle 149 opere esposte ben 30 provengono dal Louvre, istituzione che ha collaborato all’allestimento dell’esposizione; e che delle 64 appartenenti alle collezioni del Musée de la Romanité 46 non erano mai state presentate al pubblico: come resistere, allora, alla tentazione di un viaggetto in Provenza?
Augusto, iniziatore del culto imperiale
La prima parte della mostra è decisamente “augustea”, poiché – come già si è detto – fu Ottaviano Augusto l’iniziatore del culto imperiale a Roma. Tale prospettiva non lo portò però ad apparire mai – perlomeno esplicitamente – come dio vivente, ma come figlio del divino Cesare (lui sì ormai divus), nonché come un intermediario tra gli uomini e gli dei e pertanto soggetto provvidenziale.
Ciò si manifestò nell’assunzione del pontificato massimo (bellissimo un busto velato capite qui esposto, conservato al Louvre, ma già appartenuto alla mitica “Collezione Campana”, con un princeps dalle fattezze intermedie tra quello da Prima Porta e quello da Via Labicana ), nella statuaria che talora assimila la sua iconografia a quella di Apollo (alla moglie Livia toccò invece l’omologazione con Cerere, e non solo), ma anche in forme “furbescamente” indirette di culto della corona civica (uno dei suoi attributi, come si vede anche dal ritratto del principe nella locandina della mostra) e nell’associazione del termine Augustus a molte divinità.
Insomma, chi venerava i Lares Augusti venerava i Lari domestici o l’imperatore? E che dire del diffusissimo culto del Genius imperiale? Da morto, ovviamente, Augusto divenne anch’egli divus, per decisione del senato; e come lui lo diventarono alcuni imperatori “buoni” (scusate la semplificazione…) che rispettarono quell’antico consesso; per chi non l’aveva rispettato, invece, scattava spesso la damnatio memoriae.
Il lealismo della Gallia Narbonese
La seconda parte della mostra si concentra quindi sulle diverse forme assunte dal culto imperiale nella Gallia narbonese e sugli edifici a esso dedicati a Vienne, Arles, Béziers e Narbonne. A Nîmes, non lontano dal museo, due siti del periodo augusteo invitano i visitatori ad ampliare la mostra in situ: la Maison Carrée, tempio dedicato alla memoria dei nipoti di Augusto Gaio e Lucio, morti giovanissimi, e l’Augusteum del sito della Fontaine.
Sì, perché la Gallia Narbonensis, provincia romana da ben prima delle conquiste cesariane, ci ha lasciato una documentazione eccezionale del culto della casa regnante. E ciò dimostra come questo fenomeno nell’Impero non sia stato imposto unilateralmente, ma sia stato il frutto di una complessa modalità di comunicazione stabilita tra le autorità locali – desiderose di mostrare lealismo – e il potere centrale, assetato di visibilità e pertanto in cerca di propaganda. Un potere che aveva capito che avrebbe potuto reggersi solo se avesse convinto della sua legittimità quel “villaggio globale” sul quale governava, che si estendeva ormai da Gibilterra al Medio Oriente.
Tra statue, fregi, iscrizioni, oggetti minuti…
Alcuni pezzi in mostra, come anticipavo, sono meravigliosi. Sarebbe facile insistere su ritratti e statue monumentali (di Augusto, Livia, Giulia, Agrippa etc. e di altri imperatori), fregi (splendido uno dal Louvre con Tiberio sacrificante), elementi architettonici; ma la deformazione di chi scrive lo ha portato ad ammirare con particolare attenzione alcune iscrizioni (già ho alluso agli altari dedica alla Corona civica e ai Lares Augusti) e alcuni oggetti minuti, come un medaglione d’argento con una splendida Vittoria alata (divinità connessa con il potere quant’altre mai, come ho già scritto su queste colonne), e monete celebrative.
Ma, senza dubbio, nulla ha attirato la mia curiosità come i due piccolissimi busti – alti meno di una spanna – di Augusto e Livia in bronzo, trovati in Gallia (Neully-le-Real) nell’Ottocento e anch’essi conservati al Louvre; un privato, un celta neppure cittadino romano chiamato Atepastus (nome degno di un fumetto di Asterix), li consacrò ex voto alla coppia imperiale, forse dopo la morte di Augusto, quando Livia governava al fianco del figlio Tiberio. Il nostro dunque – per ottenere qualcosa cui teneva – non si rivolse a qualche dio del pantheon celtico o latino, ma agli esponenti del potere romano, ritenuti ormai – a torto o a ragione – in odore di onnipotenza…
Credo però che questi splendidi ritratti, nei quali il princeps ha tratti senescenti, quasi emaciati, più che ad un’esperienza religiosa ci rimandino a quel “culto della personalità” che molti leader del passato più o meno lontano hanno suscitato nei loro sudditi. Ad Alessandro Magno (anche da morto) o a Carlo Magno si attribuivano addirittura poteri taumaturgici; e virtù non meno elevate vennero – purtroppo – associate anche a moderni autocrati, dei quali non mancano ancora nostalgici estimatori: piccoli busti simili al nostro, raffiguranti ad esempio Mussolini o Stalin, non sono infatti difficili da trovare sul mercato. Spero che il divino Augusto non se la prenda per questo poco edificante confronto, fulminandomi attraverso la sua gomma-ritratto che ho sempre sulla scrivania!
Un amarcord personale
Ma torniamo ad Augusto in carne e ossa, creatore di un delicato mix tra religione e politica, il cui equilibrio sarà talora incrinato da alcuni successori dagli atteggiamenti eccessivamente orientalizzanti e megalomani: tra loro, ad esempio, Caligola e Nerone, che non vollero essere “mortali tra gli dèi” (come si dice nel titolo della mostra di Nîmes), ma “dèi tra i mortali”.
Quest’ultima espressione (Gli dèi tra i mortali) è anche il titolo di uno studio sugli onori religiosi a personalità umane (nel mondo ellenico, però) di Clementina Gatti, docente di Storia romana alla “Statale” di Milano che – in anni ormai lontanissimi – mi affidò una tesi (bella coincidenza…) proprio sul culto imperiale nelle Gallie. Poi non se ne fece nulla, perché la professoressa Gatti morì improvvisamente e io, come gli altri suoi laureandi, presi altre strade, e mi buttai nello studio delle epigrafi latine dell’antica Como. Mi piace però dedicare alla memoria di Clementina Gatti questo mio modesto articolo. Lo faccio pensando quanto il poderoso catalogo della mostra di Nîmes mi sarebbe servito se avessi davvero dovuto intraprendere quel progetto di lavoro, del quale (in qualche remoto cassetto) devo avare ancora qualche appunto preparatorio. Chissà mai, in vecchiaia…