Per il luogo, certo, uno dei più significativi per la cultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta; ma anche per la qualità dei lettori, Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco, che hanno coinvolto il pubblico – col semplice utilizzo della voce, seduti di fronte a un leggio – in un rito laico né mondano né banale. Due attori, semplicemente, hanno prestato la voce a due poeti, entrambi scomparsi, che durante la loro vita di parole hanno avuto modo di dialogare attraverso le lettere, le chiacchiere quotidiane, le confidenze, ma anche le recensioni e, soprattutto, le poesie che si sono scambiati e dedicati, mettendo in scena, nel teatro della vita, uno dei più bei dialoghi letterari del Novecento.
Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l’amico, come incerto… Ah che cieca fretta
nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:
subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo…
Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia
se prima di ferirmi è passata per te…
(da Recit, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1956)
Bertolucci, che lavora per Garzanti, incontra Pasolini per dargli notizia del procedimento giudiziario a carico dell’autore di Ragazzi di vita. È l’inizio della persecuzione giudiziaria del romanziere, poeta e regista Pasolini, ma è anche l’inizio del successo, dopo un periodo gramo, faticosissimo, durato almeno dal 1950, anno della fuga dal Friuli. D’altronde, è stato l’amico Attilio, di undici anni più anziano, a incamminare Pier Paolo sulla strada del lavoro editoriale, prima mettendolo sotto contratto per Guanda, per l’antologia della Poesia dialettale del Novecento (1952) e per Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare italiana (1955), e poi presentandolo a Livio Garzanti, l’editore dei romanzi e delle poesie che verranno, da Le ceneri di Gramsci (1957) in avanti. E ora, a partire dal 1956, Attilio è anche uno dei personaggi della narrazione poetica pasoliniana, a cui si aggiungerà, di lì a poco, Bernardo Bertolucci, destinatario della poesia A un ragazzo (1958):
Col sorriso confuso di chi la timidezza
e l’acerbità sopporta con allegrezza,
vieni tra gli amici adulti e fieramente
umile, ardentemente muto, siedi attento
alle nostre ironie, alle nostre passioni.
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,
vergognandoti quasi del tuo cuore festoso…
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,
ma perché esiste: per te, perché tu sia
nuovo testimone, dolce-contento al quia…
Rimani tra noi, discreto per pochi minuti
e, benché timido, parli, con i modi già acuti
dell’ilare, paterna e precoce saggezza.
E lasciamo la parola a Bernardo per andare a scoprire uno degli avvenimenti fondamentali di quegli anni, gravido di conseguenze per il futuro:
Nel ’59 la famiglia Pasolini (Pier Paolo, Susanna e Graziella Chiarcossi) si trasferisce in via Carini 45. Noi abitiamo al quinto piano, loro al primo. Ricominciai a scrivere poesie per poter bussare alla porta di Pier Paolo e fargliele leggere. Appena ne avevo scritta una scendevo le scale a grandi balzi con il foglio in mano. Lui era rapidissimo nella lettura e nel giudizio. Il tutto non durava più di cinque minuti. Quegli incontri cominciai a chiamarli dentro di me momenti privilegiati. Ne uscì un mucchietto di poesie che Pier Paolo, tre anni dopo, mi incoraggiò a pubblicare. Chissà cosa pensò mio padre, degradato senza spiegazione a lettore numero due. Arriva la primavera del ’61 e Pasolini, incontrato sul portone, mi annuncia che dirigerà un film. Mi dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto regista. Non ne sono capace, non ho mai fatto l’aiuto. Neanch’io ho mai fatto un film, tagliò corto. (Da B. Bertolucci, Il cavaliere della valle solitaria, in P.P. Pasolini, Per il cinema, a c. di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001).
Intanto, nel 1959, Attilio dedica a Pier Paolo una Piccola ode a Roma (poi raccolta in volume in Viaggio d’inverno, Milano, Garzanti, 1971), una lunga descrizione pittorica in distici che alla fine si apre a una lunga riflessione sui poeti ‘esuli’ dall’Italia settentrionale a Roma: Virgilio, Catullo… e poi, impliciti, Bertolucci e Pasolini. Pasolini risponde con l’epigramma A Attilio Bertolucci (da La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961), nel quale riprende il tema del distacco dal paese d’origine che diventa, però, il presagio della fine di un mondo.
…
Chi non la conoscerà, questa superstite terra,
come ci potrà capire? Dire chi siamo stati?
Ma siamo noi che dobbiamo capire lui,
perché lui nasca, sia pure perso a questi chiari giorni,
a queste stupende stasi dell’inverno,
nel Sud dolce e tempestoso, nel Nord coperto d’ombra…
Ma la tappa più importante di questa lunga conversazione poetica è rappresentata dal poemetto La Guinea, del 1962. È un testo lungo, che recupera il metro e lo stile dei poemetti delle Ceneri di Gramsci per affrontare, insieme ai temi della fine del mondo contadino e del conflitto tra mondo preindustriale e mondo industriale, quello della scoperta dell’Africa come luogo simbolico della resistenza e della speranza. E proprio questa poesia ha segnato il culmine della lettura scenica di Gifuni, la voce dei testi di Pasolini, e di Bermagasco, la voce dei testi di Bertolucci.
La poesia – che si apre su Casarola, il paese appenninico di Attilio Bertolucci– riprende il ragionamento avviato con l’epigramma per ampliarlo a un contesto globale, al rapporto tra primo e terzo mondo e, soprattutto, tra civiltà contadina e civiltà industriale. I versi più alti e giustamente celebri della poesia recitano così (da leggere rigorosamente ad alta voce o da ascoltare dalla voce di Pasolini):
Ah, non potrò più resistere ai ricatti
dell’operazione che non ha uguale,
credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,
altro da ciò che sono: a trasformare
alle radici la mia persona:
è, caro Attilio, il patto industriale.
Nulla gli può resistere: non vedi come suona
debole la difesa degli amici laici
e comunisti contro la più vile cronaca?
L’intelligenza non avrà mai peso, mai,
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da una dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo, ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Ma Pasolini, a questo punto della sua vita, è già orientato verso altri orizzonti: il cinema, la scrittura giornalistica, la poesia documento. Nel 1963 i Pasolini lasciano Monteverde Vecchio per trasferirsi all’EUR, ma il rapporto tra le due famiglie rimane stretto ed è testimoniato da cartoline e lettere affettuose.
Spetta ad Attilio, sopravvissuto all’amico, riprendere il filo del discorso in due poesie scritte dopo la morte di Pasolini: Due frammenti della vita di Pier Paolo Pasolini e Ancora a Pier Paolo Pasolini.
Vale la pena riportare per intero almeno la prima, che ricostruisce in due pannelli la vita di Pier Paolo: prima il periodo friulano – magnificamente reso da Gifuni attraverso la lettura di due poesie in un perfetto friulano “ca da l’aga”, della riva destra del Tagliamento, – e poi quello romano, popolaresco e vitale. Poi, in chiusura, un congedo alla maniera dei trovatori, un commiato dall’amico scomparso, tornato, da morto, a Casarsa.
…così l’apprendista di filologia romanza
ricorse alla lingua della madre
campì di smalti ladini pale d’altare e d’amore
ne ripeté a piè di pagina
in predelle a carattere minuto la dulcedo
nell’italiano della sua classe
appena ombrato secondo la lezione
di Pound giovane scalante picchi smeraldini
nella Provenza di Arnault e di Peire…
…erano ormai gli anni del fango di Ponte Mammolo
e i ragazzi si prestavano ignari
modelli a cartoni manieristi già era
venuto il tempo
di atteggiare Franco Citti a prigione
profeta giovane peone in attesa
di schiumanti cavalli padronali
nel rito della propagginazione.
Envoi
Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il Tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti.
(da A. Bertolucci, Verso le fonti del Cinghio, Milano, Garzanti, 1993).