Appunto

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Rimini, Palazzo dei Congressi, sabato 9 novembre 2013, ore 14.30: ho di fronte un centinaio di persone,in stragrande maggioranza insegnanti, a cui mi accingo a presentare i diversi modelli logico-visivi e le differenti peculiarità cognitive e didattiche delle mappe mentali di Tony Buzan e delle mappe concettuali di Joseph Novak. Quello delle rappresentazioni grafiche della conoscenza è uno dei temi caldi della professionalità docente del terzo millennio.

 

Le mappe sono una delle star della (presunta) innovazione metodologica; troppo spesso sono considerate una panacea universale in grado di risolvere molti – se non tutti – i problemi dell’apprendimento. Sono lo strumento di mediazione didattica forse più noto a livello del senso comune e meno conosciuto nel merito. Tra i fan della schematizzazione “a prescindere” il superiore ministero che, nelle “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento”, assegna alle mappe concettuali – etichetta sotto la quale molta parte dell’immaginario didattico ed editoriale rubrica in modo semplicistico e ascientifico qualsiasi forma di organizzazione di informazioni mediante testo racchiuso in forme geometriche e frecce – un ruolo compensativo. Con il risultato che in rete proliferano enormi quantità di patchwork cognitivi già pronti, che molti colleghi e genitori scaricano e somministrano ai ragazzi, per lo più in sostituzione e non a integrazione dei documenti di studio originali, senza rendersi conto di attuare in questo modo discutibili pratiche dispensative.

Per tutta questa serie di ragioni il mio intervento vuole focalizzare le differenze tra il mind mapping e il concept mapping, e far comprendere come tali differenze traducano in forme visive diversi approcci alla conoscenza, cui corrispondono modelli logici differenti. Dispongo di microfono, di slide digitali e di un dispositivo per la manovra a distanza di queste ultime, collocate su un personal computer collegato a un videoproiettore e posto a una certa distanza da dove io sono seduto. Sopra di me un grande schermo, davanti a me un monitor in cui vedo scorrere la mia presentazione. Le tecnologie che mi sono state fornite condizionano e determinano il patto comunicativo con l’uditorio, almeno quanto il fatto che il protocollo del convegno a cui partecipo vedrebbe di mal occhio un intervento svolto stando in piedi, perché è chiaramente preferita la pacatezza del relatore che, seduto, espone in modo rigoroso, con una prospettiva divulgativa, ma con una trama densa: coloro che ascoltano hanno pagato una quota di iscrizione, quindi devono avere l’impressione di acquisire qualcosa di utile, di significativo.

Dopo qualche minuto di attesa, cominciamo. Mi sono stati assegnati 40 minuti e devo stare assolutamente nei tempi. La mia presentazione si snoda in un modo che mi sembra abbastanza fluido; sono lucido, tengo bene il ritmo e la sintassi. Come sempre in occasioni simili, sposto lo sguardo qua e là per avere un “feedback d’atmosfera” sull’efficacia o meno di quanto vado dicendo: sono molti quelli che annotano i loro quaderni e blocchi e quindi capisco che sto catturando l’interesse, che sto consegnando al pubblico contenuti giudicati significativi. Ma il mio consueto narcisismo raggiunge il massimo livello quando mi accorgo che sono numerosi coloro che impiegano una strategia 2.0, ovvero che al comparire di ogni nuova slide utilizzano gli smartphone e i tablet di cui sono muniti per fotografarla.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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