Antonio Ligabue, tra animali e autoritratti

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Una bella mostra all’Orangerie di Monza espone ben novanta opere di uno degli artisti più inquieti e geniali del Novecento italiano.
Antonio Ligabue, Autoritratto con cavalletto, 1954-1955, olio su tavola di faesite, collezione BPER Banca Milano.

Credo che molti abbiano visto il film di Giorgio Diritti intitolato Volevo nascondermi (2020), nel quale il bravissimo Elio Germano interpreta il pittore Antonio Ligabue (Zurigo, 1899 – Gualtieri, 1965). La pellicola è senza dubbio riuscita, come dimostrano i numerosi premi conseguiti: tra questi l’Orso d’argento 2020 per Germano come miglior attore; e, sempre Germano, ha vinto il David di Donatello 2021, al pari del suo regista che l’ha conseguito nella prestigiosa categoria “miglior film”. Ometto, per amore di brevità, gli altri riconoscimenti per un’opera che, con intelligenza, ci dà di Ligabue un’immagine complessa, senza indulgere troppo su quella condizione di “follia” che solitamente gli viene attribuita come etichetta. Mi spiego meglio: che il Nostro abbia sofferto di problemi nervosi è indubbio, e i suoi ricoveri in quelli che allora si chiamavano “manicomi” sono storia, non leggenda, e il film li documenta con la necessaria umanità.  Ma documenta anche la scoperta di un talento artistico non banale, oserei dire poetico, che lo ha portato ad avere una certa considerazione da parte della critica già quando era in vita.

Antonio Ligabue, Volpe in fuga con gallo in bocca, 1943-44, olio su tavola di compensato, collezione privata, Reggio Emilia.

Una mostra alla Reggia di Monza

Chi ha apprezzato il film, e magari attraverso questo ha conosciuto l’arte di Antonio Ligabue, non deve perdere una bella mostra aperta dall’11 febbraio al 1° maggio 2022 presso l’Orangerie della Reggia di Monza, dal titolo Antonio Ligabue. L’uomo, l’artista, curata da Sandro Parmiggiani, prodotta e organizzata da ViDi in collaborazione con il Comune di Monza e il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza (Catalogo Skira editore).

Sono proposte circa novanta opere, tra dipinti, sculture, disegni e incisioni, le quali ripercorrono la sua vicenda umana e creativa, lungo un arco cronologico che dagli anni Venti del secolo scorso giunge fino al 1962, quando una paresi pose di fatto fine alla sua attività.

L’esposizione illustra i due temi principali che hanno caratterizzato il suo percorso artistico, cioè da un lato gli animali, esotici e domestici, dall’altro gli autoritratti, senza dimenticare altri soggetti, come le scene di vita agreste o i paesaggi padani, nei quali irrompono – come un flusso di coscienza – le raffigurazioni dei castelli, delle chiese, delle guglie e delle case con le bandiere al vento sui tetti ripidi di quella Svizzera dov’era nato, e dove aveva vissuto fino all’espulsione nel 1919.

Antonio Ligabue, Caccia grossa, 1929, olio su tavola di compensato, collezione privata, Milano

Gli animali domestici ed esotici

Ligabue rappresenta sia animali domestici – quelli che vedeva nella Bassa padana dove abitava, a Gualtieri – sia gli animali selvatici, come tigri, leoni, leopardi, gorilla, volpi, aquile, dei quali cui conosceva molto bene l’anatomia. Il pittore predilige il momento in cui questi ultimi stanno per piombare sulla preda, con un’esasperazione di carattere espressionista, sia nella forma, sia nel colore, sia nella reiterazione di elementi decorativi. Sul versante “animale” la mostra propone alcuni dei dipinti considerati tra i suoi capolavori, come Caccia grossa (1929), Circo (1941-42 ca.), Tigre reale, opera realizzata nel 1941 durante il secondo ricovero dell’artista nell’Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, Leopardo con serpente (1955-56), Testa di tigre (1957-58), Volpe con rapace (nibbio) 1959-60.

Anonio Ligabue, Tigre Reale, 1941, china e pastelli a cera su carta intestata dell’istituto psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, collezione privata.

Gli autoritratti, una dolorosa testimonianza

Non mancano gli autoritratti, specchio di un disagio esistenziale e della volontà di riaffermare la propria identità: Autoritratto con cavalletto (1954-55), Autoritratto con mosche (1956-57), Autoritratto con spaventapasseri (1957-58), il dolente Autoritratto (1957). In essi il pittore si colloca in primo piano, quasi a occupare tutto lo spazio della scena, sullo sfondo di un paesaggio quasi assente. Vi emerge una costante condizione di angoscia e di smarrimento, accompagnata dalla richiesta fatta allo spettatore di guardare – con empatia? compassione? oppure? – il volto di un uomo che sembra avere progressivamente reciso i rapporti con la realtà circostante: gli occhi dell’artista, infatti, paiono guardare altrove, e non curarsi delle cose intorno a sé.

Antonio Ligabue, Autoritratto con moto e cavalletto, 1953-1954, olio su faesite, collezione privata, courtesy Galleria Centro Steccata Parma.

«Questi autoritratti» – afferma il curatore Sandro Parmiggiani – «dicono tutta la sofferenza dell’artista; ne sentiamo quasi il muto grido nel silenzio della natura e nella sordità delle persone che lo circondano. Quando perduta è ogni speranza, ormai fattasi cenere, il volto non può che avere questo colore scuro, fangoso, questa sorta di pietrificazione dei tratti che il dolore ha recato con sé e vi ha impresso».

Come spesso faccio, segnalo la mia grande attenzione all’opera grafica, certo meno “colorata” delle tele a olio, ma davvero “espressionistica” ad alto livello; stavolta, però, raccomando di osservare con cura anche la produzione plastica in mostra, con un nucleo di oltre venti sculture in bronzo, soprattutto di animali.

Antonio Ligabue, Gufo con preda, 1957-58, bronzo, courtesy Galleria Centro Steccata Parma.

Una riflessione conclusiva

Ligabue, lo so, è pittore che divide, e che viene spesso frettolosamente bollato – già l’ho detto – o come artista segnato dalla follia (poco più del “matto del paese”), o come capostipite di quella pittura naïf che ha vissuto in Italia qualche passato (e ora trascorso, direbbe Manzoni) momento di gloria. Io, come al solito, non nascondo i miei gusti, le mie preferenze, e non nego che – se parliamo di Novecento italiano – queste siano teoricamente rivolte verso altri autori. Però, ogni volta che c’è Ligabue in mostra, non perdo occasione di andare a vederlo (e già ne ho scritto nel 2014), perché mi rendo conto che la sua arte sprigiona un’energia particolare, ed emoziona – l’ho visto pure qui a Monza – anche i visitatori più piccoli. Insomma, ogni volta che ammiro i suoi quadri, metto in dubbio le mie certezze… Lo confesso, ho sostato a lungo davanti ai suoi autoritratti, e nell’evoluzione cronologica, nell’invecchiamento somatico, e nella progressiva sottrazione del soggetto al mondo circostante ci ho visto davvero qualcosa che ho trovato solo nella (auto)ritrattistica di Van Gogh. Certo, non cadrò nella trappola retorica della definizione di “Van Gogh italiano” (che talora pure si è usata) perché – lo sappiamo bene – il pittore olandese ebbe ben altro retroterra culturale e ambientale rispetto al Nostro. Eppure quella voglia di essere visto senza guardare, quella silenziosa richiesta di attenzione, quell’uso intenso dei colori accomuna senz’altro i due artisti. Perché l’inquietudine umana, il disagio esistenziale – me ne vado sempre più convincendo – non hanno spazio né tempo, e le loro manifestazioni sono tragicamente simili a Gualtieri come ad Arles.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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