Antifascismo: che cosa resta da fare alla scuola

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La riforma Gentile (“La più fascista delle riforme”, secondo Mussolini) è davvero lontana un secolo? La scuola italiana è davvero diventata inclusiva, democratica, partecipata? In che modo essa, anche attraverso gli insegnamenti di Cittadinanza e Costituzione e, da quest’anno, di Educazione civica, può farsi palestra di valori antifascisti?
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Sul retro della foto c’è il seguente titolo: “Comune di Bagnacavallo. Scuola elementare. Sabato fascista. Anno 1936-37”. La foto mostra la marcia di alcuni balilla di Bagnacavallo (Ravenna). Archivio Fotografico Indire

Interveniamo nel dibattito che anima questo numero de «La ricerca» come insegnanti di scuola secondaria di primo e di secondo grado, lasciando le macroquestioni a storici e politologi. A loro il compito di discutere se certe manifestazioni della politica e del vivere quotidiano siano rigurgiti di fascismo o espressioni di generica intolleranza, di ignoranza dei principi della convivenza civile, di spregio dei valori democratici.

Diamo il nostro contributo riferendoci a due grandi aree.

La prima riguarda la scuola come luogo delle pari opportunità e della solidarietà sociale: gli aspetti antidemocratici e antilibertari che hanno caratterizzato la scuola del regime fascista sono davvero alle nostre spalle? Tutti, e non solo sulla carta. Il ribaltamento in positivo di questi aspetti può forse guidarci alla costruzione di una pratica democratica nel nostro agire scolastico.

La seconda muove da un ambito più propriamente disciplinare: alla luce della legge n. 92 del 20 agosto 2019, che ha introdotto dall’anno scolastico 2020/2021 l’insegnamento dell’Educazione civica, e del parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, contrario alla sperimentazione del medesimo insegnamento nell’anno scolastico in corso, presentiamo brevemente lo stato della questione e sottolineiamo a quali condizioni tale insegnamento possa farsi promotore di valori antifascisti.

1. La scuola gentiliana e la scuola del Duemila. Una distanza reale?

1.1. Discriminazione ed esclusione vs integrazione e inclusione

La costituzione di un regime totalitario si basa sulla costruzione di un gruppo di uguali reso tale dalla definizione del diverso. La stessa scuola della riforma Gentile era basata su una concezione aristocratica dell’istruzione, che riservava gli studi superiori a pochi, ai migliori, per formare la futura classe dirigente.

La scuola dell’Italia repubblicana propone invece un modello inclusivo fin dal dettato costituzionale (“La scuola è aperta a tutti”, art. 34) attraverso tappe progressive. Fra queste, la Legge 517/1977, che ha sancito l’integrazione degli alunni diversamente abili nelle scuole per tutti, definendo l’identità inclusiva della scuola italiana con diversi anni di anticipo rispetto alla quasi generalità dei Paesi europei: un’identità inclusiva che si contrappone ad esempio al modello tedesco, ancora fortemente bidirezionale, con scuole e classi speciali per alunni con diverse abilità e persino con DSA.

Anche leggi più recenti, in particolare quelle relative all’individualizzazione degli insegnamenti per gli studenti con BES o in particolare con DSA, concretizzano il principio dell’inclusività e promuovono una prospettiva didattica che riconosca la diversità di attitudini e stili di apprendimento.

Un punto cruciale riguarda gli studenti di provenienza non italiana, sempre più numerosi nelle nostre classi: una questione che in questo momento storico rischia (o forse ha il privilegio) di essere una cartina di tornasole degli umori della nostra società riguardo al rapporto con altre culture. Superato il periodo del bagno linguistico (“si impara stando in classe con i pari”), ora le scuole tentano di attivare percorsi di cosiddetta alfabetizzazione. Alcuni istituti secondari di secondo grado particolarmente virtuosi attuano la biennalizzazione del curriculum, sospendendo di fatto il giudizio di promozione o bocciatura alla fine del primo anno. In pratica, concedono agli apprendenti non italofoni l’intero primo biennio per acquisire i requisiti necessari al proseguimento degli studi.
Ma si tratta di fari nella nebbia.

È nota la carenza di insegnanti di sostegno, spesso precari e soggetti a cambi di istituto, con la conseguenza che proprio lo studente con maggiori bisogni si trova spesso a dover costruire nuovi rapporti e adattarsi a una nuova relazione. Per quanto riguarda l’italiano L2, la relativa classe di concorso è stata introdotta solo nel 2016; al momento ci si arrangia con pacchetti orari che le scuole attivano in base alle proprie risorse economiche: soluzioni spesso insufficienti a permettere un apprendimento della lingua che garantisca realmente le pari opportunità.

Insomma, inclusiva per legge, troppo spesso la scuola italiana non è inclusiva nei fatti, vuoi per il sistema di reclutamento dei docenti, vuoi per mancanza di risorse economiche.

1.2. Scuola per pochi vs scuola per tutti

Prima della riforma che ha portato alla scuola media unica, l’accesso all’istruzione era di fatto limitato e diversificato sulla base dell’appartenenza a un determinato ceto socio-economico. Con l’introduzione della scuola media unica (legge 1859 del 31 dicembre 1962) è stata data a tutti la possibilità di percorrere i livelli scolastici in base alle proprie capacità, e dunque di raggiungere i più alti gradi dell’istruzione, con le evidenti conseguenze in ambito lavorativo e quindi economico.

Ma davvero la scuola italiana funziona da ascensore sociale? È ancora la strada maestra che permette a tutti di migliorare la propria condizione socio-economica?

Innanzitutto va considerato che contro una scuola che si sperava egualitaria, quale quella che traspare dalla Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana e di don Lorenzo Milani, si levano dal mondo intellettuale voci critiche: ad esempio quelle di Paola Mastrocola (Uscire dal donmilanismo, «Il Sole 24 Ore», 26 marzo 2017) ed Ernesto Galli della Loggia (con i suoi numerosi articoli sul “Corriere della sera” e con il volume L’aula vuota, Marsilio, 2019).

Al di là di tali posizioni, ciò che preoccupa sono i dati oggettivi forniti da Ocse, Indire, Almadiploma. Non ci soffermiamo su tali dati, ma rimandiamo all’attenta analisi che ne fa Christian Raimo nel suo Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è (Einaudi, 2017). Basti qui rilevare che essi forniscono la fotografia di una scuola, quella italiana, che egualitaria non è: confermano infatti la relazione sempre più stretta fra abbandono scolastico e titolo di studio dei genitori, così come tra percorsi scolastici degli studenti e condizione socio-economica di provenienza.

Ancora una volta, a fare le spese della disuguaglianza sono gli studenti di origine straniera (oltre il 9% della popolazione scolastica), anche a prescindere dal livello socio-economico di provenienza.
È emblematica la storia di Amrita (il nome è di fantasia, ma la vicenda è reale). Studentessa indiana diciottenne di nuova immigrazione, Amrita è dotatissima e ha raggiunto risultati d’eccellenza nel Paese d’origine; sogna di fare il medico e si iscrive in una scuola equipollente a quella che frequentava in India, cioè il liceo scientifico. Non ammessa alla classe successiva, viene riorientata verso un istituto professionale. La famiglia si affida alla scuola e lascia fare. Per Amrita l’arrivo in Italia non è stato il coronamento di un sogno, ma l’infrangersi delle ambizioni.

Ci chiediamo allora, al di là di leggi che garantiscono sulla carta la piena inclusione e l’accesso all’università da qualunque istituto secondario, quale differenza vi sia nei fatti rispetto ai tempi in cui gli studenti in condizione di svantaggio socio-economico frequentavano la scuola di avviamento professionale, che non dava accesso ad altri gradi di istruzione.

Quasi un secolo dopo la riforma Gentile, in Italia la scuola è tornata a non essere un ascensore sociale: la conseguenza è che il nostro Paese in quanto a rigidità sociale è secondo in Europa alla sola Gran Bretagna.

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Ivrea (Torino): durante il dopo-scuola, gli alunni stanno giocando a calcio balilla e le alunne fanno il girotondo. Archivio Fotografico Indire

1.3. Scuola per maschi aut per femmine vs scuola per maschi vel per femmine

La programmatica negazione della parità di genere fu, vale la pena di ricordarlo anche ai nostri studenti, uno dei cardini della scuola fascista. Il Regio Decreto del 6 maggio 1923 istituì infatti il liceo femminile, che non consentiva l’accesso all’università né era utilizzabile a livello professionale.

L’intento del regime, per nulla nascosto, era quello di limitare il numero di donne nel liceo-ginnasio e di evitare l’affollamento degli istituti magistrali, che peraltro vennero ridotti a poco più della metà (da 153 a 87). È evidente come l’istituzione di percorsi scolastici prettamente femminili si accordasse all’immagine fascista di una donna incapace di dedicarsi ad attività lavorative che si ritenevano per natura maschili.

Certamente molti passi avanti sono stati fatti. Secondo il World Economic Forum, oggi in Italia ci sono 136 donne ogni 100 maschi iscritti all’università ed è donna il 60% dei laureati con lode1.

Ma che ciò non si traduca in dati occupazionali e stipendiali è noto: secondo l’Eige (European Institute for Gender Equality) l’Italia occupa il quattordicesimo posto per uguaglianza di genere fra i ventotto Paesi membri. Irene Biemmi, attenta ricercatrice del sessismo nella scuola e nella società italiane, rileva come la nostra scuola sia il riflesso di una società sessista e che alla base della differenziazione professionale fra maschi e femmine vi sia una vera e propria segregazione formativa femminile2.

Queste analisi ci sensibilizzano a inserire nella didattica quotidiana un’attenzione in più agli stereotipi, in linea con uno dei goal di Agenda 2030 (la parità di genere, appunto). Suggeriamo un approccio simile a quello di Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide) per la didattica della Shoah, teso a costruire una memoria del bene da opporre a quella del male. Un po’ come si adotta un giusto, proponiamo agli studenti di “adottare una laureata”, ripercorrendo la storia di quante sono riuscite a sottrarsi agli stereotipi sessisti e a raggiungere obiettivi culturali e professionali di rilievo.

1.4. Scuola di autoritarismo vs scuola di partecipazione 

Libro e moschetto, giuramento di obbedienza e fedeltà dei docenti al fascismo, libri di testo orientati e orientanti, programmi didattici che, soffocato qualsiasi approccio critico, promuovessero adesione e consenso al regime… Tutto ciò sembra essere lontano anni luce dalla scuola di oggi, certamente più libera nei curricoli e nei metodi adottati, pronta ad affrontare i temi di più scottante attualità, aperta alla partecipazione di genitori e studenti.

Ma troppo spesso la partecipazione dei genitori e degli studenti ove prevista (nella secondaria di secondo grado) si riduce a rivendicazioni pratiche (è fin troppo facile portare l’esempio della mancanza di carta igienica…), all’organizzazione di feste e tornei di fine anno o alla vendita di felpe e t-shirt con il logo dell’istituto. Lo stesso PTOF, il piano triennale dell’offerta formativa, è spesso sentito come una sterile incombenza burocratica. Esso può invece diventare realmente il “documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche” e costituire una straordinaria opportunità di partecipazione e condivisione, nel momento in cui realizza “il confronto e la partecipazione tra tutte le componenti scolastiche, il personale, le famiglie, gli studenti e le “diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti nel territorio”3.

Nella didattica quotidiana, l’obiettivo di una partecipazione studentesca più attiva si infrange contro un semplice assunto: i compiti scolastici l’insegnante li concepisce e lo studente li fa. Il margine di autonomia lasciato agli studenti riguarda pochissimi aspetti che poco hanno a che fare con il cuore della didattica (contenuti, metodi, criteri di valutazione ecc.): questa assenza di responsabilità maggiori in un impegno, quello scolastico, che occupa una gran parte dell’esistenza dei giovani rischia di tradursi in una passività a largo raggio, in un’attitudine a lasciarsi governare più che ad autogovernarsi.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la difficoltà a trovare genitori e studenti che si candidino a rappresentanti nei vari organi collegiali e, al di fuori della scuola, la continua diminuzione dei votanti alle elezioni politiche e amministrative (e ancor di più ai referendum).

Che la sfiducia dei cittadini nella possibilità di aver voce nella società abbia favorito l’ascesa di partiti populisti sui quali si è innestato il totalitarismo è questione che gli storici hanno accuratamente esplorato. E dalla quale dobbiamo guardarci.

2. Da Cittadinanza e Costituzione a Educazione civica: più dubbi che chiarezza

La seconda parte del nostro contributo propone qualche riflessione sull’insegnamento dell’Educazione civica, che in seguito alla legge 92 del 20 agosto 2019 sostituirà, a partire dall’anno scolastico 2020/2021, quello di Cittadinanza e Costituzione, a sua volta introdotto dalla legge n. 169 del 30 ottobre 2008.

Nelle intenzioni del Ministero, l’insegnamento dell’Educazione civica avrebbe dovuto essere introdotto in via sperimentale già nell’anno scolastico 2019/2020, ma ciò non è avvenuto per il parere negativo espresso dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione l’11 settembre scorso. Su questo parere vale la pena di soffermarsi.

Ma procediamo con ordine.

2.1 Educazione civica o comportamento?

Le linee guida ministeriali sull’insegnamento dell’Educazione civica, sottoposte al parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, intendevano fornire “indicazioni applicative per la sperimentazione didattica nazionale”, sottolineando la “necessità che le istituzioni scolastiche promuovano, in armonia con le famiglie, comportamenti improntati a una cittadinanza consapevole non solo dei diritti, dei doveri e delle regole di convivenza di una comunità, ma anche delle sfide del presente e dell’immediato futuro”4.

A questo scopo venivano individuate due “leve”, alle quali rimandiamo limitandoci a notare che il frequente riferimento alla promozione di “comportamenti improntati a una cittadinanza consapevole”, allo sviluppo della “capacità di agire da cittadini responsabili”, alla “maturazione del senso di cittadinanza”, alla “formazione globale del cittadino”, all’”educazione della persona e del cittadino autonomo e responsabile” sembra voler indirizzare l’azione dei docenti soprattutto (se non quasi esclusivamente) sul versante educativo; ciò è in effetti coerente con il nome del nuovo insegnamento: Educazione civica, appunto, e non più Cittadinanza e Costituzione, come invece prevedeva la legge n. 169 del 30 ottobre 2008.

Ora, al di là di questioni meramente organizzative, che pure hanno avuto un peso nella valutazione (“Il CSPI rappresenta altresì che questa sperimentazione, sia pure ad adesione volontaria, non è praticabile a questa data in quanto comporta una serie di adempimenti sul piano organizzativo e didattico di difficile attuazione e tale da compromettere la qualità ed il significato della sperimentazione stessa”)5, il CSPI lamenta appunto il fatto che siano

messi sullo stesso piano “comportamenti, capacità, conoscenze, comprensione” legati alla educazione civica, rendendo non chiara la differenza tra gli stessi termini, né facilitando la comprensione di quali risultati si vogliano ottenere, in termini di conoscenze, competenze e capacità da parte degli studenti.

Ne deriva che le linee guida ministeriali risultino

una mera dichiarazione di intenti in quanto non esplicita[no] affatto quali elementi debbano essere valutati per esprimere un voto di educazione civica e quali differenze ci possano essere tra la valutazione degli esiti dell’insegnamento di educazione civica e la valutazione del comportamento.

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Ferrara. Il saluto alla bandiera. Archivio Fotografico Indire

2.2 Educare a che cosa?

Non meno netto è il giudizio del CSPI sui contenuti, delineati dalle linee guida in otto punti con riferimento all’articolo 2 della legge 92/2019:

a) Costituzione, istituzioni dello Stato italiano, dell’Unione europea e degli organismi internazionali; storia della bandiera e dell’inno nazionale;
b) Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015;
c) educazione alla cittadinanza digitale;
d) elementi fondamentali di diritto, con particolare riguardo al diritto del lavoro;
e) educazione ambientale, sviluppo ecosostenibile e tutela del patrimonio ambientale, delle identità, delle produzioni e delle eccellenze territoriali e agroalimentari;
f) educazione alla legalità e al contrasto delle mafie;
g) educazione al rispetto e alla valorizzazione del patrimonio culturale e dei beni pubblici comuni;
h) formazione di base in materia di protezione civile. 

L’elenco appare a un tempo vago, composito e manchevole: resta la sensazione che manchi qualcosa e ci si chiede se, senza sminuire la rilevanza di quanto proposto, in questo preciso momento storico altri temi fossero non meno significativi.
Non a caso, proprio su questo aspetto il CSPI esprime un parere talmente netto e circostanziato da apparire prescrittivo:

Manca il dovuto risalto a temi di grande attualità quali ad esempio la solidarietà sociale, il rispetto delle differenze, della parità di genere, delle minoranze linguistiche e di tutti quei temi che, in una società complessa come la nostra, concorrono a costruire competenze sociali e civiche per un armonico sviluppo della persona e conseguentemente dell’intera collettività.

In realtà, almeno la parità di genere di cui il CSPI denuncia la mancanza è compresa nel riferimento del punto b) all’Agenda 2030. Ma forse valeva la pena di esplicitare questo e altri temi di attualità che la scuola non può certo ignorare.

La cronaca quotidiana ci presenta tragedie della migrazione col loro codazzo di polemiche furiose, talora stucchevoli, più spesso opportunistiche; quasi non passa giorno senza che si abbia notizia di episodi di intolleranza omofobica, xenofoba o “razzista” che sfociano in violenze verbali e fisiche; dagli stadi calcistici il linguaggio alimentato da tale intolleranza si è trasferito nel dibattito politico e nelle dichiarazioni di taluni che ricoprono ruoli pubblici più o meno rilevanti.

Davvero la scuola non deve avere un ruolo nel contrastare tutto ciò? E se tale ruolo si intende come sottinteso, compreso nel più ampio processo educativo volto alla “formazione globale del cittadino”, non era forse il caso di esplicitarlo nell’hic et nunc della situazione italiana? Davvero certi temi di grande attualità sono meno urgenti di altri?

2.3 “Con la Costituzione nel cuore”

La Carta costituzionale occupa il primo posto nelle linee guida ministeriali per l’insegnamento dell’Educazione civica. A essa è dedicato uno specifico paragrafo, del quale riportiamo uno stralcio:

“la Costituzione, la sua origine e la sua evoluzione, costituiscono il fondamento dell’educazione civica, poiché consentono di ‘sviluppare competenze ispirate ai valori della responsabilità, della legalità, della partecipazione e della solidarietà. La conoscenza della Carta costituzionale nei suoi principi e contenuti è prioritaria per acquisire consapevolezza delle principali norme che governano la quotidiana convivenza, i diritti e i doveri delle persone e dei cittadini, le organizzazioni sociali e le istituzioni”.

Vi appare assai fugace il cenno (“la sua origine e la sua evoluzione”) alla Carta costituzionale come testo nato in un preciso momento storico, testo che ha avuto, e appunto in quel momento storico non poteva non avere, l’antifascismo tra le sue linfe vitali. Emerge invece in modo chiaro l’idea che gli studenti debbano studiare la Costituzione allo scopo (necessario, ma parziale) di “sviluppare competenze ispirate ai valori della responsabilità, della legalità e della solidarietà”; in una parola, per essere formati come buoni cittadini.

Ma non contestualizzare la Costituzione significa non dare risalto agli aspetti rivoluzionari che essa ebbe allora né a quelli di attualità che la fanno vivere ancora oggi.

Recuperare la prospettiva storica non significa relegare la Costituzione in un tempo lontano e per molti studenti indistinto, ma renderla viva e per così dire calda, come viva e calda dev’essere sembrata ai padri costituenti quando nello scriverla si proposero di reagire alla disumanità della guerra e del regime fascista. È in questo modo che si coglie come la Costituzione italiana sia fondamento del nostro Stato democratico e garanzia di libertà e diritti per i cittadini.

Ma un’interessante riflessione sulla Costituzione può essere condotta anche attraverso un’altra lente: Carlo Smuraglia, già senatore, membro del CMS e Presidente nazionale dell’ANPI, ci ricorda che il vero nodo democratico ancora da sciogliere consiste nel battersi perché essa venga pienamente attuata. E allora possiamo chiederci assieme ai nostri studenti che cosa della nostra Costituzione non sia ancora stato attuato a settant’anni dalla sua promulgazione, a cominciare dal divieto di ricostituzione del partito fascista.

E vogliamo concludere proprio richiamando l’insegnamento che Smuraglia ci lascia nei suoi libri più recenti, Con la Costituzione nel cuore (Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2018) e La Costituzione, 70 anni dopo (Roma, Viella, 2019): l’Italia non è ancora riuscita o non ha voluto rielaborare il proprio passato e questo favorisce, se non il ritorno del fascismo, il diffondersi di nuove forme di totalitarismo, razziste e sovraniste. Il contrasto a questi fenomeni, continua Smuraglia, può avvenire innanzitutto attraverso la crescita culturale.

Dunque, in primo luogo nella scuola.


NOTE

1. World Economic Forum, The Global Gender Gap Report, 2018, http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2018.pdf.

2. Di Irene Biemmi si veda almeno La scuola: luogo di parità?, http://www.flccgil.lombardia.it/cms/attach/primaassembleadonneflccgilcortona22e23aprile2013relazionebiemmi.pdf.

3. Nota MIUR 16.10.2018, prot. n. 17832.

4. Citiamo le linee guida ministeriali da https://imm.tecnicadellascuola.it/wp-content/uploads/2019/09/linee_guida_educazione_civica.pdf.

5. In questo e nel successivo paragrafo riportiamo il parere del CSPI da https://www.orizzontescuola.it/wp-content/uploads/2019/09/Parere-su-Educazione-civica-11-09-2019.pdf.


Per approfondire

D. Checchi, Percorsi scolastici e origini sociali nella scuola italiana, Università degli Studi di Milano, novembre 2010, http://checchi.economia.unimi.it/pdf/61.pdf.

Irene Biemmi, La scuola: luogo di parità?, http://www.flccgil.lombardia.it/cms/attach/primaassembleadonneflccgilcortona22e23aprile2013relazionebiemmi.pdf.

Istituto Giuseppe Toniolo (a cura di), La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2017, il Mulino, Bologna 2017.

C. Raimo, Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è, Einaudi, Torino 2017.

World Economic Forum, The Global Gender Gap Report, 2018, http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2018.pdf.

C. Smuraglia, Con la Costituzione nel cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2018.

C. Smuraglia, La Costituzione, 70 anni dopo, Viella, Roma 2019.

D. Aristarco, Lettere a una dodicenne sul fascismo di ieri e di oggi, Einaudi, Torino 2019.

E. Gentile, Chi è fascista, Laterza, Bari-Roma 2019.

F. Sironi, Un sistema dinastico chiamato scuola: ecco i numeri di un fallimento sociale, «L’Espresso», 9 settembre 2019, http://espresso.repubblica.it/2019/09/09/news/la-scuola-dei-figli-1.338541.

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Marco Giarratana

Docente di lettere rispettivamente nella scuola secondaria di primo e di secondo grado. Formatore nell’ambito della didattica inclusiva e della didattica per competenze, autore di testi scolastici di grammatica e antologia per il primo biennio della secondaria di secondo grado.

Monica Celi

Docente di lettere nella scuola secondaria di primo grado. Formatrice nell’ambito della didattica inclusiva e della didattica per competenze, autrice di testi scolastici di grammatica e antologia per il primo biennio della secondaria di secondo grado.

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