Anima e automa

Tempo di lettura stimato: 35 minuti
Non esiste specificità dell’umano se non quella di essere deficitario e di doversi completare con i meccanismi: un’indagine filosofica sull’essere umano, a metà strada tra animale e automa. La versione integrale del pezzo apparso in forma abbreviata sull’ultimo numero de «La ricerca», “Umano, postumano, artificiale”.

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». Il replicante diviene umano nel momento in cui muore. Ma un replicante può davvero morire? E se fosse risvegliato l’anno dopo? In fondo, con una riparazione sarebbe stato possibile, e lui non si sarebbe decomposto, purché conservato in luogo acconcio (è l’intuizione che sta alla base della mummificazione negli Egizi). E inversamente, se la scena ci commuove e permette l’empatia con il replicante è proprio perché sappiamo che è come noi, che non risorgerà, e che davvero le cose che ha visto spariranno come lacrime nella pioggia. Se per il replicante è tempo di morire, dunque, per noi è tempo di pensare: e precisamente di stabilire che differenza c’è tra anima e automa.

Sono innegabili le affinità che legano intelligenza umana ad apparati più o meno complessi come abachi, girarrosti, telefonini, libri. Qui vorrei sottolineare la differenza tra l’intelligenza umana e questi apparecchi. Questa differenza non dipende da qualità meccaniche, ma da proprietà organiche, ossia in parole povere dal fatto che il cervello sta in una testa e che la testa è normalmente attaccata a un corpo. L’essere umano è un organismo complesso, soggetto in forma essenziale a processi entropici, e perciò dotato di un senso (di una direzione, dalla nascita alla morte), che presiede alla genesi del significato, dell’autocoscienza, della capacità di avere dei fini, di prendere delle decisioni e di essere soggetto a responsabilità morale.

Ciò che di diverso troviamo nell’intelligenza umana (per esempio, il fatto di manifestare degli scopi, di essere condizionata da emozioni, di avere una apertura sociale) dipende non tanto dal fatto che gli umani posseggano un cervello, ma dal fatto che quel cervello sia un organo vivente che è a sua volta parte di un organismo, che si inserisce in un conteso tecnico e sociale. È poi la corporeità con i suoi bisogni a far sì che l’intelligenza umana si sviluppi in un contesto sociale e in un rapporto essenziale con la tecnica. In quanto inserita in un corpo, l’intelligenza presenta principi finalisti che non si trovano nelle macchine. Ma in quanto il corpo umano è inserito in un contesto tecnologico e sociale, il radicamento corporeo viene potenziato attraverso il supplemento tecnologico e sociale.

Quando trasferisco il mio archivio da un computer a un altro, la natura dell’archivio non cambia con il cambiare del suo supporto fisico. Ma se trapiantassi il mio cervello nel corpo di un altro non sarebbe più la stessa intelligenza, e possiamo essere certi che in breve tempo la mia responsività (percezioni, gusti, preferenze, e ovviamente anche finalità) sarebbe radicalmente trasformata dal semplice possesso di un corpo diverso. Tuttavia, ciò che determina la nostra superiorità (o almeno diversità) rispetto agli animali non umani non è la dimensione organica (siamo animali altamente imperfetti) bensì il meccanismo, il grande dispositivo di esteriorizzazione e di ritenzione terziaria (accanto alla primaria, che è la percezione, e la secondaria, che è la memoria) costituita dalla tecnologia.

Gli animali non umani hanno solo l’organismo, e dunque sono irritabili; le macchine solo il meccanismo, e dunque non sono irritabili ma reattive (reagiscono in base a programmi); gli umani si pongono all’incrocio tra meccanismo e organismo, cioè hanno per l’appunto una responsività, l’irritabilità di un organismo potenziata dalle risorse di un meccanismo. È nella responsività (la cui forma basica è la sensibilità, e l’irritabilità, l’occhio che si arrossa, il prurito, la tosse, mentre quella più filosoficamente manifesta è la ragione in quanto facoltà dei fini) che va ricercata la caratteristica fondamentale dell’umano, che non consiste in un qualche supplemento d’anima spirituale, bensì nella natura animale che ci caratterizza in quanto organismi, e nell’incontro fra l’organismo e un supplemento tecnico. Siamo umani in quanto siamo animali e siamo anime più complesse degli animali non umani perché disponiamo – in noi e soprattutto fuori di noi – di automi molto potenti che si chiamano linguaggio, cultura, tecnologia.

Virus e web

Immagino di non essere il solo, in questi giorni di quarantena, ad aver pensato a Odradek, lo strano essere simile a un rocchetto che tormenta il protagonista di uno splendido apologo di Kafka [il racconto in cui compare Odradek è Il pensiero del padre di famiglia, del 1917, appartenente alla raccolta Un medico di campagna, N.d.R]. Il Coronavirus ne è un parente prossimo, e ragionando su Odradek possiamo capire qualcosa su di lui, noi che non siamo virologi, epidemiologi, scienziati, ma solo potenziali ospiti di questo inquilino sgradevolissimo. È vero, diversamente dal virus, Odradek riesce a muoversi da solo e non abbisogna delle nostre gambe; si aggira per le case rendendo inutile il richiamo “statevene a casa”; soprattutto, non uccide nessuno, eppure il padre di famiglia è preoccupato, e si pone due domande solo apparentemente contraddittorie. La prima, è se possa morire (dunque, se sia vivo). La seconda, è se gli sopravvivrà, e se sopravvivrà ai figli dei suoi figli.

Non so Odradek, ma sicuramente Coronavirus non può morire, semplicemente perché non vive. Non sappiamo se i virus siano delle forme precedenti la vita, o delle vite degradate per qualche motivo; quello che è certo è che per vivere abbisognano della ospitalità di un vivente. Quello che è certo è che «Tutto ciò che muore ha avuto prima una specie di scopo, una specie di attività sulla quale si è logorato» [la citazione viene sempre dal medesimo racconto di Kafka, N.d.R.], mentre il Coronavirus non ha mai avuto scopi di sorta, né attività, e quando lo chiamiamo «nemico invisibile» cadiamo vittima di un antropomorfismo, comprensibile, certo, ma pur sempre un antropomorfismo. Solo gli organismi hanno degli scopi, dei tempi, dei fini, e il virus non ha nulla di tutto ciò, non più di quanto un orologio abbia di mira il dirci che ora è.

Quella che combattiamo in queste settimane, e parla uno che sta tranquillamente nelle retrovie, il che non gli impedisce di riconoscere l’eroismo di chi muore per salvare altre vite, ha tutti gli aspetti di una guerra, ma è dunque priva di un elemento fondamentale, il Nemico. Per essere dei nemici bisogna avere delle intenzioni, e questo non è sicuramente il caso del virus. Il che, sia detto di passaggio, è un concreto motivo di conforto, perché quando la guerra sarà vinta (ci vorrà tempo ma la vinceremo) ci saranno solo vincitori e nessuno sconfitto in senso proprio, anche se delle istituzioni come l’Unione Europea, se continuano di questo passo e con questa inerzia, ne usciranno ridotte peggio che nel maggio 1945.

Se dovessimo trovare un terzo, insieme a Odradek e a Coronavirus, sarebbe il Web. Anche lui non si sa bene cosa sia, che forma abbia, se sia vivo o morto (io propenderei per la seconda, ma di questo un’altra volta), ma di certo ha bisogno delle vite degli altri. E più precisamente ha bisogno delle nostre mani e dei nostri piedi, proprio come il Coronavirus, che sarebbe inerte senza tutta la mobilitazione e la vita che lo nutre. Sbagliano dunque coloro che vedono nel Web una intelligenza collettiva e temono che un giorno prenderà il potere. Non farà nulla di simile, perché per tendere verso qualcosa bisogna essere vivi, e né il virus né il Web lo sono.

Sbagliano però anche quelli che, magari dopo aver pensato al Web come alla prateria delle nuove possibilità e delle nuove libertà ne fanno lo strumento di un dominio spietato del Kapitale. Animismo anche qui. Né il Kapitale, né il Web, né il Coronavirus hanno delle intenzioni, buone o cattive di sorta. Sono i singoli umani che hanno intenzioni, quelle sì buone o cattive, ma questa è un’altra storia. E sono sicuro che se dovessi scegliere tra il virus e il Web, sceglierei il Web, che prende la mia vita come il virus, ma si limita a registrarla, e almeno in parte a restituirmela, dunque esercita un prestito più o meno forzoso ma non un furto e un omicidio.

La parte più profonda e profetica dell’apologo di Kafka sta però nella preoccupazione, apparentemente incongrua, che assilla il padre di famiglia, quella che Odradek, immortale, continui a vivere dopo che lui e i suoi figli se ne saranno andati. Perché questa è la natura: ciò che c’era prima di noi e che ci sarà dopo di noi, né benigna né maligna, ma semplicemente indifferente e infinitamente più grande e potente degli umani. Coloro che, in un empito di megalomania che non deve mancare di farci riflettere sull’immodestia dei buoni sentimenti, hanno parlato di antropocene, sono invitati alla riflessione e al silenzio. Corriamo (e da quando eravamo quattro fessi in Africa, esposti a una vita solitaria, povera, pericolosa, brutale, e breve) il concreto rischio di estinguerci come specie, ma questo sicuramente non significa la distruzione della natura, anzi.

In poche occasioni a mia memoria la natura si è rivelata così potente, libera, indipendente e forte. Ma non eccedo con gli aggettivi perché significherebbe, una volta di più, peccare di animismo, proprio come coloro che vedevano nei fulmini il segno della collera di Zeus e che oggi vedono nel Coronavirus la vendetta della natura violentata dall’antropocene. La natura è indifferente a quella popolazione debole e indifesa che sono gli umani e, come diceva qualcuno, se uccide più formiche che umani, è solo perché di formiche ce ne sono di più.

Che cos’ è la vita?

Che cos’è la vita? Chiedetelo ai morti. Qualcosa del genere voleva suggerirci Nietzsche quando ci invitava a guardare il vivo come a una specie del morto, e come una specie molto rara. O Leopardi, quando, nel coro dei morti del dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, ci invita a guardare alla vita con gli occhi della morte. Se è così, non siamo mai stati così vicini alla comprensione della vita come in quel trionfo della morte che è il Web, che capitalizza la vita raccogliendone i gesti più minuti e irrilevanti, e la restituisce come automa, ripetizione, scrittura, realizzando la frase del Valdemar di Poe che Derrida ha posto in esergo alla Voce e il fenomeno:

Ho parlato di suono e di voce. Voglio dire che il suono era d’una sillabazione distinta, anzi meravigliosamente distinta. Mister Valdemar parlava; evidentemente per rispondere alla domanda che gli avevo fatto qualche minuto prima. Gli avevo domandato, come si ricorderà, se dormiva sempre. Ora diceva:
«Sì, – no – ho dormito…, e ora… ora sono morto».

Metabolismo

Ma cos’è la vita? Un fluido misterioso, uno slancio vitale? No, è semplicemente un processo che non solo è irreversibile come tutto nell’universo, ma particolarmente sensibile alla irreversibilità perché la combatte attraverso il metabolismo. Non c’è alcuna potenza occulta. La differenza è solo tra qualcosa che può riaccendersi una volta spento, e qualcosa che invece una volta spento non si riaccende.

Gli organismi, è stato detto, sono oasi di ordine in un oceano di caos. Sarebbe meglio dire che sono impegnati in una battaglia contro il caos che, diversamente che nel caso dei meccanismi, quando è persa lo è per sempre. La freccia del tempo è il risultato della vittoria finale del disordine sull’ordine. Questa freccia agisce ovunque e su qualunque essere, ma la sua azione risulta particolarmente evidente proprio in quegli esseri, gli organismi, che si definiscono per la loro lotta contro l’entropia.

Una fibbia di bronzo o un vaso di vetro non hanno mai lottato per conservare la propria forma, mentre i corpi umani sono perennemente impegnati in questo combattimento. Eppure, quando gli archeologi trovano una tomba micenea, la fibbia e il vaso sono intatti, mentre del corpo restano soltanto le ossa, quando va bene. Sembra una circostanza frustrante, ma è anche la ragione per cui, diversamente dalla fibbia o dal vaso, il corpo ha potuto albergare delle speranze, delle credenze, e delle fondatissime paure.

Ecco dunque cos’è la vita: una crudele dipendenza dall’assunzione di energia. Il metabolismo è una lotta contro l’irreversibile e contro il disordine. Il calore si disperde e fornisce la direzione fondamentale, l’entropia e l’andamento verso la discontinuità e il caos.

Questo cambia tutto: possedere un corpo significa avere dei bisogni, perseguire degli scopi, essere consapevoli di un tempo limitato e dunque prezioso (è pensabile un computer che si annoia? Credo proprio di no, mentre sappiamo bene quanto spesso ci annoiamo). Invece che essere a metà strada tra l’animale e il superuomo o né angeli né bestie, gli umani sono a metà strada tra l’animale e l’automa. Il surplus che possiedono rispetto alle macchine è l’animalità; il surplus che manifestano rispetto agli animali è la tecnologia o, meglio, la tecnologia che è il prodotto di una strumentalità cosiddetta di second’ordine: se gli altri animali realizzano strumenti, gli umani realizzano macchine, oggetti complessi la cui funzione non deriva dalla forma bensì dall’interazione tra le parti.

 

Crescita, riproduzione, morte

Una pietra non chiede di essere alimentata, una pianta sì. Il corpo manifesta attraverso il metabolismo insieme la propria libertà rispetto alla materia e la sua assoluta dipendenza rispetto a essa in quanto indifferibilità del bisogno organico. La libertà rispetto alla materia consiste nel fatto che, nel corso del processo metabolico, il corpo vivente mantiene l’essenziale della propria forma. Ma non ci vuole molto per capire che questa libertà (del resto condivisa da molti meccanismi, che non mutano forma durante l’uso che costituisce per loro l’equivalente del metabolismo) è molto meno caratteristica e determinante di quanto non lo sia la necessità. Tuttavia, si potrebbe obiettare, anche i computer, le automobili e gli asciugacapelli sfruttano energia e rilasciano calore (poco, se sono progettati bene): sono forse esseri viventi? Ovvio che no, e per almeno tre motivi.

In primo luogo, gli organismi, diversamente dai meccanismi, sono in grado di adoperare l’energia non solo per mantenersi in efficienza, ma per crescere. Si sono viste molte radio spegnersi quando è mancata la corrente, ma non si è mai vista una radio crescere semplicemente perché le viene fornita della corrente. La macchina esegue un solo programma ed è già costruita; in lei l’alimentazione serve solo per permettere il funzionamento del programma. Nel caso degli organismi, invece, serve anche per il passaggio dall’embrione all’individuo adulto, e a questo stadio non si risolve nella produzione di energia, ma nella crescita del corpo.

In secondo luogo, gli organismi sono nella maggior parte dei casi capaci di riprodursi, ossia di dar vita ad altri organismi simili a loro. Anche in questo caso, inutilmente si metterebbero delle banconote nello stesso ambiente per ottenere delle nuove banconote, mentre è del tutto ragionevole attendersi che qualcosa del genere accada in un allevamento di trote. Tuttavia, se ci riferiamo al senso tecnologico che accomuna tanto la natura quanto gli artefatti, e se pensiamo alla bioingegneria, ci rendiamo conto che nemmeno questa differenza è assoluta e insuperabile.

Infine, e soprattutto, gli organismi, diversamente dalla materia inorganica, sono caratterizzati dal fatto di morire. Per riprendere l’esempio fatto un momento fa, chi lasciasse delle banconote in un cassetto per un anno, le ritroverebbe uguali a prima. Mentre chi lasciasse delle trote in un secchio, un anno dopo troverebbe qualcosa di considerevolmente diverso. Certo, ci sono organismi capaci di rallentare il loro metabolismo fino a stati di morte apparente, ma, alla fine, ogni vivente muore. Ora, è proprio in quest’ultima circostanza che va ricercata la specificità dell’organismo che più ci interessa in questo contesto, che è, non dimentichiamolo, finalizzato meno a determinare la differenza tra organismo e meccanismo quanto a riconoscere la specificità della forma di vita umana.

On/off; oppure: On/off, On/off, On/off….

Se la forma dell’organismo è definita dalla alternativa on/off, quella del meccanismo è definita dalla serie on/off, on/off, on/off…Una macchina può ripetere tantissime volte on/off, è fatta per quello. A noi, come a tutti gli altri organismi, sono date sole due opzioni, on, e poi off, per sempre. Diversamente dagli altri organismi, possiamo però articolarci con meccanismi e potenziare le nostre possibilità, dando uno scopo ai meccanismi, che di per sé non ne hanno, e a noi stessi, che come organismi non abbiamo altro fine che non sia la nostra fine.

La morte è un maestro tedesco, e sembra un maestro molto lontano, ma invece sta dietro a ogni nostro gesto, a ogni nostro acquisto online, a ogni nostro post. Sembra triste o iettatorio, ma non è vero: è il mondo della cultura e dello spirito, il gigantesco e divertentissimo circo che gli umani sono riusciti a mettere su mixando gli equilibrismi permessi dalla tecnica e il brivido e la motivazione donati dalla morte.

Si osserva che anche un apparato tecnico può interrompere definitivamente il proprio funzionamento, ed è in effetti ciò che per lo più accade. Ma mentre ci si lamenta di un asciugacapelli che dura troppo poco (e si ha il diritto di restituirlo se si rompe prima del periodo di garanzia, che sarebbe anche un periodo di resurrezione minima) nessuno potrebbe mai rimproverare un umano perché muore anzitempo, e se si rimproverano i suicidi è appunto perché la loro opzione è definitiva, ossia non ha nulla in comune con l’andare in stand by di un computer.

Dal fatto che l’anima una volta spenta non possa riaccendersi seguono conseguenze decisive. In particolare, il carattere di “fine” in senso proprio si può dare solo per un evento irreversibile. Questo ci dà la misura di che cosa è veramente un vivo rispetto a un morto: solo ciò che ha una fine (una sola) può avere una vita. Che si viva una volta sola non è semplicemente un detto di buon senso, ma la più esatta caratterizzazione della proprietà saliente dell’anima rispetto all’automa.

Dall’alternativa tra anima e automa deriva una legge generale. Solo ciò che ha una fine (ossia le sole due posizioni acceso e spento) può avere un fine, dal momento che sente l’unicità delle scelte e la storicità dell’esistenza (se è un professore) e la pressione delle esigenze alimentari e vitali (se è un professore o un papero). È questa circostanza a determinare quelle forme di urgenza, interesse, prossimità emotiva cui si cerca di rispondere, in maniera inadeguata e mitologica, invocando l’autocoscienza e l’intenzionalità collettiva.

L’anima è senza perché

Non sappiamo se Odradek sia un’anima o un automa, ma sappiamo con certezza che Alberto e la zecca sono anime. Come li distinguiamo? La razionalità rispetto allo scopo non è il criterio adatto, perché su quel punto la zecca batte di gran lunga Alberto. Il fatto che la zecca non sappia contemplare il cielo stellato sopra di sé e la legge morale in sé? Non scherziamo, sappiamo troppo poco tanto della zecca quanto di Alberto per rispondere a un simile quesito. La sola e decisiva differenza tra la zecca e Alberto è che, essendo quest’ultimo dotato di mani, può dotarsi di supplementi che arricchiscono la sua pochezza come organismo con le risorse del meccanismo, anzi, dei molteplici meccanismi dotati di finalità e resistenza a cui, diversamente dalla zecca, può accedere.

Alle contrapposizioni fra natura e cultura, o materia e spirito, propongo di sostituire la contrapposizione anima/automa, che si distingue per il fatto che la prima è soggetta in linea di principio a un processo irreversibile di interruzione delle funzioni vitali, cui cerca di rispondere con il metabolismo, mentre il meccanismo sopporta senza difficoltà processi di accensione e spegnimento, e in taluni casi è programmato proprio a tal fine. Il problema mente/corpo è dunque la semplice copertura del problema automa/anima. La differenza e la complementarità tra mente e corpo non sono niente più che una trasposizione in termini ontologici di un problema funzionale, che riguarda i diversi modi d’essere di un meccanismo e di un organismo: la reversibilità del primo e l’irreversibilità del secondo.

Anima

L’anima esprime questa situazione molto meglio che la pomposa definizione di “intenzionalità”. L’anima è l’espressione di un organismo che come tale non ha fine fuori di sé, essendo un fine in sé (nozione che d’altra parte è tutt’altro che ovvia: avere per fine se stessi è avere un fine o avere una fine?). Ogni organismo è un’anima. Il che non è ilozoismo, dal momento che ci sono parti enormi di materia che non sono viventi, e che condividono in più casi le medesime caratteristiche degli apparati tecnici.

La libertà dell’anima rispetto all’automa consiste nel fatto che, nel corso del processo metabolico, il corpo vivente mantiene l’essenziale della propria forma. Ma non ci vuole molto per capire che questa libertà è molto meno caratteristica e determinante di quanto non lo sia la necessità. Non vedremo mai un automa vendersi per un pezzo di pane o dare in smanie nel corso di una crisi di astinenza. Gli automi non si annoiano, non hanno paura, non hanno desideri, e nemmeno volontà di potenza. Questa atarassia apparentemente virtuosa deriva solo dal fatto che l’automa sente la pressione del tempo e del bisogno in un modo ben più tenue di quanto non avvenga a un organismo. E questo semplicemente perché l’organismo ha come unico fine sé stesso, ossia la propria sopravvivenza.

L’anima è l’irrazionale per eccellenza, dal momento che non possiede una ragione interna, è senza perché, come la rosa di Angelo Silesio. L’unica funzione dell’anima, il suo principio di ragione, è la sopravvivenza, e in ultima istanza la morte. Dunque non ha nulla di razionale. L’automa è profondamente razionale, ha una finalità esplicita, risponde a dei bisogni. Ma questi bisogni sono dettati dagli organismi, dunque non possiedono alcuna razionalità ultima.

Automa

L’anima è un corpo vivente. Nel caso del corpo umano, da tempi immemorabili il corpo si dota di supplementi che rimediano a delle insufficienze del corpo. Se quest’ultimo ha una finalità interna, cioè una finalità dubbia e problematica, i supplementi hanno una finalità esplicita ed enfatica: il coltello è fatto per tagliare, la penna per scrivere, gli occhiali per leggere, ecc.

All’altro capo dell’anima c’è l’automa, che ha delle interessanti differenze rispetto all’anima e al generico supplemento. Come il supplemento generico, ha un fine esplicito: l’orologio è fatto per mostrare l’ora, il software è fatto per far funzionare il computer, l’algoritmo per calcolare. Come l’anima, si muove da sé (“automa” significa proprio questo). Si obietterà che l’anima si muove da sé senza che nessuno le abbia dato delle istruzioni, mentre sicuramente qualcuno ha schiacciato un pulsante per far partire un automa; ma questa è una differenza controversa, giacché potrebbe darsi benissimo che, invece, qualcuno il bottone lo abbia schiacciato anche per noi, solo che non lo sappiamo e non possiamo verificarlo. Lasciata in sospeso questa faccenda, il punto è un altro, e perfettamente constatabile. L’anima, una volta spenta, non si riaccende più; l’automa, invece, è fatto per spegnersi e riaccendersi per un numero di volte più lungo possibile.

Iterazione, alterazione, interruzione

Se l’anima è qualcosa che ha tempo e senso, l’automa non ha né l’uno né l’altro, ma va benissimo così, è fatto per avere significato, ossia per significare qualcosa per un’anima che ha bisogno di semafori e di asciugacapelli. Si disegnano così due direzioni fondamentali: da una parte l’anima, che non risorge e subisce le urgenze del metabolismo, la fame, la stanchezza, e la singolare unicità di una vita che è una e solo una. Dall’altra, l’automa che itera, non si stanca, prima o poi si rompe, ma sino ad allora può risorgere in ogni momento, come i lampioni che ogni sera si riaccendono.

Che cos’è l’iterazione? Hegel ha scritto che il significato è due volte, e in tedesco si dice «Einmal ist keinmal»: una volta sola è nessuna volta. Perché, ad esempio, potrebbe essere un messaggio partito per sbaglio, o contenente un errore, ed è per questo che quando ci iscriviamo a qualche servizio ci invitano a ripetere il nostro indirizzo di posta elettronica. Ma, al di là di questa ovvia funzione pratica, l’iterazione nasconde un potere metafisico che non sempre viene tenuto nel debito conto, e che acquisisce una particolare evidenza nell’epoca in cui la tecnica, che è anzitutto iterazione, acquisisce una evidenza senza precedenti, pur essendo sempre stata in noi e fuori di noi in quanto animali intrinsecamente tecnologici. L’iterazione rafforza, come quando si ribadisce un chiodo; facilita, come un sentiero che diviene sempre più aperto quanto più viene calpestato; e può persino distruggere, come la goccia che scava la roccia, o costruire, come la goccia che crea una stalattite. Il problema è che gli organismi, per quanto possano iterare, prima o poi si stancano. Anche il più petulante dei bambini si stuferà di chiedere «perché?». Mentre le macchine iterano senza affaticarsi, e se questo avviene, come nei vecchi orologi meccanici, basta ricaricarli; con gli organismi non si può: un cavallo sfinito, o un ballerino che muore d’infarto in una gara di resistenza, non risorgerà.

In questo senso, l’automa risponde a esigenze di iterazione, mentre l’anima si fonda sulla alterazione. A un certo punto, nella storia, nella lingua o nella natura interviene una alterazione. Un evento imprevisto, una variazione di pronuncia, un errore di copiatura del codice che porta il bene della specie o il male dell’individuo. E di fronte a ogni alterazione siamo sempre impreparati, come se non fosse una legge del mondo, e prima di tutto della vita. Metabolismo significa proprio questo, “alterazione”, così come ciò che chiamiamo “morte” è una alterazione radicale delle forme proprie dell’organismo, che si presenta infine come interruzione (avevano ragione Nabokov e Maurice Chevalier: partire è un po’ morire, ma morire è partire un po’ troppo). Ovviamente, tanto nel caso dell’organismo quanto in quello del meccanismo il risultato è uguale, ossia la dissoluzione della forma, l’interruzione radicale.

Se indiscutibili sono i meriti della iterazione e della alterazione, anche dell’interruzione non si può fare a meno. E questo non solo nel mito (prima o poi è necessario che Atropo tagli il filo della vita che Cloto ha filato e Lachesi intrecciato, e che Śiva distrugga ciò che Brahmā ha creato e Visnù ha preservato), ma nel mondo. Proviamo a immaginare una vita senza fine. L’aspetto più interessante sarebbe che si tratterebbe di una vita priva di fini. Tanto per dirne una, il precetto del non rimandare a domani quello che potresti fare oggi, e che ha il suo banale fondamento nel fatto che domani potresti essere morto, perderebbe qualsiasi senso. E con lui perderebbero senso tutti i richiami all’urgenza, così come gli stimoli del metabolismo e i segni della stanchezza che ci ricordano quanto l’imminenza di una interruzione dia il senso della vita ma, più profondamente, dia significato al senso. Che senso avrebbe infatti un senso che fosse semplicemente direzione, la freccia del tempo dettata dall’entropia? Perché questo senso sia più che una semplice direzione, occorre che in quel processo siano coinvolti dei viventi per i quali il senso ha un significato, l’idea che presto o tardi, ma comunque sicuramente, l’iterazione dei gesti e del metabolismo, sempre più lenta, si fermerà definitivamente. È lì che stavi andando, ed è proprio questo il senso di tutto quello che hai fatto, les jeux sont faits, rien ne va plus.

La fine e il fine

Solo ciò che ha una fine in senso proprio può essere dotato di un fine in senso proprio. Il ragionamento è abbastanza semplice: avere una fine insuperabile è ciò che detta le urgenze, le contingenze, i tempi, le ansie, le noie, le mancanze, tutto ciò che si è oscuramente e infelicemente chiamato “intenzionalità”, e che è in effetti semplicemente il risultato della specifica condizione di un’anima che, potendo vivere solo una volta sola, è interessata e proiettata verso il mondo con una attenzione completamente diversa dall’automa. In altri termini, una zecca o Alberto posseggono intenzionalità, mentre Watson, il supercalcolatore, non la possiede. E questo non perché siano più intelligenti di Watson, e magari Alberto abbia, poniamo, scritto un libro sull’intenzionalità, ma perché la zecca e Alberto quando muoiono lo fanno per sempre, mentre Watson una volta spento può riaccendersi.

La conseguenza cruciale di questo doppio radicamento (nella interiorità somatica e nella esteriorità tecnologica e sociale) è il paradosso del finalismo. In quanto parte sociale, l’essere umano infine esterna sé, e dunque condivide la finalità esterne tecnologiche degli apparati tecnici. Ma in quanto organismo, l’essere umano non ha altri fini che l’autosostentamento. Ne risulta, come ho detto più sopra, che la cosiddetta finalità interna degli organismi è in effetti una assenza di finalità. E che se di finalità si può parlare, è solo nella correlazione tra un interno e un esterno, ossia, nella fattispecie, tra un organismo, da una parte, e i suoi supplementi tecnologici e sociali, dall’altra.

Da questo punto di vista, l’animale umano manifesta una caratteristica particolarmente significativa che lo differenzia dagli animali non umani. Come questi ultimi, è dotato di una finalità interna, ossia di una fondamentale assenza di una qualsiasi finalità che trascenda le funzioni della nutrizione, dello sviluppo e della riproduzione. Proprio perché l’automa umano è inserito in un corpo vivente, cioè in un sistema complesso che lotta per sopravvivere ma è destinato a morire, l’automa umano è dotato di intenzioni, fini, teleologie (cose che sono presenti anche nella gallina, ma non nel computer). Ma si tratta di finalità insieme imperative (se non mangi, muori) e futili (che senso ha vivere?).

Ma c’è un senso in cui gli umani sono riusciti a creare dei fini che vanno al di là della fine immanente alla vita biologica. In effetti, l’animale umano ha la caratteristica di moltiplicare le finalità esterne, sviluppando una ragione strumentale che a torto viene considerata come una forma degradata di ragione, mentre incarna la quintessenza della ragione come facoltà dei fini. Tipicamente, la continuazione della specie subisce, quando trasposta in un contesto umano, una crescita di significati: nuove braccia per coltivare i campi, carne da cannone, nuovi soggetti di imposizione fiscale. È in questo quadro che si disegna il carattere specifico dei fini dell’umano. L’umano in quanto tale ha un solo fine, cioè la propria fine, che lo spinge a quei comportamenti finalisti che difettano agli automi. Soprattutto, diversamente dagli altri organismi, l’umano è in grado di potenziare le proprie finalità esterne attraverso una serie di apparati tecnici complessi.

Panglossismo

L’imbarazzo derivante dalla intrinseca assenza di finalità delle anime si manifesta non solo nel conio di una nozione problematica come quella di “finalità interna”, ma soprattutto nell’idea secondo cui tra i fini dell’organismo ci sarebbe quello di riprodursi. La mossa concettuale è molto chiara: la riproduzione, infatti, sembra introdurre una finalità esterna nella vita organica, quella di produrre altra vita organica. Ovviamente, non è così. Sostenere che il fine dell’organismo è la perpetuazione della specie costituisce un monumentale panglossismo, non diverso dall’astuzia della ragione, e con l’aggravante che mentre l’astuzia della ragione costituisce un argomento corroborante per una filosofia della storia positiva, l’idea secondo cui tra i fini dell’organismo ci sarebbe la continuazione della specie è poco più che la premessa per una tassa su scapoli e nubili. Senza considerare che c’è una grande quantità di organismi semplici che si riproducono dividendosi in due, cioè morendo. Sostenere che muoiono per riprodursi non è di per sé più motivato del sostenere che si riproducono per morire, e in generale costituisce un modo ingegnoso ma futile per attribuire un senso al fatto che muoiono.

Se l’umano ha un fine, lo trova fuori di sé, e il più delle volte in attività o oggetti visti e giudicati malissimo: il consumo e il capitale.

Come tutti gli animali, quello umano è dipendente dal corpo. Diversamente da molti animali, l’umano dipende però anche da una società. Diversamente dalla stragrande maggioranza degli animali, l’animale umano dipende da integrazioni e supplementi tecnici. Non ci vuol molto a vedere che sono queste dipendenze e insufficienze a determinare le funzioni distintive dell’animale umano rispetto agli animali non umani, proprio come la differenza specifica degli umani rispetto agli automi e ai supplementi tecnici consiste nel possesso di un corpo. Del tutto banalmente, io non scriverei queste righe e voi non le leggereste se la natura ci avesse dotati di zanne o pellicce che ci riparano da aggressori esterni e dal maltempo. Con dotazioni naturali adeguate, gli umani non avrebbero sprecato il tempo a intagliare selci, a sviluppare sistemi simbolici, a incrementare sviluppi tecnologici di cui la mia scrittura e la vostra lettura sono il risultato.

È vero che oggi l’apporto umano nel lavoro non consiste più nell’esecuzione di automatismi, ed è inverosimile che – salvo una radicale crisi energetica – tornerà mai a esserlo. Solo, questo apporto non consiste in una crescente intelligenza, bensì nella permanente manifestazione di quel bisogno e di quella dipendenza (e dunque imbecillità) fondamentale che sta alla base del rapporto tra uomo e tecnica. Se riflettiamo per un momento su questa differenza decisiva tra organico e meccanico, possiamo non solo dare un significato non mistico o tautologico allo slancio vitale, ma anche spiegare dove stia esattamente la differenza tra il pensiero degli umani e quello dei computer. Nel momento in cui le macchine assolvono con successo la maggior parte delle funzioni di produzione e di distribuzione, agli umani resta il compito insurrogabile del consumo. Si è detto non senza enfasi che nessuno può morire al posto di un altro; questo vale anzitutto per il consumo. Nessuno può consumare al posto di un altro, e soprattutto non ha senso predisporre delle macchine finalizzate al consumo. L’incrocio virtuoso tra degli organismi dotati di finalità interne e dei meccanismi dotati di finalità esterne trova la sua perfezione proprio nel consumo.

Il consumo ha luogo in un organismo inserito in un contesto tecnologico. Un meccanismo può non essere alimentato per molto tempo, e non succede niente, mentre l’organismo cade in una entropia irreversibile. Ma il fenomeno specifico del consumo ha luogo in un organismo connesso con un sistema tecnologico e sociale con effetti – che dipendono da quanto ho detto a proposito del bisogno – di accumulo, di supplementarità, di superfluità da cui derivano la cultura e la capacità simbolica. Molto più antico del capitale industriale o finanziario contro cui si scagliano gli odiatori che ci vedono il principio di ogni male, il capitale è, come ogni farmaco (come ogni interazione tra un’anima e un automa) anche il principio di ogni bene. È la cooperazione più efficace che si possa dare tra un’anima e un automa: la prima dà il bisogno, il senso e il significato; il secondo dà la possibilità di accumulo, registrazione, iterazione, e soprattutto di resurrezione. Se oggi mangio, domani avrò di nuovo fame, e non avrebbe senso ingozzarmi. Ma se accumulo le risorse in un granaio, ecco che nasce il capitale. Pensare dunque che il capitale sia soltanto satanico equivale a non capire niente del mondo umano.

L’automa metabolico

Se quasi tutto può essere fatto in assenza di concetti chiari di ciò che facciamo, sembra impossibile, o almeno difficile e frustrante, stare al mondo senza degli obiettivi, come dimostra bene la depressione, che in generale appare come il venir meno degli obiettivi. Fondamento specificamente umano della capacità di avere fini è ciò che ho definito responsività, ossia la caratteristica interazione tra organismo e meccanismo che è propria dell’animale umano e che lo differenzia tanto dall’automa meccanico quanto dall’animale non umano. Come ogni altro vivente, l’animale umano è il frutto di una tecnologia. Ma diversamente da ogni altro vivente, e per compensare le proprie risorse naturali insufficienti rispetto alla sua aspirazione a essere ovunque e comunque, l’animale umano è in grado di produrre a sua volta delle tecnologie. Chiamo “responsività” questa circostanza, ossia l’incrocio tra l’urgenza entropica dell’organismo e la proiezione utopica del meccanismo che costituiscono la specificità dell’umano nell’universo.

In quanto organismi, gli umani possiedono dei fini, diversamente dai meccanismi, che hanno soltanto dei mezzi; ma diversamente dagli altri organismi sono capaci di potenziarsi attraverso degli apparati tecnici, e in particolare attraverso quell’enorme apparato tecnico che è la cultura. Né angeli né bestie, davvero. Ma cosa allora? Animali accessoriati o, se preferite, automi metabolici. L’essere umano è l’animale metafisico nella misura in cui è l’animale tecnologico, ossia che dispone di strumenti che, incrementando le sue dotazioni naturali, gli permettono di andare al di là di ciò che è come organismo, generando il fenomeno della responsività, ossia la cooperazione tra un organismo che dà dei fini e dei tempi, e dei meccanismi che potenziano l’organismo e gli permettono di trascendere i suoi limiti naturali, generando cultura, educazione, un corso di vita più lungo e dunque un maggiore tempo di apprendimento, la possibilità di trasmettere e dunque di capitalizzare la conoscenza.

A torto si considera l’imbecillità un insulto. È, letteralmente, la condizione dell’umano allo stato di natura: in-baculum, privo di bastone, e dunque sprovvisto del sistema di supplementi tecnici che determinano la differenza tra l’animale umano e gli animali non umani. Non c’è niente nell’umano che lo renda diverso dagli animali non umani. C’è una mano, e la capacità, attraverso quella mano, di costruire apparati tecnici, tra i quali c’è il linguaggio (che non sarebbe possibile se dovessimo usare la bocca per afferrare), la scrittura, la cultura, la capitalizzazione delle risorse, che ritornano sull’umano prolungandone la vita, potenziandone l’esperienza, sofisticandone la socialità. Proprio per questo solo all’umano può accadere di essere imbecille, venendo meno alla sua caratteristica distintiva (per accidentale che possa esserne stata la genesi); e proprio per questo solo un imbecille potrebbe dare dell’imbecille a un animale non umano.

Prometeo ed Epimeteo

La sola caratteristica specifica dell’animale umano rispetto all’animale non umano sta nel fatto di poter potenziare l’organismo con dei meccanismi, dunque con delle tecniche che rimediano a delle specifiche insufficienze. Tutto quello che abbiamo intorno a noi, e che rende la nostra vita più lunga e piacevole di quella dei nostri antenati, ha trovato la propria origine, prima che in un Prometeo che ha rubato il fuoco agli dei, in un Epimeteo che voleva arrostirsi una salsiccia, e che proprio per questo avvertiva l’urgenza di dominare il fuoco.

Gli animali non umani possono avere attività sociali complesse, elaborare simbolizzazioni (per esempio marcare il territorio o elaborare il lutto), così come possono sviluppare tecniche. Ma non hanno così bisogno di completamenti tecnologici e sociali perché sono molto meno atopici dell’animale umano (in effetti si può dire, capovolgendo Heidegger, che solo l’animale ha un mondo, e che l’umano è strutturalmente povero di mondo). È difficile che un animale si riveli inadeguato al compito assegnatogli, mentre negli umani è una cosa normalissima; è difficile che un animale si trovi ad adattarsi a climi inospitali, perché normalmente ha eletto a proprio domicilio un habitat adeguato; è difficile che un animale coltivi istinti colonialistici o capitalistici, perché sta bene con quello che ha. La storia umana è invece il racconto di fallimenti, migrazioni, colonizzazioni, capitalizzazioni, e non perché l’animale non umano sia buono e l’animale umano sia cattivo, ma semplicemente perché il primo è generalmente adattato, e il secondo è generalmente disadattato. Ciò che nell’animale non umano viene risolto attraverso la selezione della specie, nell’animale umano viene risolto attraverso la tecnica e la cultura.

La differenza dell’animale umano rispetto all’animale non umano è il bisogno maggiore, che deriva dal maggiore disadattamento, e che si trasforma in una complicazione e in una risorsa. Non si riesce a immaginare un animale che ha bisogno di una valigia (se non altro perché non ha in genere il pollice opponibile né abbisogna di vestiti) o di una vacanza (se non altro perché non lavora). Nel soddisfare questo bisogno la tecnica e la società agiscono sinergicamente, e in effetti conviene parlarne come di un tutt’uno. La società umana è concepibile solo sulla base di supporti tecnici, e la tecnologia acquisisce senso principalmente in un contesto sociale; e la finalità congiunta della tecnologia e della società consiste nel colmare le lacune naturali dell’umano. Da ciò segue una circostanza che merita di essere approfondita. Mentre nel caso degli animali umani i bisogni sono facilmente riconoscibili, in quello degli animali umani è molto difficile distinguere i bisogni primari da quelli secondari, il valore d’uso da quello di scambio, l’utilità dalla rappresentazione e dallo spreco. Questa circostanza spiega non solo l’intrinseca correlazione tra umano, tecnologia e società; ma illumina l’enorme grado di chimerica astrazione che circonda la nozione di natura umana presa di per sé.

Una conseguenza rilevante. Se le cose stanno in questi termini, non ha senso parlare di alienazione come essere padrone di sé e dei propri atti come ideale dell’umano, visto che (per esprimersi con quello che può apparire un paradosso, ma non lo è) l’essenza non alienata dell’umano è l’alienazione. Il preteso umano non alienato, l’umano allo stato di natura, è un animale difettoso, debole nelle risorse, privo di istinto, incline ad azioni insensate, dipendente da chiunque abbia la parvenza del potere e del prestigio. L’insufficienza, l’imbecillità, la dipendenza sono un carattere costitutivo dell’umano, e la fine della alienazione può essere solo un fatto relativo, il passaggio da una dipendenza all’altra (così nel caso della fine della alienazione industriale descritta da Marx). Vale la pena di osservare che il solo modo disponibile per un umano di ridurre la propria costitutiva alienazione consiste nell’applicarsi deliberatamente ad attività che lo portano lontano da sé, ossia che lo alienano: la riflessione, lo studio, il confronto.

Condividi:

Maurizio Ferraris

è vicerettore dell’Università degli Studi di Torino, professore ordinario di Filosofia Teoretica nello stesso ateneo e presidente del Laboratorio di Ontologia (LabOnt), che ha fondato nel 1999.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it