Anatomia d’un documentario di storia #3 Medici del Reich II

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Fra gli audiovisivi che più agiscono sul nostro immaginario storico ci sono quelli televisivi. Ma la Tv tende a fare confusione: ci sono immagini nate per il piccolo schermo e altre prodotte per cinegiornali cinematografici, o per creare degli archivi. A questa genealogia chi fa Tv non dà quasi mai peso, ma chi insegna dovrebbe, perché la storia produttiva di un audiovisivo pesa tanto quanto il suo contenuto. Con questo, che è il secondo di una serie di interventi, intendo offrire agli insegnanti un vademecum per usare in classe un documentario storico. Prendiamone uno e smontiamolo, facciamolo a pezzetti, dividiamolo in sequenze, arriviamo fino ad isolarne i fotogrammi, cerchiamo di capire di cosa parliamo quando parliamo di repertorio, in TV come altrove. Ho scelto per iniziare documentari scritti da me e facilmente reperibili in rete. (qui la prima parte dell’articolo)

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Il caso italiano. La ricchezza, per così dire, della propaganda cinematografica tedesca sulle questioni razziali mi ha spinto a ragionare sulla coeva azione dell’Istituto Luce, poco affrontata nello specifico da chi ha studiato, in Italia, il razzismo di Stato e la costruzione dell’uomo nuovo nello spazio dell’immaginario collettivo. Ho trovato dunque che l’istituto Luce conserva in realtà pochissimi documenti direttamente ascrivibili all’ambito della propaganda sulla razza. Anche per questo motivo il giudizio degli storici sulla diffusione del razzismo in Italia è stato più clemente di quello riservato alla propaganda tedesca.
Sebbene, infatti, gli audiovisivi siano diventati solo recentemente una fonte storica a pieno titolo, sicuramente nell’immaginario degli studiosi italiani ha agito in modo “positivo” il fatto che in Italia non vi sia stata nessuna produzione nemmeno lontanamente paragonabile a film come Il trionfo della volontà per l’uomo nuovo (1935 Riefenstahl), o, per il modello negativo, Suss l’ebreo (1940 Veit Harlan), o L’eterno ebreo (1940 Hippler) meno noto ma altrettanto importante. Di questa posizione possiamo trovare riscontro autorevole nelle due più importanti storie dell’Istituto Luce: Mino Argentieri, nel classico L’occhio del regime, ha scritto «Il cinema non si intruppò nella gazzarra antisemita degli altri mass media. L’Italia non ebbe il suo Suss, l’ebreo; non un film di fiction, neanche fra quelli dettati dal Minculpop, si lasciò sfuggire la più larvata insolenza razzista antiebraica. Eppure di articoli su gli ebrei e l’industria cinematografica americana ne furono scritti più d’uno, anche sulle riviste che avevano una dignità culturale come “Bianco e nero”». Ernesto G. Laura ha aggiunto qualche anno dopo «Va detto a suo onore che l’Istituto Luce non partecipa alla campagna d’opinione antiebraica. Non esistono servizi nel Giornale né documentari dedicati all’argomento». Il libro citato è Le stagioni dell’Aquila, poi diventato un film documentario con la regia di Giuliano Montaldo. Nessuna propaganda cinematografica per la razza dunque? Di fronte al giudizio di studiosi così autorevoli, e assolutamente non sospettabili di simpatie nei confronti del fascismo, ci sarebbe stato dall’astenersi nel continuare le ricerche.

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Tuttavia il giudizio di Argentieri così come di chi lo ha seguito risente di quel fraintendimento di cui a lungo è stata vittima la storiografia, insieme al pubblico dibattito italiano, per cui l’unico razzismo era quello antisemita, l’unico uomo nuovo quello nazista. In questo tipo di approccio alla propaganda del ventennio, scarsa attenzione si è prestata a quei materiali audiovisivi che affrontando il tema dell’uomo nuovo indirettamente parlavano agli italiani di una razza imperfetta da “aggiustare”. Insomma, poche volte il discorso sulla razza e sull’antisemitismo, che possiamo chiamare un discorso in negativo, poiché teso a definire ciò che non è la razza italica, è stato messo a confronto, per quanto riguarda la cinematografia di propaganda, con un discorso in positivo, ovvero quello sull’uomo nuovo che, invece, il Luce ha portato avanti, in questo poco discostandosi dalla propaganda nazista per tutti gli anni Trenta (del resto gli studi più recenti sul razzismo italiano, e mi riferisco per esempio a Francesco Cassata, e al suo La difesa della razza, hanno sottolineato come vi sia stata fin dagli anni Venti una costruzione parallela di questo modello in positivo e in negativo dell’uomo nuovo e della razza italica, che è proprio quello che ho iniziato a ricercare negli archivi del LUCE).
Allora rivediamo i documenti italiani di cui I medici del Reich recano solo poche tracce, ma facilmente rintracciabili sul sito dell’Archivio Luce. Cosa è la razza, cos’è l’uomo nuovo lo spiegano gli scienziati attraverso i cinegiornali del LUCE. E il primo documento che propongo dunque è un cinegiornale che il Luce dedica nel 1933 all’Istituto di Biotipologia di Genova diretto da Nicola Pende, dal titolo Studiando l’individualità si scopre ciò che ogni uomo “può fare”. Le metodiche esperienze dal prof. Pende.

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Per analogia, nel documentario mostro un documento simile proveniente dagli archivi interessantissimi della televisione nazista, databile fra il 1937 e il 1938. In entrambi si assiste alla vera e propria costruzione dell’uomo nuovo da parte della nuova scienza. Solo che il cinegiornale italiano è di molti anni precedente a quello nazista. Su questo cinegiornale Argentieri riporta il commento di una biologa, la dottoressa Emanuela Calvelli: «il film sull’istituzione di Pende è un curioso documento di come la pseudo scienza italiana fosse sensibile alle problematiche, assai diffuse in altri paesi d’Europa, soprattutto in Germania, e riguardanti il mito della razza e la selezione di individui ritenuti biologicamente superiori. Sebbene ogni accenno razzista venga accuratamente evitato, pure un occhio critico vi rinviene facilmente i germi di una antropologia discriminante. Le sequenze offrono scene simili ai check-up di oggi con misurazione di arti, della capacità polmonare, studio dei riflessi di soggetti seduti su trabiccoli che simulano la carlinga di un aereo, apparecchi sofisticati che possono sostituire i congegni attualmente usati per effettuare i test attitudinali. Lo sguardo dell’indagatore cade sovente sullo sfondo di pannelli di carta quadrettata, nell’intento di confrontare i soggetti esaminati con il biotipo ideale». In altre sequenze sono riprese le misurazioni dei crani in cui un medico tedesco sottopone una donna ebrea a controllo antropometrico, sequenze citate esattamente da Losey nel film del 1976 Mr. Klein. Altri cinegiornali del Luce ritornano sull’argomento, in modo non molto diverso da quanto sta accadendo nella Germania hitleriana. Certo in Italia non esiste nessun Aktion T4, né alcun documentario sulle “vite inutili”. L’entusiasmo per l’approccio scientifico alla costruzione dell’uomo nuovo da parte della propaganda cinematografica, infatti, dura poco. Non fa breccia. Si scontra con due fattori fondamentali per il funzionamento di una propaganda simile: il luogo in cui viene diffusa (quindi i soggetti ai quali viene rivolta), e anche l’evidenza delle immagini documentarie: non ci sono folle ordinate di ariani qua da presentare, ma contadini dai volti segnati e sofferenti. Al massimo, borghesi in città moderne in niente diverse dalle altre capitali europee. Allora qual è l’uomo nuovo che la cinematografia è chiamata a divulgare? Qual è, se non è biondo, se non è bello, se non è perfetto, se non può più avere neppure l’aura eroica di una rivoluzione ormai trasformatasi in un regime pieno di gerarchi e gerarchetti e burocrazia? Accusato di non far bene propagand,a il direttore del LUCE protesterà: «In quest’ambito le possibilità dell’Istituto sono assai limitate, in parte perché deve prevalere il criterio politico, in parte perché non si potranno fare mai eliminazioni o riduzioni finché non trovi remora il metodo delle raccomandazioni, delle pressioni e, ahimè, dei risentimenti, nel quale si esercitano gli enti e gli uomini interessati». Ha scritto ancora una volta Argentieri: «Di stirpe italica discendente dagli antichi romani e di sanità della stirpe è un gran dire e un gran vedere negli anni della campagna demografica e della conquista dell’impero, nei documentari sull’opera nazionale maternità e infanzia, sull’Onb e sul sistema assistenziale e previdenziale, ma di antisemitismo non v’è segno».
Ha raccontato il regista Giorgio Ferroni: «Un giorno, fui convocato alla direzione del Luce, e mi si disse che il duce aveva ordinato di fare un film sulla razza italica. Mi si diede l’incarico di scriverne intanto la sceneggiatura. Consultai il professor Pende e gli altri studiosi, avemmo molte riunioni e lessi più di un libro sull’argomento. Feci anche alcuni sopralluoghi e la conclusione delle mie ricerche fu che non sarebbe stato possibile realizzare il film perché esemplari di una pura razza italica non ve ne erano, se non in una sperduta località di montagna. Esposi le mie opinioni e i miei dubbi in un piccolo rapporto che fu inviato a Mussolini e del film non se ne parlò più».

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E allora torniamo alla cinematografia nazista. La documentazione del massacro diventa sempre più difficile da realizzare, in Germania le critiche contro il progetto T4 si fanno sempre più pressanti. Sono infatti cittadini tedeschi a essere uccisi, diversa la situazione degli ebrei, percepiti, soprattutto grazie alle leggi di Norimberga del 1935, come un corpo estraneo alla società, degli stranieri. Così la soluzione del campo di internamento diventa la più semplice: isolare i corpi estranei, farli scomparire, ridurli a un mero esercizio di memoria per chi volesse ricordarli. Non si fanno più film, non si girano più documentari di propaganda. Solo nei cinegiornali troviamo tracce del massacro che prosegue ora verso est, come necessità di guerra. Le rare immagini, l’ho detto, vengono dunque prodotte in modo amatoriale, da chi ha una cinepresa, o una macchina fotografica. La documentazione ufficiale subisce un alt. Se qualcosa viene prodotto non rimangono tracce, distrutto, forse, quando è chiaro che per i tedeschi la guerra è perduta.

E allora come raccontare Auschwitz? Le immagini che siamo abituati a vedere, quelle dei prigionieri, dei fili spinati, delle baracche, sono filmate dagli alleati alla fine della guerra. Per anni sono stati usati stralci di fiction cinematografica, celebre il caso di Ostatni etap (L’ultima tappa), film polacco del 1945 girato dentro il campo di sterminio del quale alcune scene sono state usate per raccontare invece gli anni del suo funzionamento.
Cosa resta del campo? In che modo abbiamo costruito il nostro immaginario sul più grande mattatoio d’Europa? Lo abbiamo fatto a partire dai racconti, dai film, dalle fiction, e solo a partire da essi. Rimangono però delle fotografie, e a quelle mi sono rivolta per affrontare questo tema.

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Non è semplice usare fotografie in un documentario televisivo: vengono spesso percepite come noiose, i montatori non amano lavorarle, richiedono tempo poiché nei programmi di montaggio classici muovere una fotografia, zoommarla, cogliere un particolare è un procedimento più lungo di quanto si possa pensare. Ma in questo caso la scelta è stata inevitabile, e la montatrice, Loriana Lucarini, ha accolto la sfida filologica che le ho proposto. Abbiamo usato tre album, conservati oggi presso l’USHMM. Il primo, di Wilhelm Brasse, internato politico, ritrattista ufficiale del campo suoi i ritratti dei gerarchi, sue le foto segnaletiche dei prigionieri. Il secondo è l’album di Karl Höker, ufficiale delle SS, che si fa fotografare al suo arrivo ad Auschwitz nel maggio del 1943. Höker fotografa la banalità del male, la vita quotidiana degli sterminatori. I fine settimana con mogli e figli, passati nella baita poco lontano dall’inferno.

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Le allegre feste di Natale. I periodici controlli da parte di infermiere specializzate. Ma è il terzo album, anonimo, quello più importante. È l’album ritrovato subito dopo la liberazione del campo da una prigioniera ebrea, Lili Jacob, fotografata insieme alle altre donne scampate alla selezione iniziale. Sono adulte e possono lavorare. I fratelli di Lili che vediamo nelle foto non si salveranno. I tre album testimoniano anche il ruolo chiave che i medici hanno nell’organizzazione del lager. In primo luogo nella selezione: quel momento in cui una volta arrivati e scaricati dai vagoni i prigionieri vengono allineati su due file. A destra chi vive. A sinistra chi viene mandato a morire. Grazie a queste fotografie il nostro immaginario sul funzionamento del campo di sterminio diventa più dettagliato, preciso, nitido.
Infine vi sono le immagini notissime della liberazione dei campi, percepite normalmente come “testimonianza” specifica del funzionamento degli stessi, in realtà girate dagli Alleati quando tutto è finito. Vengono usate come prova durante i processi contro i nazisti. È la prima volta che succede. Prima di Norimberga nessun audiovisivo è mai entrato in un tribunale, e anche se il loro valore giuridico viene dopo quello affidato ai documenti scritti, aprono la strada a un uso delle immagini affatto inedito nella storia del nostro dopoguerra. Una storia, questa, che merita un racconto a parte.

Credits
I medici del Reich
, di Vanessa Roghi, 49’
Ricerche Fania Petrelli
Montaggio Loriana Lucarini
Correva l’anno è un programma di Marina Basile e Tiziana Pellegrini per la Struttura Storia di Rai Tre diretta da Luigi Bizzarri

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Vanessa Roghi

Storica del tempo presente, ricercatrice indipendente, autrice di programmi di storia per Rai Tre. Bodini Fellow presso l’Italian Academy della Columbia University dal 2020 al 2021. Ha pubblicato, per Laterza, nel 2017 “La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole“, nel 2018 “Piccola città. Una storia comune di eroina“, nel 2020 “Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari“, nel 2022 “Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica“; nel 2021 per Einaudi Ragazzi “Voi siete il fuoco. Storia e storie della scuola”, nel 2022 per Mondadori “Eroina“.

Su twitter è @VaniuskaR

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