Alle prese con l’ircocervo

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Che bestia è l’Unione europea, oggi? Quanto è fantastica e chimerica e quanto, invece, realistica e necessaria? Come insegnarla a scuola? L’abbiamo chiesto a Piero Graglia, storico e specialista della storia delle relazioni internazionali.
La Torre Eiffel durante la sua costruzione per la Esposizione Universale del 1889.

Che cos’è l’Europa? Che cosa rappresenta lo sforzo di creazione di una comunità europea, economica e politica, che ha caratterizzato tutta la seconda metà del Novecento ed è tuttora in corso? E, soprattutto, una coscienza unitaria europea preesisteva rispetto alle ragioni economiche che hanno spinto verso l’integrazione dopo il secondo conflitto mondiale, oppure è stata in qualche misura creata e diffusa proprio grazie al processo di integrazione europea? Sono alcune delle domande che ci si deve porre quando ci si avvicina al problema di «insegnare l’Europa», cioè trasformare in narrazione condivisa con gli studenti un tema così sfuggente e così «originale» quale il processo di integrazione europea.

Di volumi che affrontano la storia dell’integrazione europea ve ne sono ormai in circolazione moltissimi, verrebbe da dire quasi per tutti i gusti (storiografici). Alcuni sono traduzioni di studi diventati dei punti di riferimento per gli storici del settore (penso in particolare al volume di Mark Gilbert, Storia politica dell’Unione europea, edito da Laterza), altri sono ottime analisi, anche settoriali, comparse durante gli anni Novanta, dopo che la nascita dell’Unione europea (Ue) ha dato un innegabile rinnovato slancio alla «storia» della sua costruzione. Alcuni si collocano apertamente sul fronte della critica del processo di integrazione economica a volte con motivazioni opponibili: il fronte che può essere definito in senso lato «progressista» sostiene che il processo è da criticare poiché è troppo poco democratico e lascia poco spazio alle forme della rappresentatività popolare e alla tutela dei diritti fondamentali nonché ai diritti relativi al lavoro e alle politiche sociali, ma ugualmente si sostiene che esso è da criticare anche per chi, dal fronte «conservatore», lo considera lesivo di diritti acquisiti e intoccabili riposti all’interno dei poteri sovrani degli Stati nazionali.

La costruzione europea è un animale politico e istituzionale che sfugge alle consuete distinzioni, e si pone su un piano del tutto nuovo.La cosa curiosa è che la stessa distinzione «progressisti» e «conservatori», così pregnante sul piano politico interno, viene svuotata di significato quando si passa a considerare lo scenario sovranazionale europeo: la critica della scarsa rappresentatività democratica può essere sostenuta sia dai progressisti sia dai populisti, e la perdita lenta e costante di sovranità che tale processo ha materialmente implicato da cinquant’anni a questa parte trova i suoi oppositori e i suoi critici in tutto l’arco politico, destra e sinistra insieme. La costruzione europea, in altre parole, è un animale politico e istituzionale che sfugge alle consuete distinzioni, e si pone su un piano del tutto nuovo, rendendo tuttora valido e significativo il cambio di prospettiva che si è avuto durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, in tutta Europa: l’unità del continente, variamente declinata e immaginata, come unica risposta alla perdita di centralità della civilisation europea.

Questi problemi devono essere ben presenti al docente che vuole affrontare il tema della narrazione storica. Prima di tutto, gli attori. Chi considerare? Per molti anni i governi hanno tenuto banco nell’organizzazione e nella promozione delle prime Comunità: dalla Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA, 1950-2012) a quelle fondate nel 1957 che poi si sono fuse nel progetto dell’Unione europea, il ruolo dei governi è stato centrale, ma non esclusivo, almeno in una prima fase. Considerare solo le iniziative intergovernative metterebbe in ombra tutto il lavorìo, politicamente e ideologicamente significativo, svolto dai movimenti europeisti e – soprattutto – federalisti, nel periodo che va dal 1947 al 1955. Una sinergia difficile, quella tra movimenti e governi, ma non senza un profondo significato programmatico: nella prima dichiarazione che portò alla nascita della CECA, letta dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman il 9 maggio 1950, il tema della prospettiva della pacificazione e dell’unità politica dell’Europa occidentale è presente come promessa dei futuri «Stati Uniti d’Europa»; poi esso diventa meno pregnante dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (CED, 1950-1954) e infine resta come un riferimento ideale debole per tutto il resto della storia dell’integrazione. Merito dei movimenti? Senz’altro, ma non solo. Merito anche di un processo di «europeizzazione» delle società nazionali che ha sostenuto una retorica europeista che solo negli ultimi anni è stata messa in discussione dalle critiche degli euroscettici e dai nuovi sovranismi che sono fioriti, anche a sinistra, nel panorama politico europeo.

R. Delaunay, “La Ville de Paris, la Femme et la Tour Eiffel”, 1925, Galleria Dickinson, Londra-New York.

Una narrazione complessa e non univoca
Come proporre una narrazione, quindi, che tenga conto di questi sviluppi? La dinamica del dialogo costruttivo tra décideurs della politica nazionale e movimenti federalisti che ha portato al mantenimento della prospettiva della unificazione politica non è una dinamica continua e lineare, ma non può essere elusa, pena diventare cantori dell’intergovernamentalismo cancellando del tutto le idealità del processo di integrazione. Già questo apre un problema significativo di costruzione di una narrazione storica che tenga nel giusto conto sia gli atti ufficiali sia quelli, meno visibili ma non meno importanti, che accompagnano i leader europei nelle loro scelte.

E ancora: che dire dell’insieme di interessi che si sono costruiti attorno all’esistenza stessa delle Comunità e poi dell’Unione – interessi economici, finanziari, duri, tenaci, realizzatori – e che hanno trasformato nel tempo la natura stessa del processo di integrazione facendo emergere soprattutto il suo lato economico e ponendo in ombra le idealità originarie? Non è questo un altro campo interessante sul quale confrontarsi? Siamo passati dall’Europa dei mercanti raccontata da Jacques Le Goff all’Europa delle banche e dei finanzieri, dimenticando nel percorso narrativo tutta quell’Europa mancata – quella della cittadinanza e dei diritti – che pure il Parlamento europeo provò a proporre nel periodo 1980-1986, grazie all’impulso determinante rappresentato dal federalista Altiero Spinelli, risultando perdente. Il mercato unico, e la prospettiva di creazione di uno spazio economico europeo allargato anche ai Paesi dell’Est Europa in fase di transizione verso la «democrazia» dopo il 1989, ha paradossalmente soppiantato la storia di come questa transizione, voluta e sperata dall’Unione, abbia mancato in gran parte i suoi obiettivi. I Paesi dell’Est Europa oggi sono ancora gelosi custodi della sovranità nazionale duramente riconquistata dopo il dominio sovietico, e pensano all’Europa come a un vantaggio economico, non a uno spazio politico. Enorme problema di percezione rispetto alla «piccola Europa» occidentale, dove invece la retorica europeista poneva l’obiettivo della creazione dell’«homo europaeus» come uno dei suoi principali. Come raccontare questa diversa percezione, oggi, a studenti occidentali che si sentono giustamente prima europei e poi cittadini nazionali rispetto a giovani dell’Est che vedono nell’Europa soprattutto un’occasione, ma non percepiscono pienamente un’appartenenza a essa?

E infine, quale ultimo punto sul quale confrontarsi parlando a studenti per i quali De Gasperi e Adenauer sono equivalenti più o meno a Carlomagno o a Napoleone, emerge anche il nodo fondamentale del ruolo internazionale che l’Unione, gigante economico e nano politico (si potrebbe aggiungere anche: verme militare) esita a svolgere a fronte di una crescente richiesta di presenza, soprattutto dopo il 1991, da parte degli Stati Uniti in questo senso.

Siamo passati dall’Europa dei mercanti raccontata da Jacques Le Goff all’Europa delle banche e dei finanzieri.Questa rappresenta senza dubbio la parte più deprimente di un immaginario set di temi relativi alla storia del processo di integrazione europea: quando e come l’Unione ha tentato, senza riuscirci se non in maniera molto limitata, di dotarsi della capacità di affiancare al suo ruolo di «potenza civile» anche quello di «potenza regionale reale», cioè in grado di influire sui processi e le dinamiche geopolitiche a lei vicine. La definizione di «Europa potenza civile» è in parte fuorviante: introdotta nel dibattito storico da Mario Telò alla fine degli anni Novanta del XX secolo, essa mescola il tema della definizione dei diritti e dei valori fondanti dell’Unione con la sua capacità di rappresentarli verso l’esterno e, se necessario, difenderli e promuoverli. A riguardo gli storici delle relazioni internazionali non nascondono il loro profondo scetticismo riguardo alla definizione: si usa dire che influence is not government e questo vale anche – e, forse, soprattutto – nel campo delle relazioni internazionali: a un’Unione europea priva di fatto di un’unica voce e degli strumenti per fare una politica estera significativa, resta forse l’influence, ma il government delle situazioni di crisi e di conflitto resta affidato alla iniziativa e alla buona fede dei Paesi principali che si accollano il peso e la responsabilità di un eventuale intervento. Lo si è visto nel caso delle guerre civili nella ex-Jugoslavia, lo si è visto nel difficile rapporto con la Russia rispetto alle richieste di «europeizzazione» di alcune repubbliche ex-sovietiche (Ucraina e Bielorussia e Georgia in particolare) e lo si vede anche oggi nel caso della politica da adottare nei confronti dei movimenti migratori dal Sud del mondo. In tutte queste occasioni l’Unione ha presentato un ventaglio di posizioni distinte, disgiunte, non di rado anche conflittuali tra i vari Stati membri, e riesce difficile parlare di essa, a questo punto, come una «potenza civile»: semmai una potenza semplicemente priva del collegamento necessario tra dimensione economico-commerciale e consapevolezza delle responsabilità che da questo status discendono.

Quale Europa a questo punto, insegnare? Forse l’unica risposta è quella di insegnare la complessità di un processo misto, nel quale si fondono idealità alte e interessi molto concreti, dialogo tra governi che hanno perso nel tempo alcune attribuzioni sovrane (come la moneta) e società civili abituate alla transnazionalità nei comportamenti di consumo, nella mobilità, nella percezione dell’altro e del «diverso». Non è facile, ma è possibile: si tratta di percepire l’Unione come uno spazio politico e sociale complesso, che ha prescisso dalle usuali distinzioni tra politica interna e politica estera e che ancora oggi fonde queste due dimensioni in una dinamica in continua evoluzione. Un compito appassionante, che coinvolge la storia delle relazioni internazionali e quella intellettuale, la storia dei partiti e dei movimenti e la storia sociale, la storia economica e commerciale e quella delle organizzazioni militari. Non c’è l’imbarazzo della scelta, c’è l’imbarazzo dei molti attori in gioco, e questo rende il tutto molto più interessante e appassionante di una histoire bataille.

Qui potete ascoltare l’intervista a Pietro Graglia che è andata in onda a Controradio il 31 maggio 2017 sugli argomenti trattati in questo articolo.

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Piero S. Graglia

Allievo di Gaetano Arfè, insegna Storia dell’integrazione europea e History of Regional Integrations all’università Statale di Milano, dove è professore associato. I suoi interessi vertono principalmente sul ruolo di alcuni personaggi nella costruzione europea, in particolare Altiero Spinelli (del quale ha pubblicato la biografia con Il Mulino nel 2008), Carlo Rosselli, Silvio Trentin, Ignazio Silone. Ha pubblicato anche il volume “Unità europea e federalismo. Da “Giustizia e Libertà” ad Altiero Spinelli” (Il Mulino, Bologna 1996), tre raccolte di scritti di Altiero Spinelli per il periodo 1941-1947, e la breve monografia “L’Unione europea” (Il Mulino, Bologna 2015, alla sua quinta edizione). Ha insegnato nelle università di Napoli Federico II, Firenze, Cluj-Napoca, Roma 3.

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