Il suo tormentone – Capisci Internet? No? E allora, che parli a fare! – suonava a metà degli anni Novanta come spietato e assoluto anatema socio-culturale verso chi confessava impaccio di fronte al nuovo mezzo di comunicazione. Ed eravamo prima della diffusione delle linee veloci, della connessione a banda larga 24 ore su 24, a cui tutti ci siamo ormai tanto abituati da aver dimenticato che si tratta di una risorsa di cui disponiamo da poco più di due lustri! Il surreale personaggio pensato e interpretato da Francesco Paolantoni mi è tornato alla mente di recente, quando l’interesse dimostrato dalle mie nipotine gemelle (4 mesi effettivi, 7 anagrafici) di fronte al tablet del padre mi ha anche fatto pensare non tanto alla prima, più fortunata e nota classificazione di Marc Prensky – quella che distingue tra nativi e migranti digitali – quanto alla seconda, meno conosciuta anche se molto convincente, perché meno adatta a colpire l’immaginario collettivo, che identifica tre modalità d’uso delle strumentazioni digitali: saggia, stupida e “autoreferente” .
È saggezza digitale riconoscere al pc e ai suoi derivati la funzione di imprescindibile strumento di crescita culturale e arricchimento operativo e impiegarli produttivamente come tali. È stupidità digitale svolgere soltanto attività futili, ma anche rifiutare aprioristicamente o per pigrizia mentale ogni approccio con i computer. La terza condizione – da molti per altro confusa con la competenza digitale – è quella di coloro che non sanno dare uno sbocco dotato di senso al possesso di grande disinvoltura pratica e di costante curiosità per le novità offerte dal mercato, che vengono esplorate, consumate e abbandonate in un continuo ciclo fine a se stesso. Il mio timore era ovviamente quello che la mia recentissima progenie potesse in un prossimo futuro assumere il secondo o il terzo atteggiamento. Tanto più che le prospettive educative e scolastiche non sono per nulla rassicuranti.
Revisioni di spesa e agenda digitale prospettano un’introduzione accelerata a scuola del pc e dei suoi derivati senza che siano stati non solo prodotti e diffusi, ma nemmeno concepiti e testati, modelli convincenti di prodotti culturali e di strategie formative. Il rischio che si tratti di forzature (e di conseguenza di occasioni mancate) è davvero elevato, considerando anche l’agire scolastico tendenziale di ampie quote di potenziali studenti 2.0. Ho anzi anche avuto una sorta di incubo a occhi aperti, preconizzante i comportamenti che potrò dover affrontare tra qualche anno. “Professore, ho dimenticato il tablet”. “Ho perso la chiavetta USB”. “Mio fratello piccolo mi ha formattato il disco rigido”. “Ieri sera c’è stato il black-out e non ho potuto caricare l’eBook reader”. “Mia madre non si ricorda la password e non ha potuto firmare la valutazione online della verifica digitale”. “Lo Store non mi ha ancora abilitato a scaricare gli eBook perché mio padre ha la carta di credito bloccata”. E via scusandosi. Per non parlare della possibilità peggiore, ovvero quella di una classe interamente dotata di tablet di proprietà connessa alla rete non con il wireless della scuola, sul quale è perlomeno possibile collocare un filtro della navigazione, ma con tante singole Micro Sim 4G quanti sono gli allievi. E via distraendosi.
A ridimensionare parzialmente le mie paure personali e professionali è intervenuta la visita di controllo sullo sviluppo delle mie nipoti: la loro maturazione è perfettamente negli standard e il raffinarsi di vista e udito fa sì che in questa fase della loro vita siano particolarmente incuriosite – come generazioni e generazioni di neonati che le hanno precedute – da dispositivi che emettano suoni e rumori e propongano immagini colorate.