A chi servono i Greci e i Romani?

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Perché gli studi umanistici hanno urgente bisogno di didattica (e di storia della scuola): alcune riflessioni a partire da “Tutte storie di maschi bianchi morti…” di Alice Borgna.

 

Il libro di Alice Borgna intitolato Tutte storie di maschi bianchi morti…, uscito di recente nella collana «Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti» di Laterza, affronta in modo sintetico e deciso un problema ineludibile per chi è interessato a comprendere la scuola italiana contemporanea e il suo rapporto con l’università: la presenza dell’insegnamento del latino e del greco nel curricolo della scuola pubblica.

L’autrice, docente universitaria di lingua e letteratura latina, organizza la sua argomentazione in due parti nettamente distinte. La prima, dedicata interamente al dibattito americano sulla decolonizzazione dei classici, ha la funzione di demistificare il fenomeno della cancel culture e i luoghi comuni che caratterizzano la sua narrazione in Italia, analizzando puntualmente il caso del discorso pubblico sui classici e sul posto che dovrebbero occupare nell’istruzione universitaria negli Stati Uniti. Un dibattito, sostiene Alice Borgna a pagina 92 del suo saggio, che non è stato riportato al grande pubblico europeo e italiano in modo corretto, bensì operando delle banalizzazioni e semplificazioni che di fatto hanno spostato l’attenzione da alcune istanze di riforma più che legittime, preferendo toni allarmisti e non contestualizzandolo.

Se, infatti, gli innovatori americani stanno proponendo un programma complesso e articolato di completa revisione della disciplina, il taglio che la stampa ha scelto per interessare il pubblico europeo è stato ben più terra-terra: a causa della cancel culture e della cultura woke, le università americane stanno cancellando gli studi classici.

A questo punto, una volta conclusa l’operazione di debunking, l’autrice si rivolge all’Italia, e sceglie di abbandonare una posizione riformista e di mettere da parte le istanze di cambiamento descritte nella prima parte (su cui tornerò più avanti), per buttarsi in una lunga perorazione della causa dell’insegnamento scolastico del greco e del latino nel sistema di istruzione italiano. «Siamo sicuri – si legge a pagina 95 – che anche da noi non esistano fasce della società, peraltro piuttosto autorevoli, che vorrebbero almeno la riduzione del greco al liceo classico e l’eliminazione del latino dai licei diversi dal classico?». È solo la prima delle tante domande retoriche affrontate da Borgna nelle circa settanta pagine rimanenti, in cui le lingue e letterature greca e latina sono trattate alla stregua di monumenti messi a rischio dalle istanze «utilitaristiche» della società contemporanea, istanze nemiche di quegli studi classici alla cui difesa si immolano alcuni «professori eroici» che ancora ricorrono allo studio della lingua e alla pratica della traduzione nelle loro classi liceali (p. 119) e quegli intellettuali che – come l’autrice – si pongono il problema del futuro lavorativo dei laureati e delle laureate in Lettere classiche, a cui dovrebbero essere riservati necessariamente dei posti di insegnamento nella scuola secondaria.

Questo – secondo me – deve essere il punto fondamentale di ogni discorso sul futuro dell’antichissima: l’inclusività della disciplina passa non solo da quante persone possono studiarla e da come viene studiata, ma anche da quante e quali possibilità di lavoro offre. Per questo motivo, il dibattito sulla colonizzazione dei classici dovrebbe passare anche (e soprattutto) dalla riflessione sull’importanza che i classici compaiano in ampi strati dell’istruzione pubblica: fino a quando il latino e il greco resteranno materie curricolari di alcuni indirizzi della scuola pubblica, ci saranno insegnanti, ovvero posti di lavoro. Altrimenti, è inutile girarci intorno: potrà studiare quella disciplina solo chi può contare su risorse familiari sufficienti per affrontare la roulette russa del mercato accademico o del mondo della cultura, oppure chi, semplicemente, non ha la necessità di trasformare quel titolo di studio in un lavoro: pensionati, persone che vogliono prendere una seconda laurea per hobby, o che possono contare solo su altri canali per assicurarsi un’occupazione. (p. 107)

Per “salvare” gli studi classici, questa è la tesi fondamentale di Borgna, è sì opportuno intraprendere un percorso di revisione del loro statuto, ma senza perdere di vista la tutela dei posti di lavoro, garanzia necessaria ad assicurare l’accesso a questo settore anche a persone che altrimenti non potrebbero permetterselo. Ora, al di là del fatto che questo ragionamento potrebbe essere applicato a qualsiasi disciplina (e non solo di area umanistica), aprendo di fatto un conflitto senza soluzione sulla base della garanzia di occupabilità che offrono i diversi corsi di laurea, va detto che questo approccio alle politiche scolastiche come soluzione alla disoccupazione intellettuale vanta una lunga storia politica (almeno da Pasquale Villari in avanti) e una discreta tradizione storiografica (si veda almeno Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico italiano, Il Mulino, Bologna 1974), che richiederebbe da parte dell’autrice un qualche approfondimento.

La successiva argomentazione si fonda interamente sul fatto che latino e greco sono materie obbligatorie per alcune tipologie di scuole pubbliche presenti su tutto il territorio nazionale e per questo motivo, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, dove le lingue antiche dell’area mediterranea si studiano solo in scuole private, non sarebbero «discipline elitarie e discriminatorie» (p. 106). L’argomento, soprattutto alla luce del dibattito sulla decolonizzazione, è di assoluto rilievo, e forse per questo può essere utile ampliare la riflessione e non limitarsi a credere che l’esistenza di una norma e di alcune istituzioni sia sufficiente a garantire l’accesso di ogni cittadino a un servizio pubblico.

Per esempio, nell’anno scolastico 2018/2019, nei licei classici italiani erano presenti 1,7 alunni con cittadinanza non italiana ogni 100, mentre nella totalità dei licei ne avevamo il 4.4%, l’8,9% negli istituti tecnici, il 12,6% negli istituti professionali e il 20,6% nei percorsi di istruzione e formazione professionale. In sintesi, fino a tre anni fa per essere sicuri di incontrare una o uno studente di cittadinanza non italiana in un liceo classico occorreva visitare almeno tre classi, mentre sarebbe stato inevitabile trovarne più di uno in ogni classe di un professionale. Esiste una correlazione tra questi dati e lo studio del greco e del latino? Non lo sappiamo, ma i dati ci spingono quanto meno a usare prudenza nell’affermare il contrario e ad approfondire cosa accade nel passaggio tra scuola secondaria di primo e di secondo grado, quando è necessario scegliere tra uno dei quattro tipi fondamentali di istruzione e, quindi, portare a compimento l’obbligo scolastico (che termina a 16 anni, alla fine del primo biennio).
Se analizziamo gli Esiti dell’esame di Stato e degli scrutini nella scuola secondaria di I grado (Ministero dell’Istruzione 2020), ci accorgiamo dell’esistenza di un collegamento forte tra voto di uscita e scelta del tipo di scuola, dato che su 100 alunni che si licenziano con il voto di dieci e lode 94 decidono di proseguire il percorso in un liceo, il 5,6% in un tecnico e lo 0,3 in un professionale, mentre il 36,1% degli alunni che si licenziano con un sei proseguono con un professionale, il 44,7% in un tecnico e il 19,1% in un liceo. Sempre nello stesso rapporto leggiamo che il 69,8% degli stranieri conclude il percorso con sei o sette mentre, in corrispondenza delle stesse fasce di voto, si conta il 41,2% di studenti italiani. Solo il 3,9% degli stranieri raggiunge la votazione di dieci e la lode.
I dati ora citati sarebbero già sufficienti per intraprendere un ragionamento più approfondito sulla questione del merito – affrontata da Borgna a proposito del dibattito statunitense e puntualmente elusa per il caso italiano – e sul rapporto esistente tra i metodi e senso della valutazione e i corpi dei soggetti sottoposti a valutazione. Siamo sicuri che la categoria di merito – qui esemplarmente rappresentata da un voto scolastico – non sia uno strumento usato per discriminare, ovvero per organizzare le masse di studenti in gruppi più o meno omogenei destinati a servizi di istruzione tra loro apparentemente simili ma assai diversi proprio nella composizione delle classi?

Il Rapporto prove Invalsi 2019 ci aiuta infine a evidenziare la differente stratificazione sociale della scuola secondaria di secondo grado e a mettere in relazione il livello di preparazione degli studenti con la loro condizione socio-economica e culturale, misurata attraverso l’Economic Social Cultural Status index (ESCS). Secondo questo rapporto, non solo si può osservare una correlazione positiva tra indice di status e punteggio nelle prove Invalsi, ma è anche evidente che «a parità di risultati scolastici, in particolare quando questi non sono brillanti, uno studente con uno status sociale elevato sceglie più facilmente una scuola di tipo liceale rispetto a uno studente di condizione famigliare più modesta» (p. 28). In sintesi, possiamo dire con sufficiente approssimazione nei licei classici e scientifici è concentrata la presenza di studenti più ricchi di risorse cognitive (tra cui figurano in numero maggiore gli studenti di cittadinanza italiana che provengono da un contesto socio-economico e culturale più vantaggioso), mentre i più poveri sono concentrati negli istituti professionali.

Varrebbe la pena interrogarsi sulle cause della persistenza delle disuguaglianze nella scuola italiana e – come ha fatto Gianluca Argentin nel suo Nostra scuola quotidiana. Il cambiamento necessario (Il Mulino, Bologna 2021) – su quanto contribuisca alla loro riproduzione un sistema di istruzione strutturato in modo da separare (e segregare) gli alunni in base all’origine sociale, al background migratorio, al genere e ad altre caratteristiche che probabilmente è il caso di rendere esplicite e di cominciare a prendere sul serio in un discorso pubblico sulla scuola e sulla didattica che voglia dirsi democratico e progressista.
In particolare, al di là delle questioni di ordine più generale, per quel che riguarda la didattica delle lingue antiche sarebbe interessante prendere in esame la relazione tra le azioni degli insegnanti e le caratteristiche degli studenti, per verificare se è vero, come afferma Argentin, che le seconde orientano le prime, con esiti di rinforzo delle disparità di partenza di cui gli stessi insegnanti non sono necessariamente consapevoli, «essendo passivi portatori di interessi delle classi dominanti per la posizione sociale e il ruolo attribuito loro nei sistemi scolastici» (Argentin, p. 155). Trattandosi di pratiche, di idee e di interessi che contribuiscono a ostacolare la promozione dell’eguaglianza all’interno delle scuole, varrebbe la pena ricorrere agli strumenti messi a disposizione dagli stessi studi postcoloniali per comprenderne l’origine e tentare di prendere consapevolezza e poi rimuoverli.

In estrema sintesi, non sarebbe interessante (e utile alla causa della didattica delle lingue e delle letterature) porre attenzione a quei processi di selezione e di riproduzione delle disuguaglianze che di fatto rendono possibile l’esistenza del liceo classico – o, sarebbe meglio dire, di licei di serie A, classico e scientifico, e licei di serie B o «altri licei», come ormai vengono definiti anche nei report ministeriali – all’interno di un sistema di istruzione pubblico? (E quante scuole di serie B o di serie C occorre creare per continuare ad avere, nel sistema pubblico, senza violare formalmente il dettato costituzionale ma di fatto eludendo lo spirito dell’articolo 3, una scuola d’élite, in cui sia possibile studiare discipline “apparentemente inutili” ma dall’alto valore simbolico?).

Andando alla ricerca di pezze d’appoggio e di argomenti a sostegno della sua tesi, Borgna tende invece a spostare l’attenzione su due problemi che rivelano un atteggiamento paragonabile a quello tenuto dai media europei nei confronti della decolonizzazione degli studi classici: prima evocando lo spettro del declino della scuola democratica e poi attribuendo allo studio della lingua latina la capacità di risollevare i livelli di comprensione dell’italiano dei nostri concittadini.

Cominciamo dal primo luogo comune, espresso con convinzione a pagina 110, laddove si legge:

Questo va detto in modo chiaro: l’aver depauperato tutta la scuola secondaria soprattutto dei suoi contenuti umanistici ha avviato anche in Italia il processo di creazione di una scuola di massa povera di contenuti, rispetto a cui il liceo classico rischia di incancrenirsi nella sua natura di fortino delle élite, scelto più per le persone che lo frequentano che non per le materie studiate.

Pur consapevole del ruolo storico di «fortino delle élite» giocato dal liceo classico, Borgna sceglie di concentrare l’ultima parte del libro sul rapporto tra insegnamento della lingua latina e declino o riscatto della scuola secondaria, cercando di dimostrare l’utilità del suo apprendimento per il rilancio dell’istruzione e dei livelli di comprensione e di produzione dell’italiano (dando per scontato che esista un qualche rapporto causa-effetto tra studio del latino e apprendimento dell’italiano).
Ma restiamo sulla retorica del declino, uno dei cavalli di battaglia della destra reazionaria italiana e non solo, per la cui analisi si rimanda almeno al recente L’ultima ora di Christian Raimo (Ponte alle Grazie, Milano 2022). Essa si alimenta proprio di frasi ad effetto come queste, mai supportate da dati e fondate sulla percezione soggettiva di chi scrive, spesso accompagnata da espressioni come “non a caso”, “in realtà”, “tradizionalmente”, “basti solo pensare”…

Non a caso, da quando il latino è stato tolto dai programmi scolastici il grado di comprensione degli italiani è colato a picco, un crollo che rende la nostra società più fragile e la nostra comunicazione reciproca più difficile: basti solo pensare ai contrasti a cui tutti i giorni assistiamo tra chi – proprio sulla base di una conoscenza dell’italiano traballante – non è in grado di comprendere correttamente un testo informativo, soprattuto in rete (p. 118).

Vale la pena rileggere un articolo di Raimo e di Cristiano Corsini uscito su «Domani» nel maggio di quest’anno, quando i principali organi d’informazione hanno cominciato a diffondere la “notizia” che in Italia il 51 per cento della popolazione di quindicenni è incapace di capire un testo, a conferma di quella retorica della crisi che, fin dall’antichità, si basa sul racconto del progressivo e inesorabile peggioramento del livello degli apprendimenti.

Sebbene tale peggioramento non sia mai stato riscontrato dalle indagini su vasta scala condotte in Italia negli ultimi cinquant’anni, è davvero difficile che il dibattito sulla scuola non vi faccia riferimento, ignorando completamente il dato empirico o forzandolo entro schemi interpretativi vieti e vili.
Proverbiale è la topica presa da Umberto Galimberti che, su «Repubblica», qualche anno fa ha scritto che “gli adolescenti d’oggi conoscono solo seicento parole”. Un dato del tutto inventato ma che – nonostante la puntuale smentita di Tullio De Mauro – avendo le caratteristiche tipiche delle false notizie di una guerra permanente ha ottenuto un successo tale sul fronte scolastico da rappresentare oramai una verità incontrovertibile.
D’altra parte la retorica della crisi sa rimuovere ogni evidenza contraria.

Puntare l’attenzione sul declino – e in particolare sul declino generalizzato delle competenze linguistiche – per sostenere la nobile causa di creare posti di lavoro per laureati in Lettere classiche appare insomma un’operazione a dir poco azzardata, che rischia di contribuire, più che alla promozione di un pensiero critico che tende a cercare di verificare le fonti e analizzare i problemi tenendo conto della complessità dei fenomeni e del contributo della ricerca scientifica, alla diffusione di bufale e all’inquinamento del discorso pubblico sulla scuola. Un discorso che mai come in questo momento ha bisogno di concetti e di dati che siano in grado di aiutare chi pensa la scuola a uscire da quella sorta di “realismo scolastico” evocato da Raimo, per cui le cose vanno come vanno, e non si riesce a immaginare altri mondi possibili.

Prendendo sul serio l’allarme lanciato da Borgna, che chiede ai riformisti di presidiare il numero di posti disponibili per chi studia Lettere classiche e – con un pizzico di cinismo – di evitare di buttare via il bambino con l’acqua sporca, proviamo a ripartire da quel dibattito così ricco e complesso di stimoli che si sta svolgendo da qualche anno nelle università statunitensi (magistralmente ricostruito nei primi tre capitoli) per capire cosa potrebbe venirne di buono al caso italiano.

Cominciamo dal problema del merito, evocato a pagina 43 da uno dei protagonisti del dibattito, Dan-el Padilla Peralta, professore associato di studi classici all’università di Princeton, il quale mette apertamente in discussione questa categoria che, per quanto venga proposta come criterio oggettivo di selezione dei docenti universitari, sarebbe invece uno strumento che i bianchi usano per discriminare. Il merito accademico, sostiene Padilla Peralta innanzitutto a proposito di sé stesso, non dovrebbe essere separato dal corpo di chi insegna, dalla sua soggettività razziale, perché proprio la sua «afro-latinità» e la sua presenza in quanto nero possono garantire un apporto originale a un campo di studi che ha bisogno di abbattere non tanto le statue, sottolinea opportunamente Borgna, quanto semmai i piedistalli che su cui si appoggiano, che vogliono alimentare l’illusione che la cosiddetta civiltà classica – usata per giustificare politiche imperialiste e suprematiste – sia portatrice di valori universali. E se negli Stati Uniti è in atto un ripensamento dei nomi dei dipartimenti e dei corsi di studio, cercando di dare evidenza al periodo storico e alla specifica area geografica (l’antichità greco-romana dell’area mediterranea, per esempio), in Italia potremmo almeno porci il problema del nome assegnato a un liceo che mette al centro proprio l’idea di «civiltà classica», il cui studio – come si può leggere nel profilo educativo, culturale e professionale dei licei (D.P.R. 89 del 15 marzo 2010), – avrebbe la finalità di favorire «una formazione letteraria, storica e filosofica moderna idonea a comprenderne il ruolo nello sviluppo della civiltà e della tradizione occidentali e nel mondo contemporaneo sotto un profilo simbolico, antropologico e di confronto di valori».

Siamo sicuri che questo nesso tra civiltà classica, cultura umanistica e civiltà e tradizione occidentali sia ancora sostenibile? E non gioverebbe anche in Italia porsi il problema dell’accessibilità dei licei classici ai cittadini non italiani e, in generale, alle persone il cui curriculum scolastico – profondamente influenzato dal retroterra sociale e culturale – fino ad oggi non ha consentito di superare i requisiti richiesti – ma non dichiarati – da quelle scuole? Sarebbe possibile, in Italia, un liceo classico frequentato da coloro che attualmente sono collocati in un Istituto Professionale? E avrebbe qualche possibilità di successo? A quali condizioni? E non si potrebbe cominciare almeno dal primo biennio, che in quanto scuola dell’obbligo dovrebbe essere uguale per tutte e per tutti o, almeno, dovrebbe consentire a ciascuno di transitare liberamente da un indirizzo all’altro e non, come accade nella realtà dei fatti, dai licei ai tecnici e dai tecnici ai professionali, in un tragitto discendente che non conosce se non rarissime possibilità di risalita? Non sarebbe altrimenti più onesto riportare l’obbligo scolastico a 14 anni e inserire un test di selezione per accedere ai “piani alti” dell’istruzione? Non è di fatto quel che già accade, senza che vengano esplicitati i criteri e lasciando la valutazione di ogni singolo caso ai docenti e ai consigli di classe? In questo modo – e sia chiaro che è una provocazione a cui non sento il bisogno di dare seguito – sarebbe almeno possibile discutere con maggiore serenità il problema evidenziato da Padilla Peralta: è giusto e opportuno basare la selezione delle persone sulla base di criteri che escludano il loro corpo, ovvero la loro condizione storica e sociale, il loro essere portatrici di differenze che non sono riscontrabili da un test cognitivo o da un compito in classe? Ma siamo sicuri di voler davvero fondare la scuola democratica sul merito, riscontrato apparentemente in modo oggettivo, attraverso i voti sul rendimento scolastico e sulla condotta, ancora una volta tenendo rigorosamente separati la mente e il corpo e, soprattutto, senza tener conto di interessi e desideri degli individui?

Potremmo, uscendo dalla gabbia di quel realismo scolastico che ci impedisce di immaginare una scuola radicalmente diversa, pensare a una scuola non gerarchicamente ordinata, formata da un ciclo unico in cui le persone si organizzano non tanto in base allo status socio-economico o a quanto sono riusciti a rispondere alle aspettative di docenti e consigli di classe, ma esclusivamente per fasce d’età e per scelta degli stessi studenti, che a mio avviso dovrebbero poter contare anche sull’expertise di studiose e studiosi di lingue antiche soprattutto – come chiaramente spiegato da Maurizio Bettini nel suo A che servono i Greci e i Romani (Einaudi, Torino 2017) – per consentire a ogni nuovo cittadino e cittadina di esercitare la sovranità sul patrimonio culturale, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione (ma questa non è un’ipotesi auspicata da Borgna, che nonostante riconosca il valore educativo della lettura in traduzione della letteratura greca e latina, teme che questa pratica possa contribuire alla perdita di posti di lavoro e di competenze tecnico-professionali utili al futuro della disciplina).

Tornando al problema fondamentale trattato da questo libro così stimolante, ovvero la manutenzione ordinaria e straordinaria dei posti di docente di lingua e letteratura latina e greca, emerge prepotente una necessità che viene appena accennata: l’incremento delle conoscenze e competenze didattiche di chi studia Lettere classiche. Se vogliamo davvero difendere le posizioni acquisite, e se davvero pensiamo che la docenza nella scuola secondaria debba essere il principale impiego destinato alle persone laureate in Lettere classiche (e perché no in Lettere moderne?), allora deve essere chiaro che è sempre più urgente rafforzare la loro preparazione didattica e pedagogica, accompagnata da un lavoro di ricerca che deve integrare gli strumenti e gli approcci della ricerca educativa – anche di quella evidence-based – con quelli più affini agli studi linguistici e letterari, i quali non possono continuare a fare finta che si possano formare insegnanti che non siano in grado di muoversi agevolmente tra i diversi modelli didattici, che non sappiano leggere e interpretare i risultati della pedagogia sperimentale o incapaci di collaborare alla costruzione di un progetto di ricerca interdisciplinare.
Non è solo una questione di responsabilità morale nei confronti degli studenti della scuola secondaria, i convitati di pietra di tutto questo nostro ragionamento: si tratta anche di rendere credibili le nostre perorazioni. Se pensiamo che il fine principale degli studi classici sia mettere sul mercato nuovi insegnanti, è il caso di prendere sul serio la scuola e di dialogare con maggiore apertura e disponibilità all’ascolto di quanto non si sia fatto in passato con quei settori scientifico-disciplinari che ci possono aiutare ad avere sull’insegnamento uno sguardo meno cinico e rassegnato.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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