È vero che psicologi, psicoanalisti e specialisti dell’educazione sono stati i primi a impegnarsi con i bambini. Ancora oggi esercitano una notevole influenza sul modo in cui “l’argomento infanzia” è trattato. Negli ultimi decenni, però, anche l’antropologia, la storia, la sociologia, le scienze politiche e perfino la geografia hanno iniziato a reclamare la legittimità, di un loro specifico punto di vista nello studio dei bambini.
Non a caso sono nati sia un campo di ricerca non disciplinare, i cosiddetti Childhood Studies, sia alcune discipline ibride come la psicologia interculturale o l’antropologia cognitiva.
Ma i bambini studiati dagli psicologi dello sviluppo nei laboratori, quindi in condizioni controllate, sono gli stessi bambini studiati dagli antropologi? E la battaglia portata avanti dagli antropologi per far passare l’idea che non esiste un unico modo di essere bambini, ma piuttosto differenti culture dell’infanzia, come si concilia con gli sforzi dei giuristi di creare norme che proteggano i bambini e che attribuiscano loro diritti universali?
Dagli studiosi radunatisi a Parigi nessuna risposta definitiva, ma molte discussioni interessanti. Particolarmente stimolante è stata quella avviata da Susanna Mantovani, psicologa e pedagogista dell’Università di Milano Bicocca. La studiosa ha puntato l’attenzione sul fatto che proprio l’interdisciplinarietà sia una tendenza spontanea della filosofia dell’educazione. Già John Dewey, filosofo e pedagogista statunitense, la definiva una scienza pratica, un’arte, orientata alla realizzazione di scopi concreti e a produrre cambiamenti.
Per aderire alla sua vocazione pratica, la pedagogia tende naturalmente a collaborare con altre scienze, come la linguistica, l’antropologia e la psicologia, producendo risultati brillanti. È invece quando, ha ricordato Mantovani, assume un complesso di “inferiorità epistemologica” e cerca di sviluppare un linguaggio tecnico autonomo, che essa finisce per perdere di vista il proprio obbiettivo e per produrre un linguaggio confuso e astratto.
Fedele a queste premesse teoriche, la studiosa ha mostrato un filmato di pochi minuti realizzato presso l’asilo nido Bambini Bicocca, che dal 1995 accoglie sia i bambini del quartiere milanese sia i figli dei dipendenti dell’Università. E’ anche un nido sperimentale, poiché seguito dalla Facoltà di Scienze della Formazione, che segue i bambini e li studia nell’ambito di progetti internazionali di ricerca e di formazione.
Uno di questi è Children Crossing Borders, coordinato dall’antropologo J.J.Tobin, che ha come scopo creare momenti di confronto e dialogo sull’educazione e la scuola tra genitori autoctoni e immigrati e tra insegnanti in diverse scuole dell’infanzia di cinque città, Milano, Parigi, Birmingham, Berlino, Phoenix. Usando un approccio denominato “etnografia visuale e multivocale”, il gruppo di studiosi utilizza filmati di bambini all’interno della scuola come stimolo per rispondere ad alcune domande: che cosa pensano i genitori immigrati della scuola dell’infanzia frequentata dai propri figli? Quali idee hanno di scuola, educazione e sviluppo nell’infanzia? Che esperienze vivono nella scuola dell’infanzia i bambini autoctoni e i loro compagni nati da genitori immigrati? E che cosa pensano di queste trasformazioni le insegnanti?
Ogni team locale ha videoregistrato una giornata tipo in una scuola dell’infanzia della propria città (filmando un gruppo di bambini di quattro anni dal momento dell’ingresso a scuola fino all’uscita) e ha poi ridotto il filmato a un format di venti minuti da utilizzare come punto di partenza per la discussione ingruppi di discussione.
Una dinamica simile a quella che si è sviluppata alla conferenza. Il video mostrava un litigio fra due bambini di due anni che si contendevano un giocattolo e l’interazione con l’insegnante intervenuta per sedare il battibecco.
Pragmatica e concreta la domanda che Mantovani ha posto al pubblico di studiosi: cosa ne pensate di questo video? Credete che l’insegnante abbia agito in modo competente?
Altrettanto vivaci le reazioni della platea: molti ricercatori inglesi e americani si sono ad esempio stupiti della vivacità fisica dei bambini filmati, interpretandola come una mancanza di controllo delle emozioni. I ricercatori italiani, al contrario, l’hanno considerata perfettamente adeguata all’età di piccoli. I linguisti si sono invece soffermati sulle interazioni verbali fra maestra e bambini, stupendosi che questa si rivolgesse loro in terza persona (“Pietro ha capito che ha sbagliato, vero?”).
Un confronto fra discipline e culture che ha realizzato in pieno gli intenti teorici della conferenza.