Le pagine di un critico che abbia ininiterrottamente frequentato, nel corso degli anni, un autore, portano con sé sempre echi autobiografici, aprono squarci su una consuetudine che col tempo si è fatta costume, abito, modo d’essere e di pensare. Entro questi termini, la riflessione sulle opere letterarie assume la forma e il valore di una restituzione, di una testimonianza di quanto si è ricevuto (in termini cognitivi, affettivi, etico-politici) e che si intende, con gratitudine, ricambiare.
Non si sottrae a questa legge Luca Lenzini, che in Verso la trasparenza. Studi su Sereni (Macerata, Quodlibet, 2019) raccoglie tre decenni di contributi dedicati allo scrittore lombardo, ossia riepiloga un trentennio della propria vita intellettuale e del proprio impegno di studioso.
Misurare l’intensità dei legami che uniscono Lenzini all’opera di Sereni non è difficile solo che si pensi a chi li ha messi in contatto, ovvero Franco Fortini. Il libro si pone peraltro in esplicita continuità con un lavoro risalente appunto a trent’anni fa, l’antologia sereniana (dallo stesso Lenzini curata e commentata) Il grande amico. Poesie 1935-1981(1990): a conti fatti, sommando i tempi di gestazione delle due opere, si può dire che l’arco temporale che la “lunga fedeltà” disegna coincida quasi per intero con quello della vita intellettuale del critico toscano.
Il libro si articola su due piani tra loro interrelati: uno per così dire orizzontale, propriamente analitico, che lo rende uno strumento prezioso per gli studiosi di poesia; l’altro, verticale (e trasversale), che ne fa un testo utile a chiunque voglia porsi le giuste domande sul fare letteratura oggi. Iniziamo dal primo.
I sette saggi che compongono il volume costituiscono, nel complesso, poco meno che un consuntivo sul poeta di Luino: si va dalle pagine iniziali sul Sereni automobilista (notevole il parallelo con l’Apollinaire de La petite auto, 1913, da Sereni tradotto) al “pascolismo” d’autore (non già un debito diretto, o una riscoperta come fu per Pasolini, quanto un’eco, una reminiscenza di letture giovanili fondamentali per lui come per tanti suoi compagni generazionali).
Segue il capitolo L’incrinatura, vero cuore del volume, che partendo dal Francis Scott Fitzgerald de Il crollo – una raccolta di articoli di sapore autobiografico e corrispondenza curata nel 1945 da Edmund Wilson – riflette sull’esperienza cruciale del biennio di prigionia 1943-45. Quel periodo purgatoriale innesca, nel laboratorio sereniano, una lenta, sofferta ruminazione sulle conseguenze di un atto mancato, il perduto appuntamento con l’agognata (sognata?) occasione di catarsi storico-individuale (la Resistenza). L’eco di ciò che non fu, il canto di sirena d’un possibile futuro represso, continua a propagarsi nei testi in prosa e in versi decennio dopo decennio, praticamente fino alla morte. È questa l’«incrinatura» che il capitolo sviscera, conseguenza del fatto, osserva Lenzini, che «Sereni non accetta la rimozione» (p. 85).
In particolare, lo studioso focalizza l’attenzione sulla sezione aggiunta alla seconda versione del Diario d’Algeria, quel Male d’Africa (1965) cui dedica raffinatissime pagine di commento, capaci di illuminare a fondo ogni piega dell’oscura ellitticità (sintattica, mentale) di quel prismatico edificio poetico. Si tratta di un contributo che, per densità e profondità, credo segni un momento forte, un passaggio significativo nella storia della critica sereniana.
I saggi che seguono attraversano il tema della centralità dell’universo romanzesco, propongono alcune voci per un “lessico” sereniano (abbozzo forse di un “abecedario Sereni”, come quelli che abbiamo per Deleuze, per Sanguineti? Se così fosse, sarebbe auspicabile vederlo incrementato), affrontano il nodo del controverso (ma sempre affettuoso) rapporto con Fortini e la questione dello “stile tardo” di Stella variabile (con particolare riferimento al cruciale poemetto in sette tempi Un posto di vacanza).
Quanto invece alla dimensione verticale che dicevo, ha a che vedere con la filigrana utopica dell’arte di Sereni. Verso la trasparenza è interamente attraversato da una tensione etico-conoscitiva che contesta l’idea, molto diffusa anche nella critica più accreditata, di un Sereni poeta del negativo.
Per Lenzini Sereni è semmai un autore in cui convivono istanze di segno opposto, ma un uomo al fondo convinto che «soltanto a questo prezzo la poesia può assumersi la memoria del passato, cioè in quanto sa nominare e decifrare i segnali di un diverso e inattuato futuro» (p. 87).
Nel suo inesausto progetto di andare verso la trasparenza (qui intesa come stigma dell’autenticità più nuda e urticante) non c’è spazio né per la resa all’«arido vero» né per la fuga nell’evasione: lo sorregge invece una dialettica compresenza di onirismo e ragione che è, al fondo, proiettiva e non regressiva –ciò che del resto caratterizza i portati della miglior lezione surrealista, in Sereni e non solo: pensiamo allo stesso Fortini.
La rêverie, dunque, non espulsa né promossa a sola istanza significante, ma razionalmente significata: Gaston Bachelard si accompagna qui all’Ernst Bloch del sogno a occhi aperti, dell’utopia trasformativa, del “principio speranza” (proprio in questi giorni esce, da Mimesis, il primo volume della nuova edizione del capolavoro di Bloch). È un Sereni blochiano, insomma, quello di Lenzini, e per questo frontalmente contrapposto, per tutto il libro, ai «falsi maestri del disincanto» (p.108) di ieri e di oggi.
L’invito, assolutamente esplicito, è a recuperare la lezione di un autore pacato nei modi ma radicale nelle intenzioni, capace di insegnare, se letto in profondità e con la dovuta attenzione, non già l’accettazione acquiescente di un orizzonte storico immobile, la resa a un inscalfibile grigiore esistenziale (tipici di tanti poeti “serenisti” ma non davvero sereniani), bensì la necessità di un’intransigenza a suo modo oltranzistica.
Nel processare (in tutti i sensi del verbo) il mondo, il poeta non scorderà di mettere sulla bilancia, in primo luogo, sé stesso, in quanto parte, tessera di un mosaico collettivo:
Proprio questa è l’aspirazione intima dell’opera sereniana: entrare, a sua volta, nel repertorio dei luoghi memorabili (sperimentabili, vorrei dir meglio) e pertanto riusabili nell’ambito delle esperienze individuali, lì dove la coscienza del singolo incontra quella di altri, aprendo vie a incontri imprevisti e a congiunture inedite, sempre possibili, quindi anche a un ricominciamento che rinnovi la memoria, aprendola al futuro. È il suo modernissimo modo di essere un classico, in fondo: diventare il segno di una tradizione che getta ponti attraverso il tempo e trasforma il vissuto – con tutto quel che di disperso, irredento, morto ha in sé – in un nuovo organismo vivente, accomunante e capace di nominare il mondo, di dirne l’ora, il colore; di avvisare il morso del tempo e il suo raro schiudersi, illimpidirsi. E cos’è questo, se non il lavoro della poesia, della suapoesia, del suo dimorare in noi? (pp. 117-118).
Lenzini, insomma, inscrive Sereni in una genealogia precisa: quella degli utopisti novecenteschi, facendone uno dei punti di snodo, di collegamento, tra un passato nobile ma che rischia di venire cancellato e un avvenire che non si vede, che ancora manca, ma del quale non possiamo permetterci il lusso di fare a meno. Non prefigurarlo, non desiderarlo, cioè non sperarlo, equivale ad affossarsi nella «morta gora» della rassegnazione. Difficile restituire in modo più netto il senso di un’esperienza etico-poetico-politica.