Nuove Odissee: ritorni impossibili e folli voli

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Nella costellazione delle letture che si possono utilmente comparare all’Odissea e offrire agli studenti per insinuare la “nostalgia di un’assenza” (come scrivevo in un precedente contributo su “altre Odissee”), ci sono in primo luogo le narrazioni che, parallelamente a un movimento fisico dei protagonisti, sviluppano un itinerario evolutivo della loro personalità.
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Claude Lorrain, Ritorno di Odisseo, 1644.

L’Odissea racconta di un viaggio esemplare e fondativo, che non a caso mal si presta a essere inteso come un viaggio reale e attorno al quale si addensano ipotesi interpretative. Abbandonata l’angusta prospettiva odeporica meramente descrittiva, al lettore di ogni tempo offre molta maggior soddisfazione l’interpretazione metaforica delle peripezie di Ulisse, che inaugurano infatti una linea narrativa fecondissima, quella del Bildungsroman, in cui il protagonista è un viaggiatore che, più o meno volontariamente e consapevolmente, tappa dopo tappa, diventa gradualmente «del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore».

Tuttavia, a consentire una persistenza nell’immaginario moderno dell’archetipo odissiaco non è tanto la possibilità del protagonista – e del lettore di ogni tempo insieme a lui – di maturare attraverso il viaggio consapevolezza della condizione umana: piuttosto, oggi Ulisse è «vero, umano, fervido, intimo e misterioso» – rubando la serie di aggettivi al Werther di Goethe – perché, nonostante si allontani dal noto e navighi fra le difficoltà e gli ostacoli della vita, non può comunque raggiungere la completa conoscenza del mondo e affermare la propria forza. In questo sta la sua modernità: insegue in luoghi più immaginati che reali la conoscenza di sé e ottiene la consapevolezza della propria fragilità e dei propri limiti. È questa ricerca collaterale, ma fondamentale che rende il ritorno di Ulisse impossibile, che gli impedisce di invecchiare nella terra riconquistata e lo induce a intraprendere il «folle volo», come lo definisce Dante.

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Gustave Doré, Canto XXVI, Virgilio mostra a Dante le fiammelle dei consiglieri fraudolenti.

Su questi due temi – il ritorno impossibile e il folle volo – ho pensato di concentrare l’attenzione delle mie classi e di attivare quello che Aidan Chambers chiama il reading circle, il circolo della lettura, in tutte le sue fasi.

Il ritorno impossibile

Il ritorno in patria dei guerrieri achei – reduci, ancorché vittoriosi, da un’estenuante, lunghissima guerra sotto le mura di Troia – è stato oggetto di numerosi poemi greci, per noi perduti con una sola eccezione: il nóstos di Ulisse, l’Odissea appunto, che è divenuta racconto che sta alle origini del canone occidentale. All’Odissea si associa in primo luogo l’idea del viaggio avventuroso verso il porto agognato, metafora della vita spesa alla rincorsa di rassicuranti traguardi, ma oltre alla tensione verso la meta c’è molto altro. Una parte rilevante del poema, infatti, è dedicata alle traversie che impediscono all’eroe che ha tanto sofferto, secondo l’epiteto omerico consueto, di smettere di soffrire dopo che, nel tredicesimo di ventiquattro libri, ha raggiunto la patria. Ulisse, come tutti coloro che ritornano, deve fare i conti con una realtà mutata, e per ristabilire l’ordine consueto non esita a spargere sangue.

Se a Itaca si consuma la strage dei Proci, anche il ritorno di altri reduci da Troia, di Agamennone ad esempio, ha avuto una connotazione dolorosa e cruenta, come ben documentato dalla produzione tragica. Nella ricerca delle modalità di dialogo di un testo classico per antonomasia come l’Odissea con la letteratura contemporanea, nell’approccio comparatistico che purtroppo non sempre trova spazio nella aule scolastiche, la pista del difficile ritorno è particolarmente produttiva: non solo permette di individuare, attraverso gli scarti fra l’opera classica e le sue copie successive, le differenze di epoca e di cultura e, nel gioco di distanze e rispecchiamenti, di illuminare aspetti del poema che nessuna lettura precedente aveva considerato valorizzando le capacità ermeneutiche degli studenti, ma soprattutto offre una possibilità ai giovani lettori di «essere sempre più intelligenti, sensibili e moralmente forti», come sosteneva Calvino quando pensava alla «letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile».

Le nuove poetiche del ritorno

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John William Waterhouse, Circe offre la coppa a Ulisse, 1891.

Il catalogo dei nuovi nóstoi è davvero ricco e variegato. Se nel secondo dopoguerra Pavese con La luna e i falò, Levi con La tregua e Morante con Aracoeli – quest’ultima opera di complessità straordinaria – rimangono riferimenti altissimi, ma non sempre di facile lettura per i nostri studenti che vanno accompagnati passo a passo, oltre il canone e dentro la realtà, fra i libri più recenti, non mancano poetiche del ritorno accessibili anche per i lettori meno avvertiti, anzi: si può osservare come tali narrazioni abbiano prepotentemente preso campo nel nostro tempo in cui non solo le migrazioni di massa costantemente poste sotto i riflettori, ma anche il nostro vissuto di viaggi, relazioni, esperienze dirette impongono un ripensamento continuo delle identità individuali e collettive in relazione ai luoghi che frequentiamo e in cui torniamo.

Il ritorno impossibile (2012) è un romanzo autobiografico di Marisa Fenoglio, sorella di Beppe: trasferitasi dal Piemonte in Germania negli anni Cinquanta al seguito del marito, dirigente d’azienda e protagonista di una brillante carriera, testimonia tuttavia che migrare, anche se non si provano stenti e sofferenze legate alla sopravvivenza fisica, espone a una situazione di disagio, di perdita che la possibilità di ritornare nei luoghi d’origine non può medicare. Per restare nell’ambito del rientro dalla Germania di migranti italiani, segnalo fra i romanzi di Carmine Abate La festa del ritorno (2004) e il recentissimo Migrante per sempre (2019) di Chiara Ingrao; non è semplice nemmeno tornare dalla Svizzera, come mostra Ternitti di Mario Desiati, o dagli Stati Uniti, come raccontano ad esempio Vita (2003) di Melania Mazzucco o Destino (2018) di Raffaella Romagnolo.
Ma non è indolore nemmeno il ritorno dopo un’esperienza di migrazione interna, fenomeno che continua a caratterizzare il nostro Paese: Il figlio del figlio (2010) di Marco Balzano e Addio fantasmi (2018) di Nadia Terranova ne argomentano per via narrativa in modo assai convincente. E se solo spostiamo un po’ lo sguardo, ci accorgiamo che non si tratta di una questione tutta italiana, di attaccamento al suolo natìo tipica di chi nasce nel Bel Paese. Vado un po’ a memoria, scegliendo “fior da fiore” alcune delle letture che ho apprezzato negli ultimi anni incentrate sul tema del ritorno: L’omonimo (2003) di Jumpha Lahiri, La bellezza delle cose fragili (2013) di Taye Selasi, Il tuo nome è una promessa (2017) di Anilda Ibrahimi, L’arte di perdere (2018) di Alice Zeniter.

Annoto, senza avere qui il tempo per approfondire, la netta prevalenza di scritture femminili e di esperienze spesso autobiografiche di sradicamento come spinta alla scrittura “che cura e che resiste” in questo arbitrario elenco di letture che proporrò ai miei studenti: fra esse ciascuno farà la propria scelta, ma mi riservo invece di indicare una lettura comune.

Vita di vita: un romanzo di Eraldo Affinati

Il libro di Eraldo Affinati Vita di vita (2014) narra un viaggio in Gambia fatto dall’autore per raggiungere Khaliq, un ex studente della Città dei Ragazzi di Roma che si è ricongiunto alla madre che aveva lasciato bambino per raggiungere l’Europa con un viaggio terribile: di questo viaggio sono lasciate all’immaginazione del lettore quelle esperienze estreme che la reticenza e la delicatezza dello scrittore impediscono di fissare sulla pagina. Un’opera ibrida, di impianto autofinzionale secondo una formula congeniale all’autore: Affinati è, infatti, testimone del ritorno alle proprie radici di Khaliq (che lo chiama, storpiandone la qualifica, «porof»), similmente a quanto già accadeva ne La città dei ragazzi (2008), dove a ritornare, sempre scortati dal loro insegnante, erano gli alunni marocchini Omar e Faris.
I motivi di interesse che si addensano attorno a questo oggetto narrativo, singolare per impianto strutturale, impasto linguistico e accostamento di temi, sono molti, ma mantenendo il focus sul ritorno si evince che se da un lato il recupero delle radici è necessario ed è un balsamo per affrontare le nuove sfide della vita, dall’altro non è un ripiegamento perché è possibile “vivere per addizione”, per usare una formula cara allo scrittore migrante Carmine Abate: riconciliarsi con i luoghi e le persone del passato rende possibile la prosecuzione del viaggio della vita che scorre. Questo libro mostra, insomma, come le due metaforiche identitarie delle radici e del fiume, di cui ha trattato a più riprese Maurizio Bettini in termini di opposizione, possano invece stare insieme.

Come scrive Claudio Magris, nella Prefazione de L’infinito viaggiare: «si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se a una casa molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria. Ulisse torna a Itaca, ma Itaca non sarebbe tale se egli non l’avesse abbandonata […] per poterla ritrovare con maggiore autenticità».

Variazioni sul mito: il folle volo

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John Henry Fussli, Tiresia predice il futuro a Odisseo, 1780-85.

Andando oltre il racconto che ci ha consegna il cieco vate, anche quando apparentemente viene ristabilito l’ordine a Itaca, la vita di Ulisse è tuttavia avara di soddisfazioni, perché l’inquietudine non dà tregua al re di Itaca. Trova così adempimento l’oscura profezia dell’indovino Tiresia, formulata sulla soglia dell’Oltretomba (Odissea XI, vv. 90-137), che non riguarda solo, nel futuro immediato, il rientro faticoso dell’eroe nella terra natia, ma anche una nuova, successiva partenza che nessun poeta antico a noi noto ha cantato. I racconti del “folle volo” sono destinati in verità a offuscare l’immagine dell’Ulisse omerico: se il protagonista dell’Odissea è l’eroe del ritorno, che respinge l’ignoto che minaccia le sue certezze, lo affronta soffrendo perché obbligato o, come nel caso delle Sirene, vi si accosta con tutte le cautele del caso, l’Ulisse del XXVI canto dell’Inferno dantesco si trasforma nell’eroe della partenza, che non esita a prendere nuovamente il mare verso l’ignoto.
Si è consumata una frattura epocale fra l’uomo antico, dall’orizzonte simbolicamente chiuso, che compie un viaggio circolare e aspira a tornare al punto di partenza, e quello moderno, davanti al quale si aprono spazi sconfinati, simbolo di precarietà e di incertezza, che lo condannano a traiettorie lineari, di fuga o di esplorazione, di ricerca continua più che di conferma: evidenzia questo concetto Claudio Magris nel saggio Itaca e oltre.

Metamorfosi letterarie collaudate

Per chi volesse condurre una ricognizione sistematica delle fortune dell’Ulisse extraomerico nei mari della letteratura, soccorrono il repertorio di testi curato da Maria Grazia Ciani dal titolo Il volo di Ulisse (Marsilio, Venezia 2014, nella collana “Variazioni sul mito”) e i corposi contributi di Piero Boitani (ad esempio: Il grande racconto di Ulisse, il Mulino, Bologna 2016).
Agli studenti capiterà sicuramente di incontrare testi in cui il personaggio mitico subisce metamorfosi letterarie: per restare ai canonici, oltre a Dante, Pascoli, Saba, Primo Levi sono tappe obbligate nel percorso della letteratura italiana; anche Joyce, Conrad, Eliot difficilmente possono essere ignorati. Ma accanto a quelle rivisitazioni straordinarie, questo nostro tempo segnala alcuni accostamenti urgenti che è difficile tenere fuori dalle aule.

La fine dei viaggi

Nel nostro mondo le occasioni di viaggio si sono moltiplicate fino a portare a una saturazione, a una banalizzazione dell’esperienza, che ha nelle forme del turismo di massa l’aspetto più vistoso. Limitata è la possibilità che un pacchetto turistico, con un itinerario prestabilito nei luoghi e nei tempi, in cui l’imprevisto e la deroga dal programma sono considerati un fallimento, possa modificare nel profondo la visione del mondo e soprattutto l’identità del viaggiatore.
«Viaggi, scrigni magici pieni di promesse fantastiche, non offrirete più intatti i vostri tesori», scriveva già nel 1950 Claude Lévi Strauss in pagine memorabili di Tristi tropici, in cui veniva denunciato come irrimediabilmente compromesso “il silenzio dei mari”.
Le pagine corrosive di David Foster Wallace che si leggono nel volume Una cosa divertente che non farò mai più (1997) – il reportage narrativo di una crociera di lusso nei mari tropicali – restituiscono un’idea di viaggio che non potrebbe essere più lontana da quella dell’Ulisse omerico o dantesco e segnalano che per l’uomo, ma anche per lo scrittore del nuovo millennio certe rotte ampiamente battute sono divenute poco praticabili.
Il territorio poco esplorato didatticamente, che tuttavia può agevolmente insinuarsi fra i banchi su cui aleggia ingombrante l’ombra di Ulisse in modo nuovo e inedito, è quello della narrativa più recente. Proporre letture dell’estremo contemporaneo e farle reagire da una parte con la tradizione di un linguaggio specifico, ricco per antonomasia e polisemico per statuto come quello della letteratura da una parte e, dall’altra, con le istanze della realtà circostante è fondamentale per la sopravvivenza di una risorsa preziosa per la conoscenza del mondo nella sua complessità: il sapere umanistico.

L’ultima eredità di Ulisse

Tra i luoghi comuni degli ultimi anni c’è l’abitudine di riferirsi alla tragedia dei migranti utilizzando il termine “odissea” o chiamando in causa l’eroe omerico; si tratta di una prassi forse discutibile, ma di sicuro effetto mediatico. Due casi: Gian Antonio Stella, proseguendo un’inchiesta cominciata nel 2002 con il libro L’orda (con l’eloquente sottotitolo: Quando gli albanesi eravamo noi), pubblica un secondo lavoro dal titolo Odissee: italiani sulle rotte del sogno e del dolore (2004),in cui tante storie di connazionali in viaggio sulle rotte dell’Atlantico sono portate a galla, scongiurando il naufragio della memoria e facendo affiorare un quadro storico forse scomodo, quello dell’emigrazione degli italiani, ma con il quale è molto utile confrontarsi. Il secondo caso è invece un romanzo: Ulisse da Baghdad (2008) di Eric-Emmanuel Schmitt racconta il viaggio – meta Londra, via Lampedusa – di un giovane iracheno, Saad Saad, che già nel nome (in arabo significa “speranza”, mentre in inglese suona “triste”) porta il segno della sua fortuna, inteso alla latina come vox media aperta a possibili esiti felici o catastrofici.

Poiché ho già abusato della pazienza di chi legge, tralascerò le indicazioni bibliografiche relative a Bildungsroman costruiti intorno a singole esperienze di migrazione: le ritengo in verità superflue, perché a tutti i colleghi ben note e magari già ampiamente collaudate. Ma a margine di queste “nuove Odissee”, che dimostrano come l’Ulisse odierno non assomigli affatto all’Ulisse omerico proteso verso la sua Itaca, quanto a quello dantesco lanciato verso l’ignoto, varrà tuttavia la pena di sottolineare che oggi sempre più spesso Ulisse non sceglie di lasciare le accoglienti stanze di una reggia per ansia conoscitiva o per una sottile inquietudine interiore: Ulisse, tormentato da una precarietà cogente, fugge un disagio assai concreto, la sua compagnia, fatta di «frati… giunti a l’occidente» è divenuta alquanto numerosa e «per seguir virtute e canoscenza» dovrà attendere tempi migliori.

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Claudia Mizzotti

Già bibliotecaria, insegnante di Lettere italiane e latine nel liceo e formatrice, è autrice Loescher di un manuale di storia.

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