In una tranquilla e fascinosa zona di Parigi, la Butte aux Cailles, tra deliziosi ristorantini etnici e splendidi esempi di edilizia popolare primonovecentesca, si trova la sede di una associazione, “Les Amis de la Commune de Paris”, impegnata a tener vivo il ricordo di una delle più drammatiche e fondative esperienze della modernità, ossia la Comune di Parigi (1871). Al numero 46 di Rue des cinq Diamants, lì dove “Les Amis” custodiscono la targa che celebra gli ultimi comunardi fucilati (quella che si vede al Père-Lachaise, dicono, è una copia), si vende per pochi euro una t-shirt al cui centro campeggia il titolo di una fortunata canzone comunarda, Le temps des cerises, sovrastante il disegno di una coppia di ciliegie su fondo nero.
Come capita spesso con gli oggetti più quotidiani, si tratta di un’immagine di straordinaria pregnanza: i due frutti d’un rosso acceso evocano immediatamente la dolcezza primaverile, gli zefiri che soffiano spirito libertario (facendo riaffiorare i venti dell”89, i venti del ’48…), la fioritura dei sensi e dello spirito, insomma il tempo gioioso e idilliaco della Rivoluzione goduto in tutto il suo caduco splendore. Il nero dello sfondo rammenta invece la violenza della repressione, giunta al suo apice nella cosiddetta semaine sanglante (21-28 maggio), quando le forze della restaurazione si incaricano di recidere violentemente, e alla base del fusto, la pianta della rivolta. La grande utopia e insieme la grande mattanza, insomma, come due facce d’una stessa medaglia che chiamiamo la Comune.
A questo trauma sanguinoso dell’Europa moderna, e allo stesso tempo al suo ri-germogliare in infinite, imprevedibili configurazioni, Luciano Curreri dedica ora un agile e appassionato volumetto intitolato La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? Briciole di immagini e di idee per un ritorno della Commune de Paris (1871) (Quodlibet, Macerata 2018).
Si tratta di un libro insieme colto e militante, il cui autore veste liberamente e con una punta di giocosa spregiudicatezza i panni dello storico-rigattiere, dell’archeologo-trovarobe di benjaminiana memoria, capace di aggregare, in libertà di lettura, saperi e idee secondo percorsi rapsodici e non convenzionali, muovendosi di taglio rispetto alle linee ortogonali della storia (letteraria e non solo) per scardinare idées reçues e regimi di verità acquisiti.
Indizi, tracce, documenti, suggestioni, testimonianze e giudizi, insomma materiali della più disparata provenienza (dalla storia alla letteratura, dal cinema al fumetto) sono chiamati in causa non solo per riflettere sull’accaduto, che pure Curreri mostra di conoscere perfettamente e su cui scrive pagine molto belle, peraltro senza tacere i limiti di quell’esperienza e le ragioni del suo fallimento, ma per porre l’accento sul non-accaduto, sulle fila mai riprese, sulla lezione mancata.
Ne scaturisce l’ipotesi di una “Comune permanente”, eterna e molteplice, «sempre pronta a risorgere dalle sue ceneri, alla stregua di una fenice sgangherata e spennacchiata» (p. 57), la cui aura si propaga avanti e indietro nel tempo, divenendo di fatto categoria transtemporale, manifestazione feconda d’avvenire. Una “lunga durata” di cui rendono testimonianza storica alcuni esemplari episodi anticipatori – la più suggestiva delle varie proto-Comuni avvicendatesi nella realtà e nell’immaginario culturale è forse la Cour des miracles di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo (1831) – così come eventi successivi al fatidico 1871 (le post-Comuni carsicamente riemerse nei luoghi e nei tempi più impensati, come ad esempio le TAZ, le Temporary Autonomous Zones teorizzate dal filosofo anarchico americano Hakim Bey nel 1991).
Ma una “lunga durata” che è soprattutto concettuale, politico-filosofica, perché la Comune non è solo un evento concluso, è una costellazione di slanci, utopie, errori, credenze e speranze, è una galassia in costante espansione. Insomma, quello straordinario laboratorio di realtà collettivamente sperimentata e condivisa che i parigini (e con loro genti di ogni provenienza) installarono nel cuore dell’Europa centocinquanta anni fa si rivela a guardarlo da vicino, con lo spirito libero e combinatorio dello storico-rigattiere, dell’archeologo-trovarobe, un fascio di senso le cui implicazioni, tanto semplici e persino ovvie quanto radicali, restano ancora tutte da ripensare.
Il rosso delle ciliegie e il nero della mattanza, si è detto. Ecco, se quella mattanza del 1871 è divenuta, scrive Curreri, «una specie d’inaugurale lutto europeo della sinistra» (p. 68), una leggenda negativa e malinconica in cui molte sciagure del “secolo breve”, a partire dalla guerra civile spagnola, si sono rispecchiate, tragicamente e sovente con esiti paralizzanti, d’altro canto però il nucleo profondo della “galassia Comune” è un dato reattivo e proiettivo che ci riguarda e che non smette di parlarci. Ed è da qui che occorre ripartire.
La Comune dev’essere dunque ripensata al di là di se stessa e della sua meteorica apparizione nei cieli d’Europa: quel che conta è, appunto, la “Comune permanente”, da intendersi come spazio ibrido nel quale sperimentare nuove forme di aggregazione sociale e un’idea diversa di cittadinanza fondata su legami aperti e inattesi, su un pensiero plurale e dialettico, su un’organizzazione del territorio e delle pratiche non oppressiva, su una prospettiva convintamente internazionalista (la grande utopia degli Stati Uniti d’Europa, più volte evocata da Curreri).
Da questa visione d’una Comune che ritorna all’etimo – Comune ovvero “fare comunità” sulla base di quelle che colloquialmente si chiamano le “cose in comune” – ciò che esce ridefinita è soprattutto un’idea oggi diventata o un tabù o un’ossessione reazionaria: l’idea di popolo. E infatti tra le proposte più interessanti, e attuali, che il volume avanza, c’è quella di rivedere, proprio sulla scorta dei fatti del 1871, tale nozione, svincolandola dalle sue accezioni generiche e ambigue, quelle che meno offrono resistenza alle più corrive pratiche di opportunismo politico e demagogia manipolatoria.
La Comune, spiega Curreri, fu anche questo: «un tentativo nobilissimo di riconoscere la specifica terrestrità e la finitudine dell’individualità umana del popolo (contro l’astratta espressione di sempre)» (p. 62). Sul nero del popolo-bue, del popolo-squartato, del popolo ridotto ad aggregato di omologhi, far emergere il rosso del popolo-ciliegia, del popolo in festa, del popolo comunità di eguali.