Oltre gli orsi polari

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Le ricerche sperimentali sull’efficacia dell’educazione scolastica sui temi ambientali producono esiti sconfortanti. Meglio forse uscire dalle classi, come suggerisce la outdoor education. L’articolo di apertura del dossier del numero 16 de «La ricerca», “Pianeta Scuola».
© Donata Cucchi, Sandwich Harbour, Namibia. 2009, «The Ocean», dal progetto “MariAperti”

Se si tiene conto dell’enorme quantità di documentazione sui rischi del cambiamento climatico prodotta negli ultimi anni, i risultati, in termini di consapevolezza e impegno, non sono incoraggianti, o comunque non sembrano oggi in grado di invertire la rotta apparentemente ineluttabile. Bisogna forse ripensare al modo in cui il problema viene affrontato, sia nelle aule scolastiche sia fuori da esse, e possibilmente trovare metodi capaci di superare la frattura fra scuola e società, tra insegnamento e impegno, fra consapevolezza e azione, come ha recentemente mostrato l’esempio di Greta Thunberg.

Un buono spunto per affrontare la questione sta nel concetto di frame elaborato nel 1974 da Erving Goffman (Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza). Il frame è la cornice, l’ambito in cui si inquadrano i discorsi e se ne valorizzano le valenze principali: per dirla con le parole del sociologo canadese, è «il modo in cui si arriva a definire una situazione, elaborandola in base sia al principio fondamentale con cui si considerano gli eventi, per lo meno quelli sociali, sia al nostro coinvolgimento soggettivo in essi». Dal 1974, il concetto di frame ha influenzato la teoria e le metodologie di ricerca nello studio dei mass media, dei movimenti sociali e della comunicazione politica. Poco però quelli della scuola, mentre invece molti studi sperimentali mostrano che il framing dei temi connessi al cambiamento climatico influisce in modo decisivo sulla percezione di questi temi da parte degli studenti e sul loro impegno in azioni virtuose verso l’ambiente.

Gli effetti dell’obiettività

Boykoff (2007) ha utilizzato il concetto di frame per analizzare come i mass media affrontano il tema climatico. Ha campionato 286 segmenti informativi trasmessi dal 1995 al 2006 dalle televisioni americane, scelti fra spettacoli caratterizzati da grande visibilità e influenza. Li ha poi analizzati per determinare il livello di incertezza che mostravano sull’idea che i cambiamenti climatici siano causati dall’uomo, arrivando alla conclusione che l’idea oggi prevalente nel pubblico americano, che cioè si tratti di temi molto controversi, sia proprio il risultato del modo televisivo di inquadrare le notizie. Conta, in particolare, il frame dell’equilibrio imposto dalla professionalità giornalistica, specialmente nell’ambiente anglosassone. È la norma che prescrive di presentare in modo equo tutte le interpretazioni di una questione. Un atteggiamento che, applicato ai problemi ecologici, determina nel pubblico l’impressione che la comunità scientifica sia molto divisa a riguardo.

I rischi e i pericoli di questo atteggiamento, una volta introdotto in classe, sono approfonditi nell’articolo di questo Dossier che analizza quanto oggi per gli insegnanti americani sia difficile spiegare il cambiamento climatico in classe (Quando gli argomenti scottano, a p. 46).

I frame nell’insegnamento 

In un interessante articolo, Busch (2015) esamina alcuni frame molto usati nell’insegnamento scolastico dei problemi ecologici.

Vi sono prima di tutto i frame di attribuzione: quelli che puntano ad assegnare le responsabilità, a stabilire chi o cosa abbia colpa dei disastri ecologici. La ratio è che se le persone devono impegnarsi in attività ambientaliste, allora devono convincersi che i cambiamenti climatici sono imputabili all’essere umano. Potrebbe essere una strategia efficace; tuttavia altre ricerche dimostrano che diventa molto complicata quando si tratta di applicarla alla ripartizione delle le responsabilità fra i Paesi che più inquinano il pianeta. Ad esempio, Jang (2013) ha condotto un esperimento con cittadini americani: a un gruppo ha letto un testo che attribuiva i cambiamenti climatici all’uso eccessivo di combustibili fossili da parte degli americani, mentre a un altro ha proposto un testo che attribuiva la stessa colpa ai cinesi. Ha scoperto che i soggetti del primo gruppo erano più propensi a interpretare i cambiamenti climatici come effetto di processi naturali, meno preoccupati per il futuro e meno attivi nel pretendere politiche adeguate alla sfida ecologica. 

Vi sono poi i frame di valenza, usati per ritrarre i cambiamenti climatici in modo positivo o negativo, influendo direttamente sulle emozioni degli studenti. Anche questa strategia può condurre a risultati, tuttavia da alcune ricerche risulta che troppa paura può essere controproducente. Feinberg (2011) ha condotto un studio sperimentale per misurare l’effetto di un inquadramento angosciante o ottimistico del cambiamento climatico sul livello di scetticismo delle persone e sulla loro volontà di ridurre concretamente il loro impatto ambientale. I soggetti a cui ha sottoposto il messaggio negativo mostravano maggior scetticismo sul futuro, mentre quelli a cui era mostrato il messaggio positivo sembravano ridimensionare il loro scetticismo iniziale.

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© Donata Cucchi, Casalecchio di Reno (BO), 2017 «Castore», dal progetto Le Metamorfosi.

Un terzo frame applicato nell’insegnamento è quello spaziale, che enfatizza quando possono essere vicini (o distanti) gli effetti del cambiamento climatico. La logica è quella di far leva sul naturale attaccamento delle persone al luogo in cui sono nate e vivono, facendo notare come i cambiamenti climatici, se pure si svolgono in una dimensione globale, abbiano anche un effetto locale, per lo meno potenziale. Vi sono però, in questa strategia, effetti indesiderati. Scannell (2012) ha scoperto che l’efficacia del frame locale dipende strettamente dal livello di attaccamento al luogo, e nelle situazioni sociali più degradate, dove esso è minore mentre maggiore dovrebbe essere l’impegno ecologico, il frame locale è poco efficace. E Spence (2010) aggiunge che rappresentare i cambiamenti climatici come una minaccia lontana determina una maggior percezione della gravità del fenomeno.

Il quarto gruppo è quello dei frame temporali, che rappresentano il cambiamento climatico come un fenomeno in corso oppure qualcosa che si verificherà in futuro. Dal momento che le persone tendono a minimizzare la portata degli eventi futuri, un frame che si basa su ciò che deve ancora avvenire dovrebbe generare inerzia o un approccio attendista. Quindi, secondo la logica, per stimolare azioni eco-sostenibili ora, bisognerebbe inquadrare il cambiamento climatico come un evento in corso, e non descriverlo come un avvenimento che influenzerà la vita dei nostri figli o nipoti. 

Queste ipotesi sono state sottoposte a verifica da Rabinovich (2010). Il ricercatore ha confrontato l’effetto della cornice temporale sull’intenzione di intraprendere azioni eco-sostenibili. Ha chiesto ad alcuni studenti universitari del Regno Unito di leggere una pagina web che illustrava gli effetti sull’ambiente di due progetti di eco-sostenibilità, uno a breve termine (1 mese) e uno a lungo termine (10 anni). I partecipanti si sono detti più propensi a collaborare con quello progettato a lungo termine.  Rabinovich ha concluso che generare benefici in un futuro lontano era per loro più motivante che ottenere effetti immediati. 

Vi sono infine i frame di impatto, che definiscono chi o cosa sarà interessato dagli effetti del cambiamento climatico. Busch (2015) ne ha esaminato l’effetto analizzando le reazioni di un gruppo di studenti di fronte a un frame centrato sulla fauna selvatica e a un altro focalizzato sull’uomo. Ha presentato loro due immagini tratte da un opuscolo del WWF. La prima, un oceano in tempesta in cui nuotava un orso in evidente difficoltà, aveva questa didascalia: «Gli orsi polari sono costretti a nuotare per distanze più grandi del passato, dal momento che ora i ghiacci si stanno sciogliendo». L’altra, sotto il titolo «Persone a rischio», mostrava una madre indiana con in braccio un bambino malnutrito di fronte a una casa di paglia distrutta:  «Negli ultimi anni ho perso il mio raccolto quasi cinque volte», spiegava la didascalia. Ebbene, la sua ricerca, assieme a quella di O’Neill (2009), ha concluso che le immagini di bambini affamati sono molto più rilevanti di quelle degli orsi polari. O’Neill, tuttavia, approfondendo la questione con interviste e focus group, ha inaspettatamente scoperto che sia le immagini degli orsi polari in difficoltà sia dei bambini affamati in Paesi lontani diminuivano la sensazione di poter fare qualcosa per l’ambiente, che invece risultava maggiore prendendo in considerazione oggetti domestici, come la possibilità di usare lampadine e termostati a basso consumo.

La outdoor education

Non c’è da stare allegri. Questa rassegna suggerisce che, comunque declinato, l’insegnamento tradizionale, frontale e nozionistico, non è all’altezza della sfida lanciata da Greta. Come sostiene Richard Louv (in L’ultimo bambino dei boschi. Come riavvicinare i nostri figli alla natura, Rizzoli, Milano 2006), specialmente negli USA esso soffre di un deficit di natura. Per questo, nel resto del dossier, diamo conto di un’impostazione sempre più popolare fra gli educatori, che applica un approccio esperienziale all’educazione ambientale: la outdoor education, una vasta area di pratiche educative accomunate dal pensare alla natura come qualcosa da vivere e non da apprendere.


Per approfondire

  • M. T. Boykoff, From convergence to contention: United States mass media representations of anthropogenic climate change science, in «Transactions of the Institute of British Geographers», 32(4), pp. 477–489, 2007.
  • K. C. Busch, Polar Bears or People? ExploringWays in Which Teachers Frame Climate Change in the Classroom, in «International Journal of Science Education», Part B, 2015. 
  • M. Feinberg, R. Willer, Apocalypse soon? Dire messages reduce belief in global warming by contradicting just-world beliefs, in «Psychological Science», 22(1), pp. 34–38, 2011.
  • S. M. Jang, Framing responsibility in climate change discourse: Ethnocentric attribution bias, perceived causes, and policy attitudes, in «Journal of Environmental Psychology,» 36, pp. 27–36, 2013.
  • S. O’Neill, S. Nicholson-Cole, “Fear won’t do it”: Promoting positive engagement with climate change through visual and iconic representations, in «Science Communication», 30(3), pp. 355–379, 2009.
  • A. Rabinovich, T. Morton, T. Postmes, Time perspective and attitude-behaviour consistency in future-oriented behaviours, in «British Journal of Social Psychology», 49(1), pp. 69–89, 2010.
  • L. Scannell, R. Gifford, Personally relevant climate change: The role of place attachment and local versus global message framing in engagement, in «Environment and Behavior,» 45(1), pp. 60–85, 2012.
  • A. Spence, N. Pidgeon, Framing and communicating climate change: The effects of distance and outcome frame manipulations, in «Global Environmental Change», 20(4), pp. 656–667, 2010.
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Francesca Nicola

Dottoressa in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

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