Il romanzo global. Uno studio narratologico di Filippo Pennacchio (Milano, Biblion, 2018) propone una lettura comparata di sei romanzi apparsi nel decennio 1996-2006, un arco di tempo durante il quale la letteratura occidentale ha assistito a un cambio di paradigma estremamente significativo dovuto alla “globalizzazione” di molte dinamiche interne al mercato editoriale oltre che all’avvento di nuovi processi culturali e sociali legati alla digitalizzazione e virtualizzazione dei sistemi comunicativi.
I sei romanzi in questione sono Les Bienveillantes (Le Benevole) di Jonathan Littell, The Corrections (Le correzioni) di Jonathan Franzen, Les Particules élémentaires (Le particelle elementari) di Michel Houellebecq, 2666 di Roberto Bolaño, Disgrace (Vergogna) di J. M. Coetzee, Infinite Jest di David Foster Wallace e sono stati scelti da Pennacchio sulla base di alcuni criteri distintivi, sia di tipo quantitativo che qualitativo. Si tratta infatti di opere tradotte in tutte le lingue veicolari e che hanno goduto di un buon successo editoriale pur non essendo best seller “ad alta leggibilità”, ossia concepite solo per il mercato.
Inoltre questi sei romanzi sono stati letti, dibattuti e analizzati da ampi settori della critica internazionale, anche in ragione del fatto che dimostrano un certo tasso di elaborazione formale oltre che un alto grado di originalità nei contenuti e nelle tecniche narrative.
Il volume, apprezzabile sia per la limpida architettura concettuale sia per la finezza della scrittura critica, è aperto da un capitolo di taglio teorico in cui Pennacchio riprende i termini del dibattito corrente sulla globalizzazione della forma romanzo al fine di riflettere, a partire da alcuni influenti contributi teorici (Damrosch, Casanova, Calabrese, Moretti tra gli altri), sull’esistenza stessa di un canone transnazionale e sui diversi significati attribuibili ai concetti di letteratura mondiale, globale, planetaria.
In modo equilibrato e convincente lo studioso evidenzia ragioni e limiti del dibattito corrente sui rapporti tra letteratura e globalizzazione, ricordando sulla scorta di Damrosch come i romanzi che compongono il mosaico complessivo della letteratura mondiale siano sempre il frutto di un dialogo, di una negoziazione costante tra più impulsi (tematici, stilistici ecc.), un gioco di spinte che non solo influenza la natura dei testi ma allo stesso tempo modifica anche l’orizzonte intellettuale e percettivo di chi quei testi legge e interpreta.
A queste pagine introduttive seguono sei capitoli dedicati ai singoli romanzi del “microcanone globale” individuato da Pennacchio. I già citati lavori di Littell, Franzen, Houellebecq, Bolaño, Coetzee e Foster Wallace sono sottoposti a una penetrante indagine che si serve principalmente, ma non solo, degli strumenti dell’analisi narratologica (sia quella classica, novecentesca, sia quella più recente, ivi compresi i contributi delle scienze cognitive). Intelligentemente l’autore fa ricorso a un doppio dispositivo di lettura, opportunamente incrociato: un close reading che lavora su singole porzioni testuali – un’attenzione per lo specifico formale desumibile da brani esemplari in cui ancora agisce, e vorrei dire per fortuna, la grande lezione di Auerbach, dei formalisti, della migliore critica stilistica novecentesca – coniugato però con un distant reading che, sulla scorta delle idee di Franco Moretti circa la necessità di indagare comparativamente le morfologie letterarie, consente di mettere il romanzo in prospettiva, così da evidenziare alcune costanti di fondo.
Grazie a questo equilibrato alternarsi, in sede critica, di zoom e panoramiche, Pennacchio può evidenziare l’esistenza di peculiari marche d’autore (l’analessi in Franzen, il sommario in Bolaño, il presente “mediatizzato” in Coetzee, per citare alcuni esempi) ma anche di riprese, configurazioni ricorrenti e talora unificanti.
Vorrei sottolineare almeno tre elementi decisivi che emergono da questa indagine. Il primo rinvia alle molteplici, e spesso ambigue, configurazioni attuali del patto narrativo istituito dai singoli romanzi (in che modo è coinvolto il lettore? Come il testo cerca di orientare l’atto di lettura? E, al contempo, qual è il grado di “affidabilità” del narratore, o, per dirla altrimenti, come capire chi davvero sta dicendo cosa, e perché?).
Il secondo richiama il continuo gioco di contaminazioni che attraversa la forma-romanzo odierna tramite l’ibridarsi di proposte narrative fluide e dallo statuto incerto come il reportage, l’autofiction, il novel (neo-)neostorico, la scrittura a forte componente saggistica (sociologica, antropologica, culturologica ecc.).
Il terzo elemento rinvia alle assonanze formali che troviamo in opere appartenenti a letterature di lingue, tradizioni, contesti culturali molto diversi tra loro e che sono il risultato di commistioni, o «d’innesti», per dirla in termini ungarettiani, insomma di tutte le acque in cui gli scrittori degli ultimi anni si sono bagnati e “rimescolati”.
Anche i capitoli dedicati ai singoli libri si fanno apprezzare per l’acutezza delle conclusioni. Nelle pagine dedicate a Les Bienveillantes, lo studioso milanese concentra l’attenzione sugli aspetti salienti del romanzo in prima persona e sulla diffusa tendenza all’autorializzazione di molti personaggi-narratori, ovvero all’incorporazione da parte di questi ultimi di caratteristiche tipiche dei narratori in terza persona.
La particolare morfologia di chi dice “io” ne Les Bienveillantes certifica anche un primato del sé narrante sul sé narrato, con risultati stranianti di resa distaccata e ambiguamente inattendibile, persino sconcertante, del vissuto – con tutto ciò che questo significa, in termini di implicazioni etiche, rispetto a un’opera il cui narratore-protagonista è un nazista, scrupoloso ingranaggio della macchina dello sterminio.
Nel capitolo dedicato a The Corrections Pennacchio riflette poi sul ritorno della figura del narratore onnisciente, significativamente caratterizzata da una forte personalità autoriale, laddove invece nelle opere qui analizzate di Houellebecq e Bolaño tale figura assume piuttosto uno statuto ambiguo e problematico. Quello di Les Particules élémentaires si presenta infatti come un narratore polimorfo, volentieri provocatorio, mentre in 2666 domina un’onniscienza paradossalmente lacunosa e contraddittoria, indice di una sostanziale imperscrutabilità dell’istanza narrante.
La situazione narrativa figurale è invece quanto caratterizzerebbe la scrittura di Coetzee in Disgrace, dove chi racconta finisce, o sembra finire, per annullarsi dietro alla coscienza dei singoli personaggi, con (volutamente illusori) effetti di immediatezza. Quanto al pirotecnico Infinite Jest, Pennacchio riflette sulla morfologia di un romanzo che al suo interno prevede la compresenza di più modi di raccontare, un’opera sfaccettata e multiforme ma che, al contempo, quelle forme scardina dall’interno attraverso continui scarti di focus, prospettive, situazioni, tipologie testuali. Infinite Jest si configura così come un libro che implica la presenza di un lettore non solo collaborativo ma addirittura performer, una sorta di lettore-attore e persino ventriloquo. Giustamente il critico sostiene che, tra i sei volumi oggetto di studio, quello più vicino agli scenari attuali sia probabilmente il più vecchio, ovvero Infinite Jest.
Che i sei romanzi qui esaminati formino un esemplare “microcanone globale” mi pare affermazione più che condivisibile. Ciò su cui nutro qualche dubbio è però dove collocare questo microcanone nella fase di passaggio di cui si diceva in apertura. Tra le varie caratteristiche che l’autore mette in luce a proposito delle opere analizzate c’è, e non in posizione secondaria, il ricorso a complesse strategie di intertestualità, migrazioni incrociate di riferimenti, modalità discorsive allusive. Insomma, tutto uno strumentario espressivo che rivela una volontà di stare ancora con i piedi ben piantati dentro la tradizione romanzesca, di creare in ultima istanza dei libri-libri (con la parziale eccezione del più sperimentale, ovvero Infinite Jest).
Questo può indurci a riflettere sul fatto che questi romanzi, il più recente dei quali risale a tredici anni fa, stiano sì sul crinale della contemporaneità ma, tutto sommato, ancora dalla parte del secolo scorso, siano insomma gli ultimissimi discendenti di un sistema-mondo letterario a suo modo classicamente letterario-centrico – pur traendo molte suggestioni da altri media, cosa che però del resto avveniva già con i Surrealisti, Joyce o Dos Passos.
È proprio tale sistema che in questo primo quarto di terzo millennio potrebbe avviarsi a scomparsa, se negli ultimi anni il tasso di letterarietà dei testi sembra essere in caduta verticale a vantaggio di altre dinamiche come il rafforzarsi dello storytelling transmediale, cui si accompagnano nuove modalità di fruizione e partecipazione (si pensi al proliferare di universi narrativi che si sviluppano su una grande varietà di piattaforme). Nel futuro prossimo di libri-libri potrebbero certo continuare ad esserne scritti, ma è difficile immaginare come saranno letti: forse come forme estreme di resistenza umanistica, ad alto rischio di anacronismo, o come piacevoli oggetti vintage destinati a pochi, raffinati cultori.