La letteratura apre le gabbie. Non la si può controllare, anche se negli ultimi tre anni la cronaca ci ha narrato episodi di censura: l’elenco dei testi vietati tra i banchi scolastici dal sindaco di Venezia è piuttosto esteso. Mi ha colpito la presenza di opere di Leo Lionni che i miei figli conoscono nei dettagli. Al 2016 risale la richiesta di una famiglia di eliminare dalle biblioteche un testo di Bianca Pitzorno.
È paradossale: convivono fenomeni come gli youtuber, punti di riferimento di molti adolescenti, che producono liberamente dei “contenuti” che godono di una “viralità” invidiabile; e tentativi, da parte di alcune forze politiche, di controllare e delimitare la parola, il pensiero divergente, i libri di carta.
Ed è curiosa l’esperienza che ritengo importante recuperare dalla mia valigetta professionale, fatta di letture e dialogo con i giovani. Tempo fa ho deciso di leggere con gli allievi delle medie un romanzo che fu oggetto di censura: La guerra dei bottoni di Louis Pergaud, pubblicato cent’anni fa in francese (1912), tradotto nel 1929, ma solo nel 1978 in un’edizione non censurata. E se confrontiamo l’edizione BUR (“La BUR dei ragazzi”) del 1978 con quella pubblicata nella collana “Narratori moderni per giovani” della Bompiani (1985), scopriamo, dalla prima alla seconda, dei tagli significativi.
La guerra dei bottoni
L’autore descrive la vita dei ragazzi contadini all’inizio del XX secolo, senza censurarne il linguaggio, e rappresenta un mondo le cui dinamiche conflittuali sociali non appaiono superate.
Pergaud, morto a soli trentatré anni proprio in guerra, mette in scena le battaglie tra due bande di ragazzini che si combattono a suon di insulti e lanci di pietre. Ma sono i bottoni delle camicie e dei pantaloni a simboleggiare la vittoria o la sconfitta dei combattenti: vengono strappati ai temporanei prigionieri che possono tornarsene a casa dai genitori, al suono delle campane serali che sospendono le ostilità, con gli abiti scuciti, le braghe calate. Il prezzo da pagare è alto, perché l’educazione in quella realtà è scandita dalle botte dei padri-padroni. Come evitare quest’umiliazione? Forse una soluzione c’è: presentarsi sul campo di lotta nudi, senza bottoni, senza vestiti. Nudi e folli, i protagonisti vivono, nel mondo dei piccoli, ciò che accade tra gli adulti.
La guerra tra bande richiede organizzazione: i protagonisti devono organizzarsi, costruire una capanna, determinare delle regole di convivenza, crescere sperimentando concretamente l’esperienza dell’essere citoyen. I bottoni diventano un bottino, l’intelligenza e il sapere permettono ai guerrieri di vincere le contese.
Nel testo l’autore precisa che non è sua intenzione censurare il linguaggio dei ragazzi, figli di quel mondo contadino, e non si riferisce soltanto al famoso “palle penzoloni” (insulto che celebra l’inizio degli scontri).
Il mondo degli adulti ne esce male, da questo romanzo. «Che disgrazia per i figli avere padri e madri», dichiara un ragazzino verso la fine del libro, e continua: «E dire che, quando saremo grandi, magari diventeremo scemi come loro».
Censure e fortune
La guerra dei bottoni (1912) è uscito nella prima edizione italiana nel 1929, ma soltanto nel 1978 abbiamo la pubblicazione non censurata del testo.
Ho letto quest’opera con allievi di scuola media, scegliendo l’edizione tradotta da Angela Nanetti, pubblicata dall’edizione EL (1991), disponibile in molte biblioteche scolastiche. Ci siamo messi al lavoro per recuperare ventisei copie del romanzo in una versione integrale, in un primo momento senza successo. Ho allora proposto la lettura ad alta voce del volume in catalogo nella biblioteca scolastica, offrendo le mie copie personali per il lavoro sul testo, fotocopiando e trascrivendo qualche passaggio ad uso didattico.
Il ritmo narrativo di Pergaud, le sequenze descrittive, lo scenario, la trama, i conflitti, i dialoghi hanno saputo catturare l’attenzione di allievi dodicenni e tredicenni che, a un certo punto, si sono esercitati provando a censurare una pagina del libro, decidendo di epurare i termini o le immagini eccessive rispetto alla propria percezione.
Il passaggio in cui si narra la cattura di Migue La Lune (ragazzino di Velrans), punito dal capo della banda di Longeverne (Lebrac), si chiude con parole molto significative: «senza odio né rancore gli rifilò, per finire, una pedata robusta e vigorosa nel punto in cui la schiena si chiama con un altro nome». L’io narrante spiega che in questa guerra seria, gioco allegorico, la punizione inferta al nemico fatto prigioniero si chiude «senza odio né rancore»:
E, arnese in mano, Lebrac affrontò la sua vittima. Dapprima fece scorrere il dorso del coltello sulle orecchie di Migue la Lune, il quale, credendo al freddo del metallo di venire tagliato sul serio, si mise a singhiozzare e a urlare; quindi, soddisfatto del risultato, lasciò perdere l’esperimento e si accinse, come diceva lui, a “dargli una bella ripassata” ai vestiti.
Cominciò dal camiciotto: prima i ganci del colletto, poi tagliò i bottoni delle maniche e del davanti, quindi tutte le asole; dopodiché fu Camus a sfilare quel capo d’abbigliamento ormai inutile.
I bottoni e le asole della maglia, insieme alle bretelle, subirono la stessa sorte, sicché fu fatta saltare anche la maglia. Poi toccò alla camicia: dal colletto al davanti, alle maniche, no furono risparmiati un bottone né un’asola; poi furono “ripuliti” i pantaloni. Pezze, fibbie, tasche, bottoni e asole: non sfuggì nulla. Le giarrettiere d’elastico che reggevano le calze furono requisite, i lacci delle scarpe tagliati in trentasei pezzi.
– Niente mutande, allora? – riprese Lebrac, verificando l’interno dei pantaloni, scesi alle caviglie. – Bene, e adesso sloggia!
E dopo aver detto questo, come un onesto giurato, che in regime repubblicano obbedisca soltanto alle leggi della sua coscienza, senza odio né rancore gli rifilò, per finire, una pedata robusta e vigorosa nel punto in cui la schiena si chiama con un altro nome. (ed. EL, trad. Nanetti, p. 49)
Nel censurare questo e altri brani, alcuni allievi hanno modificato il testo, altri hanno cambiato alcune parole, pochi hanno deciso di tagliare le scene. Mentre svolgevano l’attività, due allieve hanno dichiarato che, in fondo, «questo libro parla di pace anche se parla di guerra». Non è finita qui: nel romanzo emerge l’immagine del padre-padrone che si ubriaca, rientra a casa, pesta i figli e ordina alla moglie di tacere, ma troviamo anche la presenza delicata e forte di Marie, la ragazzina che aiuta i ragazzi di Longeverne aggiustando i bottoni delle loro camicie.
Il ruolo di genere è talmente definito e pronunciato, che le giovani lettrici di oggi sono ben orientate nell’opporsi a questa situazione narrativa: «Ma come? Le donne sanno solo cucire, stare zitte, mentre i maschi si ubriacano?».
Nel rispetto dei miei lettori, ho quindi aperto anche alla possibilità di abbandonare la lettura di questo splendido racconto. Tutti hanno però confermato il proprio interesse per il testo e l’intenzione di continuare.
L’edizione integrale e la riflessione parziale
Un mese più tardi, sono finalmente riuscito a ottenere un’edizione “integrale” (quindi non la EL di Morosinotto), tradotta in italiano (il traduttore non è indicato) e pubblicata nel 2016 da “edizioni crescere” . Quel lunedì mattina ho aperto la scatola di cartone, felice di poter distribuire il libro a ogni allievo. La sorpresa e la curiosità degli alunni si è unita alla delusione, quando un ragazzo ha dichiarato: «Scusi, comunque questa edizione non è integrale! Cioè, è tutto diverso». Abbiamo letto, confrontato, esaminato i testi. Abbiamo così ricostruito quanto accaduto per renderci conto della natura di quella edizione: non si tratta di un’edizione integrale. Nel testo tradotto da Nanetti (edizione EL) troviamo ad esempio questo passaggio:
Quando Lebrac fu uscito dagli spini, cominciò, secondo le formule d’uso, la conversazione diplomatica seguente (a questo punto il lettore o la lettrice mi permettano un inciso e un consiglio. Il rispetto della verità storica mi costringe a usare un linguaggio che non è proprio quello delle corti e dei salotti. Io non trovo alcuno scrupolo né vergogna a riprodurlo e mi ci sento autorizzato dall’esempio del mio maestro Rabelais. Tuttavia, siccome i signori Fallières o Béranger non possono essere paragonati a Francesco primo, né io al mio illustre modello, ed essendo d’altronde i tempi cambiati, consiglio alle orecchie delicate e alle anime sensibili di saltare cinque o sei pagine. E ora torno a Lebrac)… (p.31)
Questo brano e quanto segue sono tagliati nell’edizione del dichiarata integrale del 2016. La riflessione dell’insegnante, a monte di questo episodio, è doverosa, perché la scelta dei testi e la libertà di insegnamento sono aspetti molto importanti, anche nella scuola dell’obbligo, e condividerne le riflessioni con gli studenti è molto formativo.
La letteratura offre e favorisce nuove letture del mondo: saranno in grado, questi dodicenni, di riconoscere alcuni aspetti relativi alle due guerre mondiali e ai totalitarismi, quando affronteranno il tema della censura nelle altre discipline? Questi giovani, adulti di domani, sapranno porsi delle domande, esercitando il senso critico, cercando di approfondire i grandi temi della nostra epoca?
Sono domande alle quali è difficile rispondere, perché le esperienze di pensiero non sono per forza misurabili con dei test. Sono però anche domande che non potremmo nemmeno porci, se dovessimo subire la censura ai testi di Leo Lionni, di Bianca Pitzorno, perché ritirati dalle biblioteche e dalle aule, come accaduto recentemente in Italia. Ma l’Italia non è sola: in Ungheria il musical di Billy Elliot (di cui conosciamo l’edizione romanzata di Melvin Burgess, che leggerò a scuola tra qualche mese con i miei allievi) è stato sospeso poiché «fa diventare gay»…