Abbiamo superato incolumi le elezioni politiche del 2018, alcuni votando (tra cui il sottoscritto), altri dedicandosi ad altro, e ora, in attesa di conoscere i nomi dei componenti del futuro governo, passiamo il tempo ad ascoltare e a leggere ipotesi, o, addirittura, a formularne. Indichiamo nomi di possibili ministri, dedicando particolare attenzione, noi insegnanti, a quello dell’istruzione, che è al centro dei nostri legittimi interessi. E così anche chi si illudeva che il peggio fosse passato, che i deliri della campagna elettorale fossero finalmente conclusi o almeno attenuati, è costretto a ricredersi: l’incertezza in cui siamo piombati sembra costringere tutti a protrarre la discussione sul destino della scuola e, quasi fossimo tutti candidati a ricoprire il ruolo di ministro, a spararle grosse, attaccando il passato recente – la buona scuola, l’alternanza scuola-lavoro, la didattica delle competenze, e poi, a ritroso, l’autonomia scolastica, i più audaci spingendosi fino ai decreti delegati – e auspicando un futuro che altro non è che un ritorno all’età dell’oro, un passato mitico e remoto nel quale la scuola funzionava meglio di adesso, quando gli alunni da liceo andavano al liceo, quelli da professionale andavano al professionale, quando l’insegnante conosceva a menadito la sua disciplina ed era rispettato dagli alunni e dalle loro famiglie, che non si permettevano di discutere le sue decisioni, che diamine!
Forse è venuto il momento, per noi insegnanti, pur certamente meno dotati del grande Augusto Frassineti – autore, tra l’altro, del romanzo Misteri dei ministeri e altri ministeri (1959) –, di intervenire concretamente, anche per sgombrare il campo dagli equivoci e dal rumore di fondo prodotto dai tanti opinionisti (squisiti disciplinaristi), e chiarire almeno di cosa si parla quando si parla di scuola, ricordando, agli altri e anche a noi stessi, il ruolo delle diverse istituzioni nell’attuazione del mandato costituzionale.
Cominciamo da qui, dal ruolo ricoperto dai docenti della scuola pubblica statale, quella che fa capo al MIUR, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica, l’amministrazione centrale che ha il compito di programmare e orientare le politiche educative dello stato repubblicano, che – esclusivamente per l’istruzione scolastica – opera a livello decentrato attraverso gli Uffici scolastici regionali (Usr) articolati a loro volta negli ambiti territoriali a livello provinciale. Noi insegnanti, dipendenti della pubblica amministrazione, siamo gestiti dal MIUR, retribuiti dal Ministero del Tesoro, e lavoriamo con un contratto nazionale all’interno di un’istituzione scolastica autonoma, con lo scopo di favorire il raggiungimento del «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3 della Costituzione) sulla base degli obiettivi previsti dagli ordinamenti scolastici.
Questi obiettivi, che siamo chiamati a raggiungere nell’esercizio della nostra libertà di insegnamento, sono prescrittivi, perché garantiscono l’unitarietà del sistema nazionale e di fatto il valore dei titoli di studio, e sono definiti dal parlamento con specifiche leggi. Una volta erano i programmi di studio, oggi sono le Indicazioni nazionali: in ogni caso si tratta di norme che tracciano il quadro di riferimento all’interno del quale si muovono le scuole e gli insegnanti per progettare e attuare l’insegnamento.
In estrema sintesi, il potere legislativo disegna (e ridisegna) il sistema dell’istruzione, mentre il potere esecutivo amministra il sistema nel tentativo di farlo funzionare. L’attuale sistema dell’istruzione, più volte ritoccato, è frutto dei parlamenti che si sono alternati dal 1999 ad oggi, a partire dal DPR 8 marzo 1999 n. 275, il Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche (che altro non è che il Decreto applicativo dell’articolo 21 della Legge 15 marzo 1997 n. 59, la Legge Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed agli Enti locali per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa). Soprattutto, per quel che riguarda gli obiettivi dell’istruzione primaria e secondaria, tutto è accaduto tra il 2007 e il 2012, con l’approvazione e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione, delle Indicazioni nazionali per il curricolo dalla scuola dell’infanzia alla scuola del primo ciclo d’istruzione e dai successivi regolamenti attuativi della riforma della secondaria di secondo grado.
È in questa fase della storia repubblicana che è nata la cosiddetta “scuola delle competenze”, realizzata, almeno sulla carta, per attuare a livello nazionale le politiche europee di integrazione tra istruzione, formazione, orientamento e lavoro, nel tentativo di creare un quadro comune di riferimento nel quale i i diversi sistemi nazionali potessero sviluppare le proprie peculiarità e perseguire le finalità individuate dalle rispettive costituzioni.
In questa fase i ministeri – e i relativi ministri – hanno dunque lavorato affinché il parlamento approvasse nuove norme, che di fatto sono state calate dall’alto e non hanno comportato un aumento degli investimenti, che invece sarebbe stato necessario per consentire, almeno in una fase transitoria, la loro applicazione. Perché cambiare un’organizzazione costa, specialmente se vuoi conservare il personale di cui disponi. Le norme – che sono migliorative, secondo chi scrive – sono così rimaste in gran parte lettera morta, soprattutto quelle relative ai risultati di apprendimento, ovvero i traguardi che gli studenti, con l’aiuto degli insegnanti delle diverse discipline, dovrebbero raggiungere e che poi gli insegnanti stessi dovrebbero valutare e certificare. Sì, perché una parte di quelle competenze, quelle previste dalla norma del 2007 sull’obbligo scolastico, viene certificata attraverso moduli che dal 2010 vengono compilati dai consigli di classe alla fine della seconda superiore e firmati dai dirigenti scolastici, irresponsabilmente, visto che quelle certificazioni sono rilasciate senza che i traguardi vengano perseguiti, monitorati, verificati e valutati.
La stessa cosa succederà dal mese di giugno 2018 nelle scuole primarie e secondarie di primo grado di tutto il territorio nazionale: anch’esse dovranno produrre, infatti, una certificazione individuale delle competenze raggiunte – e, quindi, si suppone, apprese e insegnate – alla fine della classe quinta primaria e della terza secondaria di primo grado. Quanti di noi insegnanti saranno in grado di compilare quei documenti senza avere troppi dubbi – o meglio, scrupoli? Quanti sapranno esprimere una valutazione delle competenze senza aver fatto delle verifiche degli apprendimenti? E quanti riusciranno a insegnare proprio ciò che è richiesto dalla normativa nazionale, usando i metodi di insegnamento che, sulla base della loro personale autonomia didattica, saranno riusciti a esprimere?
Meglio tagliar corto e venire al dunque. I parlamenti e i governi degli ultimi dieci anni (la XV, XVI e XVII legislatura, coi governi Prodi II, 2006-2008, Berlusconi IV, 2008-2011, Monti, 2011-2013, Letta, 2013-2014, Renzi, 2014-2016 e Gentiloni, 2016-2018), con l’avallo di tre presidenti della Repubblica (Ciampi, Napolitano e Mattarella) hanno ridefinito, su indicazione del Consiglio d’Europa e della Commissione Europea, nel rispetto dei valori costituzionali, il quadro all’interno del quale noi insegnanti, le nostre scuole e, quindi, gli stessi ministeri in tutte le loro articolazioni, dovremmo operare in armonia, perseguendo gli interessi di tutti i cittadini e in particolare di quelli che ci sono affidati durante i dodici anni del diritto dovere di istruzione. È una grande responsabilità, che non può essere demandata ad altri. Se vogliamo parlare di scuola oggi, dobbiamo smetterla di dire che vogliamo cambiarla, perché è già cambiata: siamo noi che abbiamo ampiamente dimostrato di non essere in grado di gestire il cambiamento, rimasto sulla carta.
Per questo non sono più disposto a sopportare chi si candida a fare il ministro con l’idea di introdurre altri cambiamenti – fossero anche cambiamenti conservatori, che tendono a ripristinare una situazione che non è più ripristinabile neanche uscendo dall’Unione Europea, perché nel frattempo, mentre i parlamentari discutevano e votavano per fare nuove leggi, le condizioni di vita e di lavoro degli insegnanti, degli alunni e dei loro familiari sono comunque cambiate, e essere conservatori è un lusso che non credo si possa permettere neanche il più illustre degli intellettuali.
È bene chiarire che all’esecutivo votato dal parlamento, e in particolare al ministro dell’istruzione e ai suoi sottosegretari, spetterà innanzitutto il compito di amministrare il sistema in modo da renderlo in tempi rapidi efficace ed efficiente, qualunque sia la sua personale missione sulla Terra e qualunque cosa pensi della pedagogia, della didattica o della fisica nucleare. Candidarsi a fare il ministro (non il parlamentare o il segretario di un partito, il ministro) snocciolando ipotesi di riforma o di controriforma sarebbe semplicemente ridicolo o noioso, se non fosse soprattutto dannoso per chi a scuola è obbligato ad andare ogni giorno per conseguire un’istruzione adeguata.
E noi insegnanti, forse, per quanto poveri di mezzi, dovremmo smetterla di domandarci dove stia la ragione e dove il torto, se sia meglio la scuola del curricolo o quella dei programmi, quella delle competenze o quella delle discipline, quella dell’autonomia o quella centralista… Volendo rispettare la Costituzione e il nostro mandato, dovremmo forse ripartire da lì, dal saper distinguere la nostra funzione all’interno dello Stato repubblicano da quella dei parlamentari, riconoscendo al parlamento il compito di definire i traguardi di apprendimento e chiedendo al ministero di provvedere a fornire i mezzi per attuarli.
E, per quanto sia banale dirlo, occorre ribadire che, per quanto possiamo aspirare tutti a diventare parlamentari o ministri, siamo prima di tutto cittadini che votano e insegnanti che lavorano. È legittimo e auspicabile votare i parlamentari che riteniamo facciano i nostri interessi e, attraverso l’attività politica nei partiti, abbiamo la possibilità di dare loro mandato di cambiare le leggi, ma chiediamo ai ministri dell’esecutivo di essere innanzitutto capaci di attuare le leggi vigenti, perché nel frattempo sono milioni i nuovi cittadini – gli studenti – che stanno usufruendo dei nostri servizi di istruzione: pensiamo soprattutto a cosa sia funzionale e utile per loro, che non votano ancora.
Ecco il ministro che ci servirebbe, in attesa che finalmente un nuovo gruppo parlamentare riesca a trovare le energie, le idee e il consenso che occorrono a cambiare ancora le norme (al fine – si spera – di rendere sempre più concreto l’articolo 3 della Costituzione): una donna o un uomo che sappia individuare e amministrare le risorse economiche e intellettuali necessarie ad attuare le norme vigenti. Forse è poca cosa rispetto alle ambizioni di chi vuole cambiare il mondo, ma sarebbe sufficiente a rendere più sensato il lavoro quotidiano di circa un milione di persone.