Con Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris (Einaudi, Torino 2017), A. S. Byatt, una delle più importanti scrittrici britanniche viventi, tenta un esperimento in bilico tra il saggio, il rendiconto biografico, il taccuino personale e il libro d’arte (il volume è interamente, e splendidamente, corredato di immagini: una cinquantina in totale).
In apertura, Byatt ricorre a un accattivante espediente narrativo, evocando il sovrapporsi e confondersi, nella sua retina e nella sua mente, delle acque della laguna veneta, con i loro bagliori ramati, la luminosità verdeggiante dei riflessi che illuminano le millenarie pietre affacciate su calli e canali, e dei fatati, frondosi boschi inglesi, griglie multicolori di rocce, cortecce, intrichi vegetali. Da questo gioco visivo, sapientemente sollecitato e prolungato, l’autrice ricava una lezione di metodo, riflettendo sulle potenzialità euristiche derivanti da un accostamento inatteso:
Col passare del tempo […] mi sono resa conto che la mia scrittura – fantasia o pensiero – inizia con un istante in cui d’un tratto mi accorgo che due cose a cui avevo pensato separatamente sono parti dello stesso pensiero, dello stesso lavoro (p. 5).
Non è difficile individuare la matrice proustiana di tale spunto. Né è un caso che uno dei protagonisti del libro, Mariano Fortuny, sia «l’unico artista vivente contemporaneo citato da Proust nella Recherche du temps perdu» (p. 5), e per ben tre volte. Ma cosa hanno in comune l’aristocratico creativo cosmopolita che impreziosì Venezia durante la Belle Epoque e William Morris, l’intellettuale borghese britannico vissuto nella tarda età vittoriana e divenuto socialista per amore delle arti fabbrili, ovvero, a dirla con le sue parole, per il «piacere di piegare i materiali alle proprie necessità»? Agli occhi di Byatt, almeno tre grandi meriti: «si circondarono di cose che loro stessi avevano creato, cambiarono l’aspetto del mondo circostante, studiarono le forme del passato e le inserirono in forme nuove» (p. 8).
- Pavoni sulla carta da parati di William Morris
- Melagrane e uccelli sulla carta da parati di William Morris
- Carta da parati di William Morris
- Carta da parati di William Morris
- Carta da parati di William Morris
- Carta da parati di William Morris
- Il motivo del salice di Morris
- William Morris
- Mariano Fortuny
Ricorrendo a un linguaggio immaginifico e insieme puntuale, l’autrice di Possession: A Romance conduce il lettore alla scoperta della vita privata dei due personaggi: il tormentato rapporto di Morris con la musa dei preraffaelliti, la modella Jane Burden, contesa con l’amico/rivale pittore Dante Gabriel Rossetti, e l’idillio di Fortuny con la moglie Henriette Negrin, sua compagna di lavoro e collaboratrice, specialmente negli anni delle grandi creazioni tessili.
Le abitazioni dei due – la Red House e il Kelmscott Manor di Morris; Palazzo Pesaro Orfei di Fortuny – sono per Byatt «parte integrante dell’opera di chi ci ha vissuto» (p. 23).
La Red House, oggi alla periferia di Londra, è descritta come un edificio compiutamente morrisiano: ispirato dall’amore per un passato mitizzato, e in particolare da un’idea solida e compatta, quasi militaresca di architettura medievale, esemplifica alla perfezione il pensiero utopistico del movimento Arts and crafts, concretizzando l’utopia di abolire ogni ferrea distinzione degli spazi così da fondere arte e vita. Casa-laboratorio dove non esiste soluzione di continuità tra tempo conviviale e tempo dedicato alla creazione, la Red House coniuga le esigenze costruttive dell’abitazione e dello spazio lavorativo con la presenza di ordinati spazi naturali necessari tanto all’ispirazione degli artisti quanto al benessere degli individui (Morris, Byatt lo ricorda, fu tra le altre cose un abile progettista di giardini).
Ed è ancora una presenza vegetale, questa volta quella dei salici che bordeggiano le sponde del Tamigi, a contraddistinguere il remoto, campestre Kelmscott Manor: quegli stessi salici sotto cui passeggiavano gli amanti Jane e Dante Gabriel, gettando William nella più cupa disperazione; gli stessi che ispirarono una delle più celebri opere di Morris, la carta da parati “Salice”, «un capolavoro di osservazione, sia della geometria sia delle fattezze e forme reali delle piante in crescita» (p. 42).
Quanto al maestoso Palazzo Pesaro Orfei di Fortuny, Byatt ne offre una seducente descrizione, introducendo il lettore in ambienti a metà strada tra la magione gentilizia occidentale, l’antro delle favole e la tenda levantina, preziosa e provvisoria; scrigno di tesori, affollato di dipinti e tessuti che luccicano e baluginano dalle pareti, è anche un laboratorio e un atelier d’artista, con le invenzioni di Mariano a ricoprire ogni angolo del pavimento.
- Kelmscott-Manor
- Maria Euphrosyne Spartali Stillman, «The Long Walk At Kelmscott Manor Oxfordshire»
- La Red House
- Un ambiente interno della Red House
- Palazzo Pesaro Orfei a Venezia
- Dante Gabriel Rossetti, «The Day Dream», 1880. La modella è Jane Morris.
- Dante Gabriel Rossetti, Ritratto di Marie Spartali Stillman
- Mariano Fortuny, «Henriette a Parigi», 1902
- Mariano Fortuny, «Il venditore di tappeti», 1870, Museo de Montserrat, Barcelona
La formazione e gli interessi di Morris e Fortuny sono indagati a partire dal fascino che esercitarono su di loro, rispettivamente figlio e nipote della grande stagione romantica, i miti più lontani nello spazio e soprattutto nel tempo: l’Islanda delle saghe nordiche per Morris, il Mediterraneo arcaico e matriarcale per Fortuny, cui si somma però l’amore per Wagner e l’immaginario fantastico di matrice germanica. Accomunati da un raffinato gusto artistico e da un pragmatismo artigianale che non esita a nutrirsi dei più disparati apporti, Morris e Fortuny mostrano però secondo Byatt – ed è questa una delle parti più interessanti del libro – due diverse concezioni del lavoro grafico.
L’inglese sceglie di concentrarsi sui fatti naturali con l’intenzione di recuperarli attraverso un procedimento formalizzante, non mimetico, che attribuisca al creato un ordine strutturale, non di rado basato su procedimenti iterativi, capace di sollecitare il libero gioco dell’immaginazione. L’italo-iberico tende invece a recuperare codici rappresentativi del passato, studiandoli e riattivandoli in sintonia con la sensibilità moderna, cosicché quelle intuizioni arcaiche tornino a vivere negli oggetti d’uso quotidiano.
Esemplari, in tal senso, le pagine dedicate da Byatt a due motivi molto presenti negli schemi decorativi di entrambi: le melagrane e gli uccelli. Riflettendo su come questi elementi iconografici vengano affrontati da Morris e Fortuny, in particolar modo per quanto concerne la creazione di tessuti, Byatt mostra come il primo miri a restituire la natura per stilizzazioni, capaci però di cogliere alcuni elementi caratterizzanti, oltre che le più vitali manifestazioni del soggetto rappresentato, mentre il secondo la filtri attraverso codici figurativi desunti dal passato, riattualizzandone alcune peculiari valenze simboliche. Nel che implicitamente riconosce, in Fortuny, un esponente del simbolismo maturo.
Questo, e il fatto che molte delle creazioni sartoriali di Mariano fossero state confezionate per Eleonora Duse, non può che evocare il nome di Gabriele D’Annunzio, peraltro ricordato anche da Byatt. Cade allora a proposito la citazione di un passo di Forse che sì forse che no, romanzo dannunziano del 1910, in cui si legge un’«estatica descrizione» (p. 95) di un abito di Fortuny. Isabella Inghirami, maga d’amore della razza di Circe e Armida, durante una schermaglia erotica si presenta al protagonista del libro, Paolo Tarsis,
[…] avvolta in una di quelle lunghissime sciarpe di garza orientale che il tintore alchimista Mariano Fortuny immerge nelle conce misteriose dei suoi vagelli rimosse col pilo di legno ora da un silfo ora da uno gnomo e le ritrae tinte di strani sogni e poi vi stampa co’ suoi mille bussetti nuove generazioni di astri, di piante di animali. Certo alla sciarpa d’Isabella Inghirami egli aveva dato l’impiumo con un pò di roseo rapito dal suo silfo a una luna nascente.
Il silfo e lo gnomo, creature soprannaturali da mitologia wagneriana, che agiscono come servi d’un designer stregone; l’allusione all’oriente e ai misteriosi procedimenti dell’alchimia; un linguaggio tecnico tanto esatto da risultare poetico (conce, vagelli, pilo, bussetti); il richiamo a ordini viventi e cosmici stilizzati e altamente simbolici (astri, piante, animali) e infine un tocco di colore d’origine soprannaturale: in poche righe, D’Annunzio coglie non solo la magia d’un abito, ma l’intero mondo creativo di Mariano Fortuny.