La lettera non offre grandi novità rispetto alle lamentele che chi frequenta le scuole e le università è ormai abituato ad ascoltare. I docenti dei TFA o dei PAS si stupiscono del livello d’istruzione dei laureati in lettere, i docenti universitari si lagnano delle matricole provenienti dai licei e se la prendono coi loro insegnanti, i quali a loro volta lamentano la scarsa preparazione degli alunni che escono dalle scuole secondarie di primo grado, coi quali condividono una pessima opinione della scuola primaria.
Stupisce però che i firmatari si basino, per il loro appello, su vaghe impressioni non supportate da ricerche (“troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”), e che non facciano alcun riferimento alla comprovata incapacità della scuola di ieri e di oggi di garantire l’alfabetizzazione completa di tutti i nuovi cittadini: una scuola che funziona soprattutto con chi ne ha meno bisogno, i cui risultati sono correlati al livello culturale e alla condizione sociale delle famiglie d’origine.
Pur concedendo ai firmatari il merito di aver attirato l’attenzione su un problema che pure esiste, e che dev’essere discusso approfonditamente, sorprende l’ingenuità con cui è affrontato, e per la cui soluzione si forniscono puntuali indicazioni didattiche: “dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano”.
Questi docenti non sembrano poi così diversi dai professori universitari e dai rettori che hanno governato la scuola negli ultimi anni, sempre pronti a introdurre innovazioni e cambiamenti senza sentirsi in dovere di sottoporli a una verifica attraverso gli strumenti messi a disposizione dalle scienze sociali e dalla pedagogia. Il fatto che i rimedi indicati siano pratiche tradizionali e già note, infatti, non ci dice nulla sulla loro reale efficacia nella scuola di oggi.
A me pare poi che questa lettera alimenti una delle numerose narrazioni tossiche che circolano sul mondo della scuola: la storia di una scuola corrotta, che a forza di cambiamenti ha finito per perdere la sua purezza originaria. È una storia che ha fatto la fortuna di tanti autori di romanzi e di pamphlet, ma che ha effetti negativi sulla percezione sociale degli insegnanti, rappresentati come vittime (e quindi mai responsabili, nel bene o nel male) di un sistema che li stritola, o come missionari in un ambiente a loro ostile.
Proviamo dunque a raccontare un’altra storia, a scrivere una lettera diversa, nella quale il narratore (che in questo caso è l’università, rappresentata da ben 600 docenti) si assume la responsabilità delle proprie azioni e, anziché formulare un appello e dare aurei consigli, si assegna dei compiti che dovrà attuare in prima persona.
Questa è la lettera che come insegnante di scuola secondaria avrei voluto leggere.
È chiaro – lo dicono i risultati dei rapporti OCSE e quelli delle prove INVALSI, lo dicono i dati ISTAT e le percentuali di dispersione scolastica che ancora decimano quanti arrivano fino in fondo ai percorsi di istruzione, lo dice la nostra esperienza di docenti in aula – che in Italia la scuola del passato non è riuscita a incidere in modo sufficientemente efficace sull’alfabetizzazione dei cittadini. Come ha affermato il linguista Tullio De Mauro commentando gli stessi dati, in Italia oggi “soltanto un po’ meno di un terzo della popolazione ha quei livelli di comprensione della scrittura e del calcolo che vengono ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna”.
Al fine di migliorare i livelli di alfabetizzazione e, soprattutto, di aumentare l’efficacia della scuola indipendentemente dalle condizioni sociali e culturali del contesto in cui i bambini e i ragazzi crescono, noi docenti universitari ci impegniamo in prima linea a rendere il nostro insegnamento e la nostra attività di ricerca più utile nel creare le condizioni per il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti.
In particolare, ci impegniamo a:
– migliorare l’impatto del nostro insegnamento sugli apprendimenti degli studenti universitari attraverso l’istituzione di centri di sostegno all’insegnamento universitario, sul modello di quelli già presenti in molti altri paesi democratici. Particolare attenzione sarà dedicata all’apprendimento di pratiche didattiche in grado di migliorare e di verificare la capacità di scrittura degli studenti universitari, visto che molti saranno dei futuri insegnanti;
– incrementare lo studio della didattica della lingua italiana e i corsi di scrittura in tutti corsi di laurea, di qualunque disciplina, poiché tutti gli insegnanti sono responsabili dell’apprendimento della lingua italiana;
– avviare attività di ricerca nell’ambito della didattica delle discipline, possibilmente attraverso progetti interdisciplinari, che coinvolgano, accanto agli esperti delle varie discipline, ricercatori dell’area pedagogica, linguistica, sociologica e psicologica. Sarebbe infatti poco sostenibile scientificamente un insegnamento della didattica delle discipline da parte di chi non ha consapevolezza degli effetti delle discipline sugli apprendimenti delle persone;
– collaborare con il settore Istruzione del MIUR per contribuire alla creazione di regolari occasioni di incontro e di dialogo tra le università e gli altri livelli di istruzione,utili ad accrescere in ambito universitario la conoscenza del funzionamento delle istituzioni scolastiche e dei loro lavoratori, una categoria di persone nei confronti dei quali abbiamo grosse responsabilità.