Morte e resurrezione di un dimenticato

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Un sottile conoscitore della nostra letteratura d’inizio Novecento, Andrea Pellegrini, recupera “La storia del mio funerale” di Guido da Verona, una chicca di quasi cento anni fa.
Guido da Verona nel 1929.

La storia del mio funerale di Guido da Verona (Arezzo, Helicon, 2016) inaugura la collana “Occhio di bue” ideata da Andrea Pellegrini e Michele Rossi, «un faro puntato sulle opere in ombra dei grandi autori della letteratura italiana» come recita la quarta di copertina. La formula prevede il recupero di un testo poco noto della tradizione otto-novecentesca accompagnato da una nota critica che presenti la figura umana e artistica dello scrittore (in questo caso, l’informatissima ma agile postfazione dello stesso Pellegrini, Nella mia vita che fu azzurra).

Guido da Verona, chi era costui? Il risvolto di quarta informa che fu «autore fra i più celebri nel primo Novecento, con ventiquattro romanzi e due milioni di copie vendute. Ebreo e fascista sui generis è scomparso dal nostro canone, ostracizzato dalla critica ed estraniato dal milieu narrativo italiano».
Astro di prima grandezza nella composita galassia dei maestri del feuilleton – suoi i best-seller Mimì Bluette, fiore dei mio giardino del 1916 e Sciogli le trecce Maria Maddalena del 1920 – poi bistrattato, sia dalle autorità fasciste che da quelle democristiane, per una irriverente riscrittura dei Promessi sposi, Guido da Verona vanta alcuni cultori appassionati ma in effetti non trova pressoché spazio nelle storie letterarie, o vi compare solo sotto una luce molto negativa.
Se prendiamo, ad esempio, la Letteratura italiana Einaudi diretta da Alberto Asor Rosa troviamo, in un saggio dedicato a Cortile a Cleopatra di Fausta Cialente, un sintetico quanto severo giudizio di Paola Azzolini contro il «soggettivismo volgarmente autobiografico e il dannunzianesimo che in quegli anni [ovvero a inizio secolo], attraverso il filtro deformante di Guido da Verona, era diventato una moda deteriore». Una condanna senza appello che sembrerebbe centrare il bersaglio anche in riferimento a un testo come La storia del mio funerale, che certo esibisce un soggettivismo frontale e mostra un innegabile dannunzianesimo di fondo. Eppure… Eppure, a leggere senza pregiudizi questo frammento in prosa del 1919, si deve fare i conti con impressioni assai più benevole, maturare un giudizio equanime e infine esser grati a Pellegrini di averne promosso il recupero.

Shelley Winters e Monica Vitti nel film di Carlo Di Palma “Mimì Bluette… fiore del mio giardino” (1976).

Intanto è da dire che la consumata penna di Guido da Verona offre qui, in questo monologo del sé cadavere, in questa arguta rievocazione del proprio io postumo, qualcosa di più di una boutade: una serie di quadri, suggestioni, intime confessioni e spigolature meditative insieme divertenti ed efficaci, inanellate con brio e un piglio irriverente che non annoia mai il lettore.
Ostentando senza filtri il proprio incorreggibile narcisismo – ma modulandolo su toni ridanciani, sia pur con qualche concessione al patetismo – Guido piega la propria ossessione autobiografica alla spumeggiante costruzione del ritratto esemplare d’un viveur primonovecentesco tutto ammicchi e seduzioni, sprezzatura signorile, gusti squisiti e pose inimitabili. Qualcuno per cui l’avventura mondana è non solo svago o sport, ma stile di vita imprescindibile, più per innato istinto edonista che per una qualche forma di massimalismo esistenzial-estetizzante. La forma breve poi aiuta molto lo scrittore emiliano a contenere la propria verve, facendo sì che la miscela ironia/pensosa poeticità alla base del suo estro arda all’interno di una camera di combustione ben protetta da ogni rischio di dispersione.
Quanto al pullulare di mitologie dannunziane, anche queste sono oggetto di un’interpretazione molto personale. I preziosismi non mancano, certo, ma neppure si danno esempi della più vieta retorica del Divino Gabriele, la cui lezione peraltro risulta corretta da una serie di suggestioni che vanno in altre direzioni.

Ritratto di Guido da Verona di Bazzi, 1923.

Esemplare in tal senso la polemica giocosa su temi che furono del Futurismo, con le gustose pagine dedicate al peso della tradizione gravante sui destini patrii, l’onnipresente “grande bellezza” che condanna gli italiani a una cronica condizione di posterità: «Io non potevo in nessun tempo e luogo andarmene tranquillamente per la via senza imbattermi ogni venti passi in qualche insopportabile capolavoro». Segue poi una godibile tirata recriminatoria contro la «gente ferma», la gran massa dei “passatisti”, potremmo dire, «che crea tutti i pregiudizi, tutti gli assiomi stupidi e le virtù crudeli, tutte le scale arbitrarie dei valori e le morali terribili, basate sul buon senso millenario della levatrice e del becchino». Altrove fanno capolino sprazzi di un dettato lirico tra il crepuscolare e il vociano nient’affatto disprezzabile, come nel brano che celebra le «Belle ragazze di vent’anni», di cui vale la pena riportare alcune righe per restituirne il tono di lieve erotismo venato di coloriture malinconiche:

Belle ragazze di vent’anni, che andate per istrada leggére nei tersi mattini d’Aprile, quando le vetrine dei mercanti vi fanno risplendere gli occhi e il cuore gracile vi trema udendo il passo d’un inseguitore, belle ragazze di vent’anni, che sapete con agili dita nel denso intrico del telaio intessere il fiore di lana, belle ragazze di vent’anni, che siete il bocciolo d’ogni fiore, una sola rinunzia mi è grave, or che mi coprirà il silenzio eterno e il peso di questa greve terra: – con voi, belle ragazze di vent’anni, con voi parlare camminando in un limpido mattino d’Aprile.

Ma la scena più gustosa, quasi da slapstick comedy anni Dieci – una comica nella quale sia stata però iniettata una buona dose di cinico umor nero pre-surrealista – è il gag immaginato da Guido di un suo ipotetico vagabondaggio in compagnia del proprio stesso cadavere (con possibile allusione finale al Pinocchio collodiano):

Se il mio spirito avesse due braccia, provvederei da me solo a trafugare il mio cadavere. Sarebbe in tal modo evitata la noia de’ funerali e de’ mille pettegolezzi che mi accompagneranno verso la tomba. Fare un viaggio col mio cadavere… Questo mi divertirebbe assai! Aiutarlo a scendere giù per le scale, calzandogli un berretto fin sugli occhi perché la gente non si accorga delle sue pupille spente. Chiamare un’automobile, fargli traversare in questo bel mattino qualche strada ilare della rumorosa città; prendere un treno che vada incontro al mare, poi una barca, ed infine, giunti nella solitudine, dopo le stelle, buttarlo, con un sasso al collo, nel luminoso mare.

Esasperatamente soggettivista, certo; dannunziano fin nel midollo, pure; ideologicamente e artisticamente ambiguo, senza dubbio: però, almeno in questa prova, anche scrittore di razza.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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