Si tratta di una serie di racconti brevi che insieme formano un romanzo familiare; protagonista è la famiglia dell’autrice che dall’Est della Germania si trasferisce all’Ovest, poco prima della costruzione del muro. Il punto di vista è quello ‘ribassato’ di una bambina, che non solo non capisce il perché di questo trasferimento, ma tende a viverlo, come tutti i fatti dell’infanzia, in modo sognante e a tratti mitologico.
I racconti evocano i luoghi, la vecchia casa costruita davanti alla fabbrica “Miwepa” che produceva cartone ondulato, quella ‘casa pancia’ costruita con la fame dei nonni, che sembra parlare alla bambina di cose misteriose e paurose, la cuccia del cane, la casa dei vicini, il paese dove tutti si conoscono, il piccolo cimitero, il castello: questo mondo sparisce in una notte del giugno del 1961 quando, grazie all’aiuto di un cugino della nonna la famiglia fugge a Ovest, a Berlino. Da quel momento in poi tutto si sdoppia: la bambina capisce che c’erano una vita, una lingua, un modo di pensare di prima e che ci sono una vita, una lingua, un modo di pensare molto diversi e che la ricomposizione delle due parti sarà un lavoro lungo un’intera esistenza – anzi, non finirà mai, scrive infatti: “Il giorno della nostra fuga è stato lunghissimo. E continua ancora”.
Oggetti e abitudini verranno transitate dall’altra parte, ma con un esito sempre incerto, come se gli oggetti dell’Est racchiudessero una specie di magia che non riesce a rinnovarsi o perde di significato se trasferita. Il servizio di porcellana di Henneberg, ad esempio, o le buste per la spesa color carta da zucchero, Staubblau – il blu polvere che fa chiedere alla bambina “La polvere allora è bella?”, domanda alla quale il nonno risponde: “Può esserlo, se vedi che c’è qualcosa di bello sotto”.
Ma non è solo la vita degli oggetti, con i suoi correlativi emotivi, a venir messa in discussione, è anche il passato non tanto remoto dell’intera famiglia: uno zio che imprudentemente canta canzoni naziste e per questo viene processato dal partito, la SED, e perde il lavoro, per cui occorre mandargli ogni settimana ricchi pacchi di cibo e vestiario da Berlino (quelle canzoni le sapevano tutti e sarebbe ipocrita negarlo, commenterà il padre, ma intanto perché lo ha fatto si chiede la nonna); un nonno tanto sorridente in fotografia, che si scopre aver avuto due famiglie e per questo viene biasimato molto di più che per il fatto di essere stato a suo tempo un capitano della Wehrmacht. Di questi fraintendimenti e negazioni è sottesa tutta la trama intima del libro. Lo sguardo infantile, ingenuo e allertato al tempo stesso, gettato sugli anfratti familiari contribuisce a creare l’impressione che le rimozioni e i traumi all’interno del proprio stesso paese e della propria storia abbiano radici profonde e conseguenze di lunga durata.
L’autrice non giudica: si limita a riportare le notizie della propria famiglia, come se stesse sfogliando un album e prendesse atto che “una volta arrivati nell’Ovest, lo sdoppiamento continuò, era diventato una seconda natura”. Con una lingua piena di accensioni liriche, Eva Taylor ci fornisce un racconto inedito e intimo di uno dei grandi traumi socio-politici del Novecento.