Lacuna – Saggio sul non detto: una recensione

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Come costruire un saggio intorno a una parola, dilatandola fino ad aggregarle intorno non solo concetti ed esempi, ma una vera e propria teoria estetica e letteraria? A questa sfida risponde in modo esemplare l’ultimo saggio di Nicola Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto (Einaudi, Torino 2015).

L’etimologia, cara all’autore, di luogo cavo – lacus – che si riempie d’acqua, è il punto di partenza di quattro densi capitoli in cui, attraverso una gamma ricchissima di esempi (che vanno dall’antichità greco-latina alla modernità, senza seguire un ordine cronologico progressivo) analizza le occorrenze e i significati di quella che viene comunemente intesa come una parola negativa, e che si rivela invece parte costitutiva e indispensabile di qualsiasi testo letterario.

Semplificando in maniera estrema, la lacuna è il ‘non detto’: ciò che viene solo alluso, evocato, o del tutto taciuto all’interno di una narrazione. E può presentarsi sotto forma di allusione, preterizione, omissione, sintesi, brevità, sincope, a seconda dell’accento sull’effetto stilistico e strutturale che l’attrezzeria retorica vuole di volta in volta rilevare. Per inciso andrà detto che il libro esce quasi in contemporanea con quello di Bice Mortara Garavelli, Silenzi d’autore (Laterza, Bari 2015), col quale sarebbe proficua una lettura intrecciata.

Lacuna, lacus, luogo cavo, allusione, preterizione, omissione, sintesi, brevità, sincope.Gardini parte da un campione celeberrimo e molto interessante anche per la storia testuale che lo accompagna: il manzoniano “La sventurata rispose”, con il quale nei Promessi Sposi si sigla l’inizio della relazione fra Gertrude, la monaca di Monza, ed Egidio. La frase alza un velo sulla vicenda peccaminosa in cui la monaca si lascia trascinare, tanto più potente nei confronti dell’immaginazione del lettore delle quattro pagine che, nel Fermo e Lucia, raccontavano la vicenda. L’ellissi agisce come una voragine, verso la quale la nostra attenzione di lettori empatici e di giudici morali (ogni lettore, senza volerlo, è entrambe queste cose) è attratta con il semplice uso di un aggettivo e di un verbo. Come l’ombra prodotta su un muro da una luce al buio, l’allusione manzoniana ci apre uno spazio molto più grande, e pauroso, di quello che qualsiasi descrizione avrebbe potuto fare.

Così andammo infino alla lumera / parlando di cose che il tacere è bello / sì com’era parlar colà dov’era.Dante, invece, nella Commedia fa un uso ricorrente di preterizioni: ci sono cose, fra il narratore e la sua guida, Virgilio, che vengono dette ma non riportate, valga per tutti la terzina: “Così andammo infino alla lumera / parlando di cose che il tacere è bello / sì com’era parlar colà dov’era” (Inferno IV, 103-5). A cosa induce il lettore una simile, compiaciuta, ammissione di silenzio? Gardini argomenta che l’affermare che ci siano cose che stanno fuori dal testo, e dunque esistono nella realtà, rafforza la convinzione che quello che si trova nel testo sia ancora più vero e credibile. “L’illusionismo, per colmo di ironia, fa sì che quel che è intrinsecamente immaginario tragga fondamento dalla realtà di quella mancanza”. Si crea dunque un effetto di verità, termine che Gardini sembra prediligere rispetto a quello, peraltro molto zavorrato di tradizione critica, di ‘realtà’.

Fondamenti della riflessione sulla necessità di omettere si ritrovano nella Poetica di Aristototele, al quale nei secoli continuano a far riferimento tanto i critici quanto gli scrittori. È Aristotele infatti che nota come Omero non racconti tutto e operi notevoli selezioni funzionali, e l’esempio aristotelico, applicato ai due più importanti poemi in versi della tradizione occidentale, è destinato ad avere una lunghissima fortuna e importanti ricadute: Il silenzio di Aiace davanti a Ulisse nel canto X dell’Odissea vale per lo Pseudo-Longino più di qualsiasi discorso.l’omissione, l’abbreviazione sono proprie della poesia perché comprimendo spazio e tempo portano un tipo di conoscenza più forte e vivace legata al potere incisivo delle parole, e al lavoro che l’immaginazione del lettore deve fare per colmare i vuoti – principi di poetica variamente declinati e condivisi nei secoli da Orazio a Leopardi, a Pietro Verri e Laurence Sterne. Il silenzio di Aiace davanti a Ulisse nel canto X dell’Odissea vale per lo Pseudo-Longino più di qualsiasi discorso, ed esprime con sublime grandezza l’ira che nemmeno la morte ha cancellato per le armi di Achille che gli sono state negate; tale silenzio vale quanto la scelta del pittore Timante di non rappresentare il volto del padre di Ifigenia nel momento del sacrificio, ma quello degli altri astanti. Il valore di questa censura visiva verrà percepito e teorizzato da Leon Battista Alberti tanto da diventare canonico nella raffigurazione dell’episodio, come vediamo ad esempio nell’affresco di Giambattista Tiepolo, Sacrificio di Ifigenia, realizzato nel 1757.

Accrescere l’importanza e la grandezza di ciò che non viene detto, ottenere un effetto di verità, mirare a una composizione ben bilanciata sono tutte funzioni che la lacuna, chiamata di volta in volta omissivo, brevità, significatio, concinnitas, assolve per gli scrittori antichi (Seneca, Cicerone, Tacito, Sallustio) come per i moderni (Maupassant, Henry James, Sterne, Flaubert); ma Orazio, argomenta Gardini, dice qualcosa di più: l’arte di sapere dire, omettere e differire, crea una durata temporale del narrato, in cui le cose avvengono esattamente quando devono avvenire. Nell’orizzonte umano della caducità, la letteratura offre un antidoto potente alla morte: rinnovala durata del presente, dell’esserci qui ed ora sulla pagina.

D’altra parte il testo, la cui etimologia rinvia inevitabilmente all’intreccio, alla rete come una ragnatela (metafora utilizzata da Henry James in relazione all’immaginario dello scrittore), è appunto un insieme di pieni e di vuoti, come ricordato da Barthes e Benjamin soprattutto in relazione all’opera di Marcel Proust, dunque per definizione discontinuo, come la vita, e come la vita suscettibile di interpretazioni multiple.

Il testo è un insieme di pieni e di vuoti,  dunque per definizione discontinuo, come la vita, e come la vita suscettibile di interpretazioni multiple.In epoca moderna si intensifica l’accento sulla selettività, o selezione (un nuovo sinonimo di lacuna), e un autore come Stevenson si scaglia contro l’accumulo realistico di Balzac; tuttavia già Madame de Stael, all’inizio dell’Ottocento, aveva teorizzato che per costruire bene bisogna sapere togliere. In epoca moderna ragioni funzionali e stilistiche si sposano a saldare un’estetica condivisa dal poeta Robert Browning, nel celebre poema su Andrea del Sarto del 1855, dove troviamo formulata la frase “Less is more” che troverà poi eco e risvolti avanguardisti nel motto dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe. E mentre nella tradizione romanzesca investigativa inaugurata da Sherlock Holmes la lacuna è sempre lì per essere colmata, in quella del commissario Maigret di Simenon, a essa opposta e ispirata al filone proustiano della discontinuità e dell’assenza, la lacuna è il vuoto che solo l’immaginazione e nessuna prova può colmare.

E se per Virginia Woolf e Proust la letteratura mette ordine alla vita che è frammento e discontinuità, rivelando un’aspirazione alla totalità che ha profonde radici nel pensiero occidentale da Platone al Cristianesimo, e dunque la selezione e l’omissione fungono da potenti promotori della ricerca di una forma (scrivere è dare forma, leggere è dare forma, sottraendosi al caso e al caos), per scrittori come Cechov, Hemingway e Carver bisogna Il racconto, la short story è dunque prosa della lacuna per eccellenza.rinunciare a qualunque pretesa di comprensione sistematica della realtà, a qualunque filosofia che spieghi tutto: la vita va rappresentata com’è, senza spiegazioni e didascalie accettando che dentro e nell’anima ci sia il vuoto assoluto. Il racconto, la short story è dunque prosa della lacuna per eccellenza. E la storia, come ha teorizzato Peter Brooks, non coincide con la trama. Non tutto ciò che accade è narrato, e viceversa, non tutto quello che è narrato esaurisce la storia. Tale principio, di nuovo in azione sul piano temporale del racconto, è acutamente presente, ad esempio, ne La Montagna incantata di Thomas Mann, con la prima giornata in sanatorio che occupa ben 133 pagine della 1069 complessive.

Per Nicola Gardini, in conclusione, “la letteratura non consiste nelle parole scritte, ma in quello che le parole scritte suggeriscono e presuppongono… è desiderio di altro ancora, perché quello che c’è sulla pagina non basta, non può essere tutto”. Per Gardini, inoltre, riprendendo la lezione oraziana, la letteratura con le sue lacune e i suoi silenzi ci prepara, e ci consola, del silenzio più grande di tutti: la morte, consentendo alla vita di trionfare, seppur in maniera effimera.

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Alessandra Sarchi

Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell’arte; ha poi svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi: «Violazione» (2012), «L’amore normale» (2014) e l’ultimo, «La notte ha la mia voce», uscito nel 2017.

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