Non va sempre così, di Evelina Santangelo. Una recensione

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Evelina Santangelo, già autrice di numerosi romanzi e racconti, con “Non va sempre così” ci regala una storia di speranza.

Lo fa immergendosi con una scrittura intensamente realistica nel mondo attraversato dalla crisi, nelle statistiche sulla famiglia che vedono crescere il numero di matrimoni falliti, di genitori separati, di madri che da sole devono crescere i figli, cercare un lavoro, e magari a fine giornata conservare qualcosa di bello, qualcosa di intatto per sé. Un gesto di cura, una parola che non suoni invano nelle orecchie dei figli, la possibilità di credere ancora nella vita.
Questa è la parabola che attraversa Valentina Milani, separata, una figlia tredicenne con le prime smanie adolescenziali, il lavoro a scuola che da precario diventa inesistente, un anziano padre affettuoso e svagato che si rifugia nella collezione ossessiva di oggetti per custodire il passato e, chissà, forse tramandarlo anche a quella figlia e a quella nipote, che al momento contribuisce a mantenere dal punto di vista economico.

L’incipit del romanzo è una vera e propria caduta: di oggetti, sedie, elettrodomestici, pensieri. Rotolano con la loro forza rovinosa e inarrestabile su Valentina, che stringe bilanci e si pone domande: dove e perché ha sbagliato? la sua inadeguatezza è una questione di carattere, di storia familiare, o segue la piega generale di una generazione che non può più pensare alla famiglia come eterna, ma nemmeno al lavoro, ai diritti alla solidarietà sociale – che pure fino a qualche decennio fa erano frutto di una comune conquista, di una contrattazione fra le classi sociali?

Valentina ovviamente non ha una risposta, né parziale né conclusiva. Ma non smette di cercarla: nell’amicizia con l’estrosa e vistosa Milvia, l’amica che è la sua controparte caratteriale; nell’ossessiva cura del proprio corpo e di quello altrui, che rivela un altro aspetto della moderna nevrosi: quel vivere in superficie che semplifica, ma inaridisce anche. Nei dialoghi sempre un po’ sfasati con l’anziano padre; nel rapporto con le asperità adolescenziali della figlia Matilde; nei ricordi di una se stessa contestatrice ai tempi dell’università in quello che ora, in piena crisi economica e morale dell’Occidente, le pare l’ultimo momento in cui si è sentita parte di una collettività in lotta per qualcosa, e non uno dei miliardi di irrilevanti individui che consumano e distruggono il pianeta ogni giorno.

Così l’orizzonte privato di Valentina si allarga piano piano ad abbracciare un fallimento ben più ampio, che è quello di chi, pur credendo nel valore delle istituzioni pubbliche e in quello dell’istruzione, si ritrova oggi a svendere se stesso e il proprio sapere per sopravvivere nel mercato del lavoro. Un mercato che pare conoscere solo la bruta legge del più forte, del più appariscente, dell’adattamento a tutti i costi, pur di sopravvivere.

In questo scenario, che non risparmia il confronto della figlia Matilde con un Paese e uno Stato che aggrediscono anziché proteggere, viene da domandarsi: che fine ha fatto il nostro passato politico, sindacale e culturale? che cosa possiamo consegnare ai nostri figli, se manco un lavoro? nemmeno una speranza?

Ed è qui che il romanzo imprime una svolta significativa, in decisa controtendenza con una posa letteraria e intellettuale molto diffusa nel nostro paese – quella che fa coincidere analisi disincantate con forme di nichilismo, personaggi e posture di consumato cinismo. Nella trama e nella vita di Valentina irrompe una possibilità che la coinvolge, dapprima riluttante e poi sempre più convinta, anche grazie al contributo e alla fiducia di un personaggio minore (in tutti i sensi): il cameriere indiano Rajani che aiuta il padre, e che intuisce nel progetto di Carlo, il marito di un ex-compagna di scuola, una promessa d’impresa collettiva concreta.

Il romanzo accoglie dunque un azzardo, che diventa poi un sogno che si realizza; forse sarebbe meglio dire che concede spazio a quella che è diventata merce rara: l’utopia. Una forza che viene dal credere a cose che sembrano impossibili, perché riteniamo le forze in atto troppo schiaccianti. Ma non sono avvenuti tutti i balzi in avanti dell’umanità, tutte le conquiste di diritti e di civiltà proprio a grazie all’inseguimento pervicace di piccole e grandi utopie?

D’altra parte Evelina Santangelo non ha scritto propriamente una favola a lieto fine. La vita di Valentina rimane segnata e segmentata, Carlo – con cui condivide l’avventura imprenditoriale e umana – si ammala, la figlia emigra in un altro paese. Eppure Valentina ora ha le parole con cui avrebbe potuto forse provare a trattenere la figlia, e descrivere un futuro diverso: “Non va sempre così, se uno guarda alle potenzialità, fregandosene delle statistiche e delle cose così come sono andate fino a quel momento”.

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Alessandra Sarchi

Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell’arte; ha poi svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi: «Violazione» (2012), «L’amore normale» (2014) e l’ultimo, «La notte ha la mia voce», uscito nel 2017.

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