Il ricco volume curato da Luciano De Giusti e intitolato Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari (Venezia, Marsilio 2011) ci permette di ricostruire un rapporto, quello tra Andrea Zanzotto e il cinema, caratterizzato da un sentimento duplice, misto di attrazione e repulsione. La settima arte, come la definì Ricciotto Canudo, presenta agli occhi del poeta di Pieve di Soligo l’ambigua natura di un pericoloso vortice seduttivo, sorta di maelstrom emotivo-percettivo «che a ciascuno fa baluginare quasi il completamento dei propri desideri, consci o inconsci, individuali o archetipali, risvegliati, per così dire, su dal più profondo patrimonio della specie umana stessa» (pp. 41-42). La pellicola che scorre sullo schermo gli pare il simbolo più compiuto e appropriato di quella modernità che, letteralmente, “brusa” e “fa ciaro”, incendia e rischiara i più occulti strati psichici della soggettività, generando fantasie e rivelando pulsioni esaltanti e malgrado ciò (proprio per ciò) temibili. Allo stesso tempo, Zanzotto è consapevole del fatto che il cinema ha potentemente influenzato il suo immaginario, vale a dire plasmato e nutrito una parte cospicua del suo pensiero e della sua produzione creativa.
L’esperienza filmica risulta allora causa scatenante di una leopardiana “rimembranza” (rivolta verso un passato pre-moderno che non tornerà, segnatamente la plurisecolare civiltà contadina veneta cui Zanzotto si sentiva visceralmente legato) e, insieme, avventura, esplorazione delle possibilità, anche tecniche e tecnologiche, che il futuro annuncia. Ma che dolore aver visto sparire in quest’ultimo decennio – scrive Zanzotto nel 1989 – la stragrande maggioranza delle sale, specie nelle campagne, come se i paesi si fossero spenti tutti del loro Fulgor, Astra, Splendor, rimanendo bui e deserti di notte. Ma anche, paradossalmente, motivo di nostalgico rimpianto nei confronti di una realtà più recente ed effimera che solo i nati nei primissimi decenni del secolo scorso hanno potuto conoscere. I compagni generazionali di Zanzotto hanno infatti assistito, nel ridotto arco cronologico della loro esistenza, a tutta la parabola vitale (nascita, proliferazione ed estinzione) di un luogo particolarmente importante per la diffusione della cultura nel corso del Novecento, ovvero quegli sfavillanti ma caduchi corpi celesti che sono stati gli esercizi cinematografici di paese. «Ma che dolore aver visto sparire in quest’ultimo decennio», scrive Zanzotto nel 1989, «la stragrande maggioranza delle sale, specie nelle campagne, come se i paesi si fossero spenti tutti del loro Fulgor, Astra, Splendor, rimanendo bui e deserti di notte» (p. 71). Questa immagine felliniesque, per riprendere un aggettivo entrato ormai stabilmente nella lingua inglese, delle campagne piombate di nuovo nella loro secolare oscurità dopo aver conosciuto una breve, radiosa stagione grazie alle luci della ribalta, basta a far comprendere le ragioni dell’amore di Zanzotto per l’opera del regista riminese, e i motivi dello stretto sodalizio tra i due, iniziato con i testi che il poeta scrisse per Il Casanova di Fellini (1976).
- La copertina del volume “Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari”, Venezia, Marsilio, 2011
- Andrea Zanzotto
- Il cinema Astra di Monza intorno al 1960, dal sito giusepperausa.it”
- Il cinema Splendor di Pescia
- La scena finale di “8 ½” di Fellini
- “E la nave va” del 1983
- Il Casanova di Federico Fellini” del 1976
- Robert Bresson, “Au hazard Balthazar” del 1966
Zanzotto riconosce in Fellini un autore capace di plasmare realtà filmiche che funzionano come emanazioni dirette dell’inconscio collettivo: un inconscio che nel corso del Novecento si è ritrovato schiacciato tra il giganteggiare di una modernità “americana” giunta a invadere fisicamente il territorio (oltre che le menti) e il persistere, al di là delle mode e delle trasformazioni socio-politiche, di alcuni archetipi vitali caratteristici della civiltà italica – ma diremmo meglio: delle plurime civiltà italiche. Circa il valore che Zanzotto è disposto a riconoscere alle immagini felliniane, esso risiede nella loro capacità di rappresentare in modo fedele di un’originale realtà psichica. Esemplare in tal senso Zanzotto riconosce in Fellini un autore capace di plasmare realtà filmiche che funzionano come emanazioni dirette dell’inconscio collettivo. la dimensione del circo, così amata da Fellini: a metà strada tra il Paradiso e l’Inferno, la miseria (chapliniana) e la grandeur (demilliana), questo luogo purgatoriale abitato da sparute figure di bianchi e augusti incarna alla perfezione quel «Povero aldilà, grande aldilà di luce e plastica» (p. 131) che è il cinema, inteso come equivalente espressivo della condizione esistenziale dell’uomo novecentesco. Per molti versi si può dunque dire che il poeta giunga a considerare l’autore de I Clowns addirittura come una sorta di alter-ego, e sarebbe un esercizio proficuo quello di leggere il passo che segue come un’autoriflessione sul proprio operare creativo, semplicemente sostituendo il nome Fellini con il nome Zanzotto e la parola “film” con la parola “raccolta poetica”:
Paradigmatico di tutta una certa “razza” di autori, Fellini nelle sue opere ha ripreso temi già toccati in precedenza, ma destinati a rivelare lati sempre inediti; ogni “nodo” ne scopriva un altro connesso e pur discontinuo al precedente. Si trattava sempre di un’anamnesi che però era destinata a sfuggire ad ogni analisi intesa come percorso risolvente (di tipo psicoanalitico), ogni film corrispondeva a una rivisitazione e reinterpretazione del sé; e di un sé creante film; ma questa rivisitazione era appunto costitutiva del sé. (p. 43)
Si può insomma affermare, pur con le dovute cautele, che le notazioni di Zanzotto circa la sintassi onirica del cinema di Fellini, con acuti affondi sull’ultima stagione del regista – dal citato I Clowns (1970) a E la nave va (1983), passando per La città delle donne (1980), fino al mai compiuto Viaggio di G. Mastorna – aprano squarci illuminanti sull’impasto di immaginario e vissuto emotivo-coscienziale che caratterizza la stessa opera del poeta veneto.
L’altro grande autore al quale Zanzotto si sente legato da un sentimento per certi versi fraterno è Pier Paolo Pasolini, di pochi mesi più giovane, qui raffigurato come un “maestro mirabile”, un intellettuale mosso da un’insopprimibile voluntas pedagogica e costantemente impegnato a fare poesia, anche quando la sua attività si esplica in altre forme creative. In Il cinema brucia e illumina possiamo leggere un duplice, intenso ritratto del poeta di Casarsa: da un lato troviamo l’immagine di un autore rimbaldino, di un homme déréglé che vive al limite delle proprie possibilità fisiche e psichiche, dall’altro quella di un fantastico “benandante”, con chiaro riferimento a quegli “spiritelli friulani benigni” magistralmente studiati da Carlo Ginzburg. In entrambi i casi, emerge una figura cui Zanzotto guarda con affetto e ammirazione; l’unica nota stonata risiede a suo avviso nell’ultima stagione pasoliniana, considerata come un falso movimento o meglio un movimento in una direzione sbagliata: «sarebbe stato molto meglio», scrive il poeta, «se Pasolini avesse realizzato il film su San Paolo attraverso le attuali metropoli del mondo, che l’inutile Salò Sade» (p. 82).
Restano infine da segnalare alcune pregevoli e partecipate pagine sul maestro francese Robert Bresson e le dense annotazioni del cahier Appunti e temi per un filmato su Venezia, in cui Zanzotto si sofferma sulla Venezia settecentesca, città (e secolo) da lui amatissimi, schizzando due gustosi ritratti di artisti/viveurs dell’epoca, il poeta licenzioso Giorgio Baffo e il librettista Lorenzo Da Ponte. In appendice alcuni testi poetici ispirati all’amicizia con Fellini e più in generale al rapporto con il cinema.