1. Parlare di Costituzione oggi è difficile. Quando ero giovane – sono nata nel 1962 – la mia identità, come quella di tanti altri, non aveva bisogno di ricorrere continuamente a quel testo illuminante e a quel progetto di società che la Carta configura. Alcuni luoghi in essa contenuti erano considerati assolutamente imprescindibili e si apprestavano a essere concretizzati (o lo erano già) nelle leggi che venivano approvate. I riferimenti, i principi, gli ideali, i diritti e i doveri erano un patrimonio collettivo che le generazioni precedenti avevano costruito con lungimiranza, impegno, dedizione e passione e che erano considerati comunemente elementi che individuavano il DNA del nostro essere italiani, il senso della nostra storia, con i suoi inciampi clamorosi e le sue grandezze.
Oggi non è più così. Fino a un certo momento, parlare di Costituzione ha significato implicitamente sentirsi da una parte. Non dico che questo sia stato giusto: ma mi pare proprio sia stato così. Oggi è necessario schierarci “in difesa di” – invece che “insieme a” – ribadendo (con accanimento considerato da alcuni tedioso, da altri di maniera) un amore per quei principi che non è più senza se e senza ma; che non è più unanimemente condiviso, né tantomeno unanimemente dato per scontato. Con il trascorrere del tempo, infatti, con il prevalere di alcuni modelli economici, in particolare, parlare di Costituzione ha sempre più significato (invece che fare riferimento a principi e ideali collettivi e collettivamente e definitivamente assunti) munirsi del viatico obbligatorio per legittimare con parvenza etica, che in realtà è solo formale, le proprie affermazioni, qualunque esse fossero. Del resto è ovvio: chi si porrebbe, intenzionalmente, non come difensore, ma come oppositore della Costituzione? Il problema, nel tempo, è stato che la premessa – il riferimento alla Costituzione – ha costituito sempre più una sorta di orpello formale, un rassicurante must del politically correct, cui non sono seguite affermazioni di principio compatibili. Da Berlusconi a Renzi, negli ultimi 20 anni tutti si sono proclamati difensori della Costituzione, in maniera quasi automatica. Ma è proprio negli ultimi 20 anni che la prima legge dello Stato italiano ha subito gli attacchi più rabbiosi, ostinati, insidiosi, che ne hanno forzato parti della struttura, che ne hanno reinterpretato principi in modo strumentale. Le formulazioni delle revisioni sono state molteplici; gli interventi spesso affrettati e acritici, come nel caso della riforma del Titolo V o della revisione dell’art. 81, il cosiddetto “pareggio di bilancio”.
Il referendum nel giugno 2006 ha fornito una risposta a quanti volevano evitare – formulandone in quel caso una profonda rivisitazione che fu bocciata dall’elettorato – i limiti imposti dalla Costituzione formale. Da allora si è determinato un continuo tentativo di elaborare versioni a dir poco fantasiose della Costituzione “materiale” (vale a dire di comportamenti e di interpretazioni che, nella visione di Costantino Mortati, non contraddicono e non violano la Costituzione formale vigente, ma la integrano e la adattano). I fautori di tali opinabili proposte hanno piuttosto costantemente auspicato e tentato di sostituire la Costituzione formale con quella materiale; quest’ultima, però, ha valore solo quando tutti gli attori politici concordano sull’interpretazione e ne accettano la prassi. Non può essere usata come strumento per distruggere la Costituzione di tutti. E infatti, quando non esista un accordo totale, la Costituzione formale prevale sempre, senza eccezione alcuna sulla Costituzione materiale. Non a caso la Carta prevede in uno specifico articolo, il 138, procedure apposite per la propria modifica.
Il rischio è quello di continuare a evocare concetti e addirittura valori che hanno perso capacità d’impatto nell’immaginario collettivo e che sono spesso ridotti a mere invocazioni, di cui non si comprende e non si sente più profondamente la portata universale. È il caso, ad esempio, del “senza oneri per lo Stato” del terzo comma dell’art. 33, che non scoraggia lo Stato – in nome del principio di sussidiarietà – a finanziare la scuola paritaria con la fiscalità generale.
La reiterata necessità di ribadire la difesa della Costituzione cui ci hanno costretto rischia di trasformarsi in banalizzazione, in opzione di maniera. E questa è la peggiore delle ingiustizie che si potrebbe configurare nei confronti dei molti che sono morti o che hanno semplicemente rischiato, combattendo, perché quelle parole potessero essere scritte.
2. Qual è il luogo che – più di ogni altro – può dare vitalità a quei principi, sempre più spesso offesi nella pratica quotidiana di una politica che ha sospeso il perseguimento dell’interesse generale per farsi portavoce di istanze soggettive, particolaristiche, mediocremente settarie? Di una politica che non è più servizio per i cittadini, ma asserzione quotidiana di immobilizzazione di destini su base socio-economica? Che spende tempo prezioso per il Paese a cesellare un individualistico, stravagante e persino illegittimo concetto di giustizia e di libertà?
Lo scippo, che la cultura di sinistra ha subìto (e che il centro sinistra si è autoinflitto), di alcune parole che individuavano il senso della propria storia e del proprio esistere, consentendo che slittassero semanticamente in ambiti fino a poco tempo fa imprevedibili, rappresenta uno smacco che ha avuto ripercussioni drammatiche su tutto il Paese. E la stessa scuola (insieme alla sua popolazione, i giovani) in nome di quello slittamento ha perso la propria vocazione e il mandato che la Costituzione, appunto, le assegnava: licenziare cittadini consapevoli. È per questo che molti di noi – al di là dei colpi di teatro di insegnamenti fantasma (Cittadinanza e Costituzione è un esempio), annunciati, come vedremo, e poi ignorati – continuano, rischiando, a ricordare quotidianamente che il modello di società distillato in quegli articoli ristabilisce il giusto senso alle parole, ai principi che individua. E che un altro mondo è possibile.
Ricordate “Cittadinanza e Costituzione” e le fanfare mediatiche che ne accompagnarono l’annuncio? Da allora: missing, sparita. L’1 agosto del 2008 Gelmini esordiva: «Dal prossimo anno scolastico sarà introdotta la disciplina Cittadinanza e Costituzione, oggetto di specifica valutazione», per cui «sono previste 33 ore annuali di insegnamento». Affermazione singolare: già allora la 133/08 aveva tracciato il taglio di 140.000 posti di lavoro e, quindi, di ore di lezione. Infatti, nel 2010 una circolare sostanziava – con inaccettabile retorica – la marcia indietro: «Tale insegnamento rientra nel monte ore complessivo delle aree e delle discipline indicate [il sé, l’area storico-geografica e quella storico-geografica e storico-sociale, rispettivamente in scuola dell’infanzia, primaria e media, superiore, NdA]». Infine: «Non è una disciplina autonoma e dunque non ha un voto distinto». Insomma, nulla. Ha un nome, ma nella pratica didattica esiste a discrezione dell’insegnante. Per di più gli ambiti disciplinari su cui appiattire quell’insegnamento sono stati tagliati dalla “riforma”. In tanti hanno proposto a più riprese l’Educazione Civica rinnovata (non appiattita e dunque contratta e neutralizzata nelle ore di storia), con un proprio orario, ma anche riferimento costante di ogni disciplina. Propedeutica formativa all’esercizio della sovranità di cui tutti i cittadini sono titolari e della responsabilità di gestione dei valori costituzionali; patrimonio comune – etico e culturale – della società italiana.