Queste informazioni – e numerose altre, molto spesso tra il curioso e l’inquietante – sono contenute nel recentissimo Rete padrona, di Federico Rampini, stimolante esempio di sopravvivenza equilibrata del senso critico e del pensiero divergente in un’epoca in cui la maggioranza degli intellettuali laureati preferisce invece oscillare tra innovazione integralista e rifiuto snobistico e demonizzante della dimensione digitale della conoscenza e della cultura.
Proprio per questo, considerando non solo i temi trattati, ma soprattutto il fatto che il volume è uscito anche in edizione elettronica, siamo di fronte a un’occasione in parte sprecata di uso intelligente delle possibilità offerte dalla migrazione su questo supporto. È probabile che la scelta di realizzare una versione digitale assolutamente identica a quella a stampa tradizionale, con la sola eccezione della sostituzione degli atomi della carta con i bit gestiti dal dispositivo di lettura, dipenda dal rischio paradossale di conferire maggior valore al prodotto venduto a prezzo minore. Resta il fatto che vi sono numerose situazioni in cui il lettore si rende conto che “manca qualcosa”.
Un rapido esempio farà capire rapidamente che cosa intendo.
Nel capitolo 8, “Vivere con le stampelle (digitali)”, che contiene una riflessione sulla difficoltà a mantenere la concentrazione a fronte dei continui stimoli rappresentati dalla notifica automatica di messaggi di posta, di avvenimenti in corso sul proprio profilo Facebook e così via, Rampini scrive: “Un autore celebre, Michael Carbon, usa un software informatico ad hoc, SelfControl, che isola il suo laptop da Internet ritrasformandolo in una macchina da scrivere”.
La frase originale è esattamente così, come l’ho riportata qui. Sia che utilizzi la versione cartacea sia che utilizzi quella elettronica sono infatti a carico del lettore la ricerca e l’attivazione di rimandi informativi che gli dicano di più a proposito non tanto di Michael Carbon, quanto piuttosto di ciò che molto facilmente lo incuriosisce di più, ovvero SelfControl.
Con buona pace di coloro che sostengono che il libro così come noi lo conosciamo – nella tradizione, insieme di pagine, in genere rilegato; nell’innovazione, successione di unità di gestione visiva dei contenuti del file di riferimento, “schermate” – abbia una struttura necessariamente sequenziale sul piano cognitivo, a rispondere al problema dei rimandi sono state storicamente deputate citazioni, indicazioni bibliografiche e, soprattutto, le note. Sono tutti casi in cui il lettore viene invitato – e aiutato – attraverso collegamenti potenziali, a compiere percorsi iper-testuali, attingendo ad “altro” rispetto al flusso vero e proprio del testo che sta leggendo.
Il passaggio al digitale, poi, ha messo a disposizione di chi scrive una modalità – molto semplice da mettere in pratica – per aumentare la forza dell’invito iper-testuale e la capacità di aiuto a incrementare il percorso primario: sto parlando del link, collegamento attivo, che non si limita a definire un rimando, ma lo rende disponibile, lasciando al lettore la decisione se servirsene o meno.
Nella versione cartacea, insomma, la frase di Rampini citata poco sopra appare mancante di una nota – meglio se a fondo pagina – che, per quanto riguarda SelfControl, informi il lettore che si tratta di un software gratuito per computer Mac, che si scarica dal sito selfcontrolapp.com.
La versione digitale – e questa considerazione vale per tutta l’opera, non solo per la nostra citazione – avrebbe avuto certamente una maggior efficacia informativa e una valenza operativa, cognitiva e culturale davvero innovativa se avesse avuto il coraggio di sfruttare fino in fondo le potenzialità di composizione date dall’uso dei link, assumendo quindi questa forma nel nostro esempio, che diventa paradigma di una possibilità più generale: “Un autore celebre, Michael Carbon, usa un software informatico ad hoc, SelfControl, che isola il suo laptop da Internet ritrasformandolo in una macchina da scrivere”.
A smentire ulteriormente coloro che assegnano al libro (e attraverso di esso al testo) l’avvilente funzione di comprimere conoscenza, cognizione e cultura dentro la costrizione della sequenzialità contribuisce anche questa citazione di I tre matrimoni di Manolita, di Almudena Grandes: “I fratelli del dottor Velázquez, la mela che un ebreo viennese e un altro tedesco avevano fatto marcire nell’irreprensibile cesto coltivato da una famiglia che era sempre appartenuta alla borghesia monarchica, dubitavano che la cognata riuscisse a tirare avanti da sola”.
Senza raccontare troppo della trama del romanzo, a sua volta recentissimo, mi limiterò a dire che Velázquez è uno psichiatra, vittima della repressione franchista dopo la fine della guerra civile. E questo ogni lettore lo sa, perché l’autrice lo racconta in modo esplicito. Riconoscere invece chi siano l’ebreo viennese e quello tedesco è completamente a carico nostro, del nostro bagaglio personale di conoscenze.
Certo, questo è il patto, questa è la sfida. Patto e sfida che sono gli unici accettabili dal lettore colto, che trova proprio in essi piacere e interesse; nel romanzo, per altro, ci sono alcune note, ma esse riguardano informazioni molto particolari; per esempio la spiegazione della sigla UHP, utilizzata in uno scambio clandestino di bigliettini in un altro episodio della vicenda.
Qualora però prima o poi gli Episodi di una guerra interminabile diventassero materiale per la scuola, entrando per esempio in un’antologia, ne verrebbero certamente realizzate versioni arricchite dalla mediazione didattica. E comparirebbero così note cartacee e link digitali destinati a far identificare agli studenti Sigmund Freud e Karl Marx.