I traduttori, e in particolare i poeti traduttori, hanno conquistato un ruolo di grande rilievo nella letteratura italiana del Novecento, tanto da essere considerati alla stregua di co-autori delle opere tradotte, assurte al rango di creazioni originali. Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale – seguaci in questo di Leopardi – e poi Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Franco Fortini, Giovanni Giudici: i grandi poeti del secolo scorso hanno insegnato ai contemporanei l’importanza della traduzione come strumento di lavoro utile alla costruzione e alla manutenzione della propria lingua e del proprio mondo poetico.
La traduzione e la traduttologia – la disciplina che affronta lo studio della teoria e della pratica della traduzione – hanno poi avuto, negli ultimi quindici anni, un ruolo fondamentale nella revisione di alcuni luoghi comuni ancora diffusi tra i lettori (tra cui l’idea che la poesia sia un’essenza astorica e immutabile e non un discorso soggetto all’interpretazione) e, inoltre, hanno innescato una proficua riflessione sul dialogo tra le lingue e sul rapporto tra il familiare e lo straniero, tra ospitalità e repulsione.
Scrive Antonio Prete in un suo illuminante saggio (L’ospitalità della lingua, Manni Editore, Lecce 1996):
Tradurre è come accogliere un ospite nella casa della propria lingua. La casa è spesso disadorna, inappropriata. Ma da sempre nell’ospitalità ciò che conta è il tempo-spazio di un ascolto, la convivialità di un colloquio. Quando ad essere ospitato è un poeta, presto ci si accorge che per costui la lingua, la sua lingua, è tutto: corpo, respiro, stile. Quella lingua insomma è per lui così propria a se stesso, così incarnata in se stesso, che da nessun’altra lingua egli potrà ricevere in prestito la parola, o il ritmo, o il pensiero. Per questo, voler dare a un poeta il corpo e l’anima di un’altra lingua è un’azione che richiede molta improntitudine e più di un azzardo. Ma l’ospitalità – questa forma mediterranea, e nomade, della conoscenza – si arrischia proprio dinanzi a ciò che è estraneo ed è lontano. In questo arrischiarsi può accadere che l’estraneo si faccia prossimo, senza che per questo attenui la sua estraneità, la sua differenza.
Questo dibattito sotterraneo, condotto soprattutto da poeti e studiosi di letterature comparate (su riviste come “Testo a fronte”, nei convegni e attraverso i molti libri specialistici), ha fatto sì che gradualmente e con sempre maggiore forza emergesse la figura del traduttore, un personaggio cardine del nostro tempo e della letteratura contemporanea, mirabilmente messo in scena per la prima volta dalla narrativa autobiografica di Luciano Bianciardi, nel romanzo La vita agra del 1962 (Rizzoli):
Uno dei miei punti di forza – lo ripetevo sempre ad Anna – doveva essere la puntualità nelle consegne. Altro punto, non rifiutare mai nessun lavoro. Il lavoro e la salute sono sempre i benvenuti, e chi li disprezza e li guasta è un mentecatto. Terzo punto, non andare mai a letto prima di aver finito un certo numero di cartelle a macchina. Venti cartelle ogni giorno, compresa la domenica. Venti cartelle di duemila battute. Tutti i giorni, perché poi bisogna calcolarci anche il tempo per rileggere, tre o quattro giorni al mese in tutto, e un giorno va perduto per fare il giro delle consegne, alla fine del mese. Sono perciò venticinque giorni a cartelle piene, cinquecento cartelle mensili complessive, che a quattrocento lire l’una danno duecentomila lire mensili. Sessanta vanno a Mara, trenta al padrone di casa, dieci fra luce gas e telefono (e d’inverno anche di più, perché bisogna tenere acceso anche tutto il giorno, mentre d’estate si consuma meno luce, ma bisogna lavarsi più spesso, e allora quello che hai risparmiato di lampadine ti va per lo scaldabagno), venti di rate fra mobili vestiti e libri (si potrebbe anche non leggere, ma i vocabolari li devi comprare), quindici fra sigarette, caffè, giornali e qualche cinema, cinque fra pane e latte, e ti restano sessantamila mensili per il companatico e gli imprevisti.
Il traduttore di mestiere – che non traduce sulla base di un progetto culturale o per stabilire una relazione tra le lingue, ma semplicemente per guadagnarsi il giusto compenso – diventa così, per la nostra letteratura, l’emblema del lavoro precario e dell’alienazione del lavoratore intellettuale di massa:
Perciò io faccio soltanto le visite indispensabili al mio quotidiano campare, al mio lesso striminzito e stopposo che mastico amaramente ogni giorno. Ho la valigia piena del mio diuturno battonaggio, carte su carte di ribaltatura […]. È roba che pesa, dentro la valigia, e non soltanto per la massa delle sudate carte, ma anche perché c’è dentro l’alienazione quotidiana, la frustrazione, il passaporto per Mombello, l’abbelinamento, l’imbischirimento, la rimozione, il transfert, il campo traslatorio, la sindrome, la nausea mediana, l’appercezione deviata, la deformazione professionale, la minchioneria altrui che m’imminchiona. Arrivo di soppiatto, mollo il malloppo, chiedo la grana. Pochi, maledetti e subito. (Bianciardi, Aprire il fuoco, Milano, Rizzoli, 1969).
Sul finire del Novecento negli Stati Uniti si è sviluppato un acceso dibattito, estesosi presto anche in Europa, sul ruolo del traduttore nell’industria editoriale e nella cultura contemporanea. All’origine della discussione si collocava un corposo volume intitolato L’invisibilità del traduttore, nel quale si sosteneva la tesi che nelle letterature moderne del mondo occidentale la traduzione sarebbe caratterizzata dalla volontà di nascondere il traduttore, in modo che il testo tradotto dia l’illusione di essere un originale. Ancora oggi, scrive Lawrence Venuti nel 1995, nel mondo anglosassone:
Un testo tradotto, sia prosa o poesia, di finzione o meno, viene giudicato accettabile dalla maggior parte degli editori quando si legge scorrevolmente, quando l’assenza di qualunque peculiarità linguistica e stilistica fa in modo che sembri trasparente, che rifletta la personalità dello scrittore straniero o la sua intenzione o il significato essenziale del testo straniero: in altre parole, quando abbia l’apparenza di non essere, di fatto, una traduzione, bensì l’“originale”.
Si tratta di un nascondimento subdolo, che danneggia il traduttore come intellettuale e come professionista, e svela un’intenzione di assimilazione e integrazione linguistica e culturale che esclude di fatto il dialogo interculturale. Perché la traduzione – che è concepita da Venuti come un atto violento, teso a ridurre la differenza culturale e linguistica di un lettore da un testo straniero attraverso la sostituzione di quest’ultimo con un altro testo intelligibile, meno diverso, più vicino e addomesticato, – per diventare un atto consapevole di ospitalità ha bisogno di svelare il traduttore e il suo progetto linguistico e culturale, di rendere visibile la differenza tra le due opere, le due lingue e le due culture messe in relazione dal traduttore. Solo così, la traduzione – e la lettura consapevole di testi tradotti e delle riflessioni dei traduttori – può diventare un’ottima scuola di intercultura.
Per approfondire:
Franco Buffoni, a cura di, (2004), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano 2004
Franco Buffoni, Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e sull’essere tradotti, Interlinea, Novara 2007
Antonio Prete, “Dialoghi sul confine. La traduzione della poesia”. In Storia della letteratura italiana. Il Novecento. Scenari di fine secolo, Garzanti, Milano 2001, pp. 881-916.
Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility: A History of Translation, Routledge, London 1995; trad. it. L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Armando, Roma 1999.