Continuare cioè – sotto la spinta fideistica del solito atout, il vago e rassicurante “Ce lo chiede l’Europa” – ad esercitare subalternità culturale, pensando che chi esprime critiche al sistema lo faccia esclusivamente per motivazioni ideologiche, per terrore di una valutazione lesiva di chissà quali privilegi di “casta”, per un gusto di egualitarismo svincolato da qualsiasi considerazione delle diversità in gioco.
Occorre, cioè, chiedersi come mai, a parte quegli eterni sessantottini dei professori che scioperano, gli studenti che rifiutano di sottoporsi alle prove, le argomentazioni di qualche stimato ordinario di atenei non di secondo piano (Vertecchi e Israel, ad esempio, ma un inciampo può capitare a tutti, anche ai migliori), la strada della valutazione, così come si sta tentando di imporla, non convince.
Tanto più quando, come nel caso di cui stiamo per parlare, ragionevoli dubbi accomunano una parte consistente del mondo accademico internazionale: Cambridge, Oxford, Londra, Bristol, Stanford (California), Columbia (New York), Ballarat (Australia), Canterbury (Nuova Zelanda), Stoccolma.
Prima di entrare nel merito, una considerazione di contesto. Quelle appena citate sono voci critiche con grande attendibilità scientifica e la particolare caratteristica di essere totalmente disinteressate. Questo fatto è dirimente, perché li differenzia in modo netto e preciso le loro argomentazioni da quelle di molti di coloro che sostengono progetti di valutazione globale, prospettiva di cui le procedure dell’Invalsi non sono che un’appendice tardiva e – per giunta – omologata in maniera acquiescente ai modelli prevalenti. Voglio dire: tra i sostenitori del sistema di valutazione in vigore vi è certamente una parte della società, anche scientifica – quella stessa che sostiene una visione economicista della realtà – che tende a considerare le ricadute economiche immediate e la contabilizzazione del profitto, in termini individuali e collettivi, conseguenti alle scelte indicate, compresa quelle di appiattire il sapere critico-analitico al livello di competenze. Un nome per tutti: l’associazione Treelle, tra le più prestigiose che si occupano di scuola e università, divulga dal 2002, mediante serie e documentate pubblicazioni, questa visione. Sono sue le tesi più coerenti che motivano e giustificano la deriva neoliberista giustapposta al nostro sistema educativo, con lo scopo dichiarato di “svolgere attività di lobby trasparente al fine di diffondere dati, informazioni e proposte presso i decisori pubblici a livello nazionale e regionale, i parlamentari, le forze politiche e sociali, le istituzioni educative”. Missione indubbiamente compiuta.
Torniamo alle voci critiche. A pochi giorni dalla discussa e discutibile celebrazione dei test Invalsi, il “Guardian” ha pubblicato un appello, firmato – come già detto – da molti autorevoli membri della comunità scientifica e indirizzato al Dr. Andreas Schleicher, direttore del programma per la valutazione internazionale degli studenti OECD. Si esprime grande preoccupazione sull’impatto dei test PISA sui sistemi di istruzione e si chiede di sospendere la prossima tornata dei test.
I test PISA sono frutto del lavoro dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, in inglese Organisation for Economic Co-operation and Development – OECD), e si concretano in indagini internazionali triennali in merito ai diversi sistemi educativi e al livello di istruzione degli adolescenti (quindicenni).
In questo quadro Pisa (Programme for International Student Assessment) è una ricerca internazionale nata nel 2000, volta ad accertare le competenze dei quindicenni scolarizzati. I suoi quesiti sono fondati sulla pratica del problem solving per vedere se e come gli studenti impiegano competenze acquisite durante gli anni di scuola di fronte a problemi e compiti della vita quotidiana.
Dal sito dell’Invalsi: “PISA ha l’obiettivo di verificare se e in che misura i quindicenni scolarizzati abbiano acquisito alcune competenze giudicate essenziali per svolgere un ruolo consapevole e attivo nella società e per continuare ad apprendere per tutta la vita (lifelong learning). Lettura, matematica e scienze sono gli ambiti sui quali l’indagine insiste: ogni tre anni vengono rilevate le competenze in tutti e tre gli ambiti, insistendo su uno in particolare. In Pisa 2000 l’ambito principale è stato la lettura, in Pisa 2003 la Matematica, nel 2006 le Scienze, nel 2009 la lettura; infine in Pisa 2012 la matematica, cui si è aggiunta la somministrazione informatizzata di prove di Problem Solving, come ulteriore ambito di rilevazione”.
L’appello in questione è partito da un’iniziativa del pedagogista Heinz-Dieter Meyer della State University di New York e di Katie Zahedi, direttrice della Linden Ave Middle School di New York, e in modo radicale imputa ai test Pisa innanzitutto il “pericoloso assottigliamento del concetto di istruzione” e “la soppressione della gioia dell’apprendimento”. “L’Ocse ha assunto il potere di determinare le politiche di istruzione nel mondo – sostiene Meyer – e sta diventando sempre più un super ministero globale”, che comprime e deprime le specificità che fanno la ricchezza della cultura del pianeta.
L’iniziativa statunitense ha nel frattempo avuto risonanza nel Regno Unito, in Germania e in Austria, dove già è stato deciso di non partecipare alle rilevazioni del 2015. La tesi di fondo è che l’OECD non solo ha plasmato le politiche educative in tutto il mondo, ma ha anche impiegato test “notoriamente imperfetti” (già in autunno la BBC aveva denunciato dubbi significativi in un proprio documentario), spingendo i governi a cercare “soluzioni a breve termine” solo per risalire i livelli delle classifiche internazionali e non per sanare i problemi di fondo dei loro sistemi di istruzione.
Il metodo PISA avrebbe insomma l’effetto di incrementare notevolmente il ricorso a “misure quantitative” per classificare e etichettare alunni, insegnanti e dirigenti. I test avrebbero la conseguenza di ridurre l’autonomia degli insegnanti e di aumentare i livelli di stress nelle scuole, peraltro già alti.
Il ruolo dell’economia mainstream giocato nei test Ocse sarebbe inoltre confermato dall’assenza di qualsiasi considerazione in merito all’influenza che le disuguaglianze socio-economiche sono destinate ad esercitare sul rendimento degli studenti.
L’appello mette infine in dubbio la stessa legittimità della procedura: ad agire è infatti un’organizzazione che non ha nessun mandato democratico in ambito educativo, come invece l’Unicef o l’Unesco; a determinare le politiche scolastiche è una sorta di circolo chiuso in cui si entra solo su invito.
Anna Angelucci, dell’associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica, docente di liceo, insiste sulla denuncia, contenuta nell’appello, secondo la quale l’OECD avrebbe intenzione di esportare i test in Africa (“Per portare avanti PISA e una serie accessoria di servizi, OECD ha scelto partnership tra pubblico e privato, ha stretto alleanze con multinazionali interessate al profitto che guadagnano finanziariamente su ogni deficit presunto o reale che PISA ha scoperto. Alcune di queste società forniscono servizi educativi a scuole e distretti scolastici americani con fini di lucro, così come ha fini di lucro il nuovo piano di esportare PISA in Africa”). Angelucci ricorda che “Micheal Barber, già consulente alle politiche scolastiche di Tony Blair e oggi Chief Education Advisor della Pearson, la più grande multinazionale dell’editoria scolastica e accademica nonché proprietaria del Financial Times e dell’Economist e che produce i software più diffusi per la correzione elettronica dei test, è a capo di un progetto editoriale per cambiare l’insegnamento su scala mondiale, attraverso l’individuazione di standard globali planetari.“Io voglio che ogni bambino in ogni parte del mondo impari le stesse cose nello stesso momento”ammonisce come un Savonarola impazzito dal pulpito del suo blog. E per realizzare questo progetto di clonazione culturale propone un “modello orizzontale’, che supera la tradizionale relazione insegnante-allievo e coinvolge agenti, fonti, piattaforme differenti, ovvero le nuove tecnologie, verso le quali, non a caso, ci stanno fortemente spingendo a scuola. Perché? “Perché è una naturale evoluzione del processo di riforma che non riguarda più solo scuole e università britanniche ma, date le dimensioni della Pearson, tutto il pianeta. I leader politici cominciano a capire ovunque che l’istruzione è la chiave non solo per risolvere il problema dell’occupazione ma per avere una società sana, civile, democratica, omogenea. Dalla scuola dipende tutto” (intervista rilasciata a Enrico Franceschini, La Repubblica, lunedì 18 novembre 2013).”
Per chi non avesse voglia di leggere e tradurre l’intero appello rivolto all’OCSE (considerato, dai firmatari, ormai “arbitro globale dell’educazione nel mondo” i cui test standardizzati “rischiano di trasformare l’apprendimento in schiavitù”) riporto qui di seguito la pars construens, nella sapiente traduzione di Angelucci:
” – Nessuna riforma dovrebbe ignorare il ruolo importante di fattori non educativi, il più importante dei quali è la disuguaglianza socio economica.
– In molti paesi, tra i quali gli USA, la diseguaglianza è drammaticamente aumentata negli ultimi 15 anni, dispiegando un progressivo gap tra ricchi e poveri che nessuna riforma educativa, per quanto sofisticata, potrà cambiare.
-Le stiamo scrivendo non solo per sottolineare mancanze e problemi, vorremmo anche offrire idee costruttive e suggerimenti che aiutino ad alleviare le preoccupazioni sopra citate.
Anche se non complete, esse mostrano come l’apprendimento possa essere migliorato senza gli effetti negativi sopra menzionati:
1. Trovare alternative alle classifiche e pensare a modi più significativi e meno sensazionali di riportare i risultati; per esempio, paragonare quindicenni di paesi ricchi con i coetanei di paesi poveri, dove il lavoro minorile è un dato di fatto, non ha senso e apre all’OECD la strada del colonialismo nell’istruzione.
2. Dare spazio ad una più ampia partecipazione; ad oggi, i gruppi con la più alta influenza sono stati psicometristi, statistici ed economisti. Essi meritano un posto al tavolo di discussione, così come genitori, educatori, amministratori, studenti e le figure accademiche di antropologi, sociologi, storici, filosofi, linguisti e coloro che si occupano di studi umanistici e arte. Che cosa e come valutiamo l’educazione di un quindicenne dovrebbe essere oggetto di discussione a livello locale, nazionale, internazionale.
3. Includere organizzazioni nazionali e internazionali nella formulazione di metodi di valutazione e di standard, perché queste organizzazioni si preoccupano anche di salute, sviluppo umano, benessere, felicità di studenti e insegnanti ma anche le associazioni di insegnanti, genitori e ammministratori, per citarne alcuni.
4. Pubblicare i costi diretti e indiretti della somministrazione di PISA in modo che i contribuenti possano pensare a usi alternativi dei milioni di dollari spesi per i test e decidere se vogliono continuare a partecipare al programma.
5. Accettare la supervisione di gruppi di monitoraggio indipendenti che possano osservare la somministrazione di PISA dal concepimento all’esecuzione, cosicché domande sul format dei test e sulle procedure statistiche e di punteggio possano essere misurate imparzialmente.
6. Rendicontare in modo dettagliato il ruolo di privati e società con fini di lucro nella preparazione esecuzione e follow-up dei risultati per evitare conflitti di interesse.
7. Rallentare la juggernaut (mostruosa e malefica potenza) dei test. Considerare di saltare il prossimo ciclo PISA per discutere a livello locale, nazionale, internazionale. Ciò darebbe il tempo di formulare nuove e migliori forme di valutazione dell’apprendimento collettivo”.
Seguono – come avrete potuto vedere dal documento, linkato in testa all’articolo in originale – un numero impressionante di firme provenienti da un numero impressionante di atenei.
Uno dei firmatari, Diane Ravitch (ordinaria di Scienze dell’Educazione alla N.Y.U., di Storia dell’Educazione alla Columbia University, collaboratrice di Bush e Clinton), è stata responsabile dell’ufficio di ricerca e sviluppo del Dipartimento dell’Educazione, sotto la presidenza di Bush, uno dei membri fondatori della Koret Task Force presso la Stanford University, che supporta le riforme dell’istruzione americana basate sul principio dell’accountability. Dopo che nel 2009 si è polemicamente dimessa dall’incarico, ha pubblicato “The death and the life of the great american school system: how testing and choice are undermining education”: “Se vogliamo migliorare l’istruzione, dobbiamo prima di tutto avere una visione di cosa sia una buona istruzione […..] Chiunque abbia a che fare con l’istruzione dei ragazzi deve chiedersi perché noi educhiamo. In che cosa consiste una persona ben istruita? Quali conoscenze deve aver conseguito? Cosa ci aspettiamo quando mandiamo i nostri figli a scuola? Cosa vogliamo che loro imparino e conquistino durante la loro permanenza a scuola fino al diploma? Certamente noi vogliamo che imparino a leggere, a scrivere e a far di conto. Queste sono le abilità di base su cui poggiano tutti gli altri apprendimenti. Ma non è tutto. Noi vogliamo prepararli ad una vita sensata. Noi vogliamo che siano in grado di pensare con la propria testa quando sono nel mondo da soli. Noi vogliamo che abbiano una bella personalità e che sappiano prendere decisioni sulla loro vita, il loro lavoro, la loro salute. Noi vogliamo che affrontino le gioie e le difficoltà della vita con coraggio e con humour. Noi speriamo che essi siano gentili e compassionevoli nei loro comportamenti con gli altri. Noi vogliamo che abbiano il senso della giustizia e della bellezza. Noi vogliamo che capiscano la loro nazione e il mondo e le sfide che abbiamo di fronte. Noi vogliamo che siano cittadini attivi e responsabili, preparati a formulare proposte con attenzione, ad ascoltare differenti punti di vista e a prendere decisioni razionalmente. Noi vogliamo che loro imparino scienze e matematica per capire i problemi della vita moderna e partecipare alla ricerca delle soluzioni. Noi vogliamo che essi apprezzino il patrimonio artistico e culturale della nostra e delle altre società. Ognuno di noi potrebbe allungare sempre di più la lista dei risultati sperati, ma un punto deve essere chiaro. Se questi sono i nostri obiettivi, l’attuale, angusta focalizzazione sul nostro regime nazionale di test non è sufficiente per raggiungere nessuno di essi”.
No, i test standardizzati non sembrano essere la strada per raggiungere questi obiettivi. Che valore ha oggi la cultura di un giovane? Ha ancora senso, viene da chiedersi, porsi questo interrogativo?
È davvero troppo sperare che il ministro Giannini, tra una promessa preelettorale di alzare il salario dei docenti e un’ipotesi di rinnovo di contratto su basi meritocratiche, trovi il tempo di impegnarsi in una seria riflessione sulle motivazioni che sono alla base della lettera ad Andreas Schleicher? Probabilmente sì. A questi e simili appelli, del resto, sono rimasti sordi tutti i suoi predecessori e le dichiarazioni dell’attuale ministro non fanno sperare che assuma un atteggiamento diverso.
Ma raccontare questa storia mi sembra utile in tutti i casi: essa ci mostra e ricorda che c’è qualcuno che crede che – sebbene difficile da realizzare, dati gli ostacoli quasi insormontabili – un altro mondo sia possibile. E in certe situazioni fa bene non sentirsi soli.