Scomodato d’uso

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Oggi nella mia scuola è l’ultimo giorno di lezione. Per molti aspetti è uguale a tutti quelli precedenti, che si succedono sostanzialmente identici da anni e anni. Gli studenti “non hanno portato niente” perché – per consolidata tradizione – in questa occasione “non si fa nulla”. O, meglio: hanno riempito gli zaini (quelli che si vorrebbero svuotare dei libri di carta, a favore di dispositivi elettronici di vario tipo) con sacchetti di patatine, torte e soprattutto bibite, rigorosamente gasate e zuccherate.

 

Dopo un paio d’ore dall’ingresso cibi e bevande sono stati consumati, nel consueto tsunami festivo. A terra e sui banchi giacciono ora briciole e frammenti di cibo, insieme a bottiglie vuote, tappi, bicchieri e piatti di carta e a masse informi di tovaglioli: tutto materiale che solo quelli di noi con autentica vocazione di aguzzino riescono a far ai riottosi sgomberare e smaltire negli appositi contenitori, con urla più che mai belluine e minacce di vario tipo.
Consumato il picnic, progressivamente subentra la noia: il tempo che separa dall’ultima campanella scorre lentissimo, come si addice ai contesti che si rivelano privi di senso, alle situazioni in cui si vorrebbe essere altri e altrove.
Noi – adulti – non vediamo l’ora che quest’amara e inconcludente giornata abbia fine, soprattutto perché siamo perfettamente consapevoli che è il termine di un ciclo che riprenderà tra un paio di mesi.
Loro – i ragazzi – si accasciano sui banchi a chiacchierare tra di loro. Per poi – culmine della tristezza relazionale e comunicativa – ricorrere spasmodicamente al consueto strumento di intrattenimento autoreferenziale tipico del nativo digitale: lo smartphone, con cui magari inviare SMS agli amici dislocati in altre scuole e descriversi reciprocamente il comune rituale. A dirla tutta vi è poi un momento in cui la dimensione umana sembra riscattarsi: è quello dei saluti finali, quando a qualche “Buona vacanza” rispondono occhi luccicanti, in qualche caso anche sul volto di chi ha fatto di tutto per non passare l’anno, per perdere il gruppo, e si rende conto all’improvviso che il suo distacco non è temporaneo, ma definitivo.
Noi professori dobbiamo invece affrontare le “incombenze di fine anno” (si favoleggia che in una scuola un dirigente abbia inviato via mail una circolare in proposito composta di 39 pagine) e dagli esami di Stato, entrambi aborriti nelle loro connotazioni “burocratiche”: quelle che ci ricordano che la scuola fa parte della Pubblica Amministrazione e quindi prevede verbali, relazioni e varie altre noiosissime formalità.
A complicare procedure già invise ai più interviene la dimensione digitale dell’istituto: i colleghi che l’hanno ricevuto sono stati infatti sollecitati a restituire il tablet di proprietà della scuola; qualcuno si accorge ora di essere del tutto responsabile in prima persona della loro integrità e del loro funzionamento e teme che le clausole sottoscritte senza nemmeno leggerle all’atto di quella che sembrava una gentile elargizione si rivelino una sorta di trappola.
Ma l’aspetto più vincolante e fastidioso sono il registro elettronico e la conseguente gestione digitale dello scrutinio. Mentre osservo sconsolato i miei studenti, entra un esponente del personale ausiliario: “Loro hanno telefonato e dicono che devi mettere i voti”. A cosa si riferisce l’irritante ambasciatore? Un non confessato ma evidente timore che all’ultimo momento qualcosa possa non funzionare e una disinvolta gestione del processo valutativo, finiscono per rendere sempre più concreta ed evidente la pratica di una didattica etero-diretta, che assegna alla segreteria della scuola un ruolo non solo di coordinamento operativo, ma di fatto anche gerarchico, e subordina la valutazione degli allievi a esigenze non sue.
Ciascuno di noi ha interrogato fino all’ultimo, in particolare gli studenti che hanno (o avrebbero avuto) bisogno di recuperare. Qualcun altro ha svolto nelle ultime ore utili verifiche scritte che dovrebbe ancora correggere, magari a fronte di assenze strategiche. E avrebbe quindi bisogno di “tempi distesi”, in cui riflettere per arrivare a proposte di voto ponderate ed equilibrate da formalizzare il giorno dello scrutinio effettivo.
E invece siamo incalzati; tutti i “voti” vanno inseriti entro l’ultimo giorno di scuola: il polo tecnocratico che di fatto ormai dirige la scuola ha fretta di raccogliere e verificare i dati e dà quindi per scontato che tutti noi dobbiamo seguire le sue direttive, per altro mai discusse e considerate da molti insegnanti inoppugnabili, quasi “il registro”, “il programma” o “il computer” – la dicitura cambia a seconda dell’estensione lessicale raggiunta dall’immaginario di ciascuno – fossero entità superiori, totem dotati di volontà propria e indiscutibile.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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