Divagazioni orali #2

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«Il complesso di Edipo praticamente sarebbe…». Praticamente? Opportunamente, non c’è nulla di meno pratico del complesso di Edipo. Eppure il confine tra pratico e teorico nei vezzi e vizi linguistici dei nostri studenti è qualcosa di sfumato, tanto da non essere quasi più percettibile. O meglio: le parole stanno progressivamente perdendo di senso in uso e abuso di intercalari reiterati.

E non parlo del sempre meno gettonato ‘bella!’, dello ‘scialla!’ ormai invasivo, prima incontrastata occorrenza del lessico giovanile; non parlo delle tendenze celebrate dall’epopea cinematografica o dalle improbabili saghe televisive dedicate alla scuola. Tutti, o quasi, ricorrono a indomabili vezzi linguistici, ormai veri e propri luoghi dell’anima: praticamente; infatti; cioè; giusto!, infine; comunque; comunque sia; in una libera perdita di senso e di funzione dei connettivi. Attendo con timore e curiosità il momento in cui lo sdoganamento definitivo dal gergo giovanile consentirà di (non) rispondere a una domanda con uno ‘Scialla, prof!’…
Trovo affascinante constatare poi come alcune etichette, attraverso le quali si individuano sinteticamente atteggiamenti, forme, caratteristiche culturali, assumano durante il colloquio vita propria, allontanandosi dai contenuti ai quali fanno riferimento, sfoderate come una sorta di grimaldello per rispondere (senza rispondere) ad alcune domande e accompagnate in genere da una sorta di sospiro di sollievo: l’inetto, il forestiere della vita, la complessità, il relativismo.
Gli orali dell’Esame di Stato offrono un punto di osservazione interessante. Immaginate loro, gli studenti: la propria scuola, le aule – quelle di sempre, nelle quali hanno trascorso gli ultimi anni. La disposizione dei banchi, però, cambia: a quella tradizionale si è sostituito, sul fondo, un tavolo lungo in cui – ora accoglienti, ora austeri, ora indifferenti – sono schierati i 6 membri della commissione (3 interni e 3 esterni) e il presidente. La tentazione è immediata: sedersi davanti alle facce amiche. Anche i più temerari e strafottenti sembrano avere un momento di esitazione. Treccine rasta o camicetta tradizionale, un centimetro di pancia scoperta, irrinunciabile per le ragazze più ardite: ormai è la democratica rappresentazione di un’adolescenza che – nonostante qualche chilo di troppo – della maglietta corta ha fatto un’orgogliosa rivendicazione.
Più cauti i ragazzi: qualche bermuda (l’uso dei quali viene però generalmente stigmatizzato dai docenti) e coraggiosissime (perché pesantissime) scarpe da ginnastica rigorosamente slacciate, sfidando il caldo insopportabile che puntualmente si accanisce su tutti, esaminati e esaminatori. Persino in quest’anomala estate, che sembra già un preludio autunnale: le strutture scolastiche (quelle che vorrebbero aperte 12 ore su 24) garantiscono caldo caldo caldo d’estate e freddo freddissimo d’inverno; a testimoniare la cura che ha caratterizzato nel tempo l’edilizia scolastica – tranne i casi più fortunati, rigorosamente in stile sovietico – nel nostro Paese; nonché il rispetto per le condizioni di lavoro dei docenti e di apprendimento degli studenti. I ventilatori portati da casa diventano arredo insostituibile.

Il ‘praticamente’, come si diceva, è un vero e proprio must. Ancora più interessante è il fatto che ‘in pratica’, ‘praticamente’ vengano puntualmente seguiti dal condizionale, come nell’incauto esempio di Edipo. «In pratica una parabola sarebbe…»: l’assertività scientifica viene stemperata in rivoli di funambolico e inconsapevole relativismo, che dovrebbero indurre a una riflessione – oltre che sui vezzi linguistici – sul senso di ciò che insegniamo e di come lo insegniamo ai nostri ragazzi. Il più gettonato e il più versatile degli avverbi è accompagnato dagli immarcescibili ‘appunto’ e ‘infatti’, che scandiscono implacabili affermazioni stentate, così come esposizioni più fluide. La pretesa di scientificità viene espressa da un ‘tra virgolette’, seguito non già da una citazione rigorosa, ma da un’interpretazione generalmente approssimativa, accompagnata magari anche dal doppio gesto di indice e medio delle due mani.

Ogni anno è diverso, ma ogni anno offre spunti interessanti per chi – come me – sia sempre in commissione. Dalla ‘poetica’ di Gramsci – notoriamente famoso per i suoi romanzi e poesie – al De bello gallico di Cicerone (con probabile rotolamento nella tomba di entrambi gli autori latini chiamati in causa) ho ascoltato di tutto: l’impulso entusiasta e patriottico («i sani ideali della grande Roma»), il piglio ermeneutico («un villanello che sarebbe un contadino»), la contaminazione logico-linguistica («i personaggi della vita bassa non venivano accettati»), la lettura sociologico-previdenziale («il sapiens di Seneca afferma che bisogna andare in pensione presto»). Tra le mode linguistiche convogliate dai media e dal mondo della politica l’odioso ‘e quant’altro’ è certamente al primo posto: ma ai miei alunni basta incrociare il mio sguardo saettante per non cedere alla tentazione di pronunciarlo.

«Acquisire competenze rispetto al proprio organo riproduttivo»: ovvero, della sessualità infantile secondo Freud. Li vedi sudare, struggersi, tentare di reperire nuove sorti per un registro linguistico che – improvvisamente – deve trasformarmi per essere all’altezza dell’occasione: il colloquio dell’Esame di Stato. Oppure – magari sorprendentemente – parlare fluidi, spediti, tranquilli. Ma «di riprodurre sperimentazioni della Neoavanguardia, della quale nessuno sa niente perché i “programmi” sono strettamente incatenati per mesi all’Ottocento e contemplano al massimo Svevo, Pirandello, Montale e Ungaretti, dai quali ci separano – più o meno – 100 anni. Ma perché una voce interiore (che non è il tu devi kantiano), mista a un’emozione che letteralmente trasuda dalle mani scivolose (che per farli sentire a proprio agio stringiamo quando si siedono per iniziare il colloquio, con la stessa aria con cui si accosterebbero a Torquemada), ecco, quella vocina suggerisce loro che  bisogna parlare così.

Il colloquio dell’Esame di Stato consente – in linea di massima – di saggiare, in una sorta di test implacabile, le tendenze anche ideologiche e temperamentali della new generation. Ci sono i tradizionalisti, con l’evergreen «D’Annunzio estetista», che rappresenta, insieme alla ormai classica attribuzione a Pascoli della  poesia «Per Agosto» (X agosto), uno degli svarioni che il tempo non riesce a cancellare. E dà anche a noi prof un rassicurante senso di continuità: gli anni passano, continuiamo a mettercela tutta, ma la consapevolezza linguistica e il pensiero riflessivo talvolta non sono caratteristici di questo mondo 2.0. Ci sono poi gli ottimisti, quelli che, in seguito al suggerimento dell’insegnante che sta disperatamente cercando di instradarli su una risposta, sparano un ‘esatto!’, a confortare l’interlocutore che, nonostante il suo banchetto di frutta presso il mercato rionale, questa volta ci ha azzeccato: grazie! Ci sono i mistici: «Dio, che è tutto quanto»; i confusi, che cercano, come si dice a Roma, di buttarla in caciara: «Foscolo: esotismo romantico»; «Zante: in Friuli… più o meno». Ci sono gli evocativi, che lasciano immaginare a chi li sta interpellando la risposta corretta: «Davanti a Questa non è una pipa di Magritte rimani un attimo…»; sì, un attimo. Quando non è «un attimino». Ci sono i socratici, quelli che sanno di non sapere, ed esibiscono un sapiente uso del condizionale: «il Giappone sarebbe un’isola»; «il naufragio, che poi sarebbe la Prima Guerra Mondiale»; ci sono i semplici di cuore: «Schopenhauer è un filosofo pessimista, che va a pensare sempre alle cose più brutte che possono capitare»; «Fosca di Tarchetti ha degli attacchi di crisi».

Il massimo si raggiunge comunque nelle cosiddette “tesine”, dalle quali il colloquio deve iniziare: un lavoro elaborato dal candidato, che dovrebbe individuare un argomento affrontato dal punto di vista delle varie materie scolastiche. Si parte: «Greco? Okay!»; «Dico Menandro». «Dico Menandro»? Accadono cose curiose: Bergson, se viene esposto in Francese, non è più Filosofia. Ma gli esiti più improbabili si ottengono per l’ansia di far entrare nel calderone anche le materie scientifiche. Qualche esempio. Argomento generale: l’umorismo; Scienze: le fasi lunari (il sorriso della luna); Matematica: dimostrazioni per assurdo e paradossi. Tesina: la tranquillità (con tanto di De Tranquillitate Animi di Seneca); Matematica: asintoti orizzontali («danno una sensazione di tranquillità, prof!»). La scenografia è sempre la stessa: le aule disadorne, il caldo; i commissari a sventolarsi esausti con le versioni plastificate delle mappe (rappresentazione grafica delle “tesine”); il presidente di commissione che chiude il colloquio, domandando al candidato cosa vorrà fare in futuro. «La Bocconi…» (e, rivolto al “buono” della commissione, con sguardo finalmente pacificato: «Bella, prof! E grazie di tutto»). Tre anni fa una mia alunna, donna spiritosa, qualità impagabile soprattutto se sfoderata nel momento topico della conclusione del rito, ha risposto: «La principessa». Il commiato però più suggestivo è avvenuto quest’anno: «Cosa pensi di fare dopo?». «Penso di andare a Melbourne, in Canada…». Buon viaggio, allora…: e dire che questi non sono nemmeno i figli della riforma Gelmini, che ha accorpato la Geografia alla Storia creando quel mostro epistemologico della Geostoria in 3 ore che hanno sostituito le 4 precedenti. Le ore le hanno avute tutte. Ma la Geografia – questa sconosciuta – è comunque uno dei buchi neri ai tempi di Google Maps.

Lacrime, risate incontenibili, disorientamento imprevisto, grinta inimmaginabile, curiose ricadute nell’ipercinesi infantile, sollievo, allarmanti chiazze rosse sul collo, unghie rosicchiate con implacabile concentrazione, abbracci: sfilano davanti a noi –  che li abbiamo seguiti per tre anni – insieme a una parte di quel tempo della nostra vita. I messaggi angosciati dei giorni immediatamente precedenti sembrano essere un ricordo. Vanno via, verso le vacanze, verso l’università, verso la loro vita, con i loro ‘appunto’. E – nonostante le convinzioni dei tre anni trascorsi da insegnanti democratici e consapevoli, nonostante l’autorevolezza, la cura, la relazione educativa – non sapremo mai fino in fondo cosa hanno veramente pensato di noi. Molto spesso può accadere (non è stato il mio caso quest’anno, ma è successo varie volte) che questo esame aumenti, soprattutto in chi non ha granitiche certezze cui affidarsi, il senso di un divario tra lo sforzo prodotto e i risultati ottenuti. E la necessità di un ripensamento sulla propria funzione e sull’utilizzo degli strumenti che abbiamo a disposizione. “Competenze culturali” (quelle che dovremmo fornire ai nostri ragazzi) è un’etichetta troppo audace e ottimistica per una scuola che ha invece urgenza di ridiscutere i propri paradigmi in una direzione esattamente opposta a quella che sembrano suggerirci i provvedimenti muscolari e non negoziati che tentano di farci piovere dall’alto proprio in questi giorni; in una direzione antitetica ai quiz e ai test con i quali hanno progressivamente scandito quello che dovrebbe essere lo sviluppo culturale di un individuo cittadino. Ostinarsi a rimuovere l’esistenza di Maria De Filippi, della logica del tronista o del fatto che la Madia o la Boschi siano ministri non è quindi il sistema migliore per individuare direzione e percorso verso cui la scuola deve indirizzarsi al fine di sollecitare suggestioni, curiosità e modelli alternativi. Per fare in modo che i nostri ragazzi desiderino elaborare e non ripetere. Vogliano capire e non imparare a memoria. Per far sì che, a partire dal modo in cui parlano e scrivono, la loro sia una ricerca di senso, appunto.

Praticamente.

Leggi anche le Divagazioni orali #1

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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