Il lungo addio

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“Quali sono le dimensioni massime di un ebook?”: la domanda – rimbalzante in questi giorni su Facebook e ancora priva di risposte davvero esaustive e convincenti – è tutt’altro che ingenua o addirittura oziosa, come potrebbe forse apparire a prima vista.

 

In sé e per il modo in cui è stato posto, il quesito solleva il problema pratico e immediato dell’unità di misura nel mondo della produzione culturale immateriale (pagine, numero di battute, byte, bit?). Prenderlo in seria considerazione non porta a una risposta del tutto esaustiva, ma conduce a considerazioni di valenza più generale.

Vediamo. Il linguaggio editoriale tradizionale misura le quantità su base materiale, molto concretamente legata ai costi, e parla per esempio di foliazione, ovvero di numero di fogli che compongono o comporranno la pubblicazione, spesso intesi non tanto come limite massimo, quanto come limite minimo.

Dal canto loro, gli strumenti digitali per la scrittura destinata alla stampa (di questo stiamo parlando, di volumi di estensione diversa, ma tutti composti di fogli rilegati tra loro e racchiusi da una copertina più o meno pregiata), i word processor, hanno tuttora alcune caratteristiche legate in modo molto chiaro alla prevista materialità del prodotto finale.

Innanzitutto, propongono agli scrittori un foglio di carta virtuale, appunto, in genere di formato A4, disposto sull’asse verticale. E consentono una serie di misurazioni molto precise delle dimensioni via via raggiunte dall’elaborazione nel suo progress: dal semplice conteggio delle battute (con esclusione o inclusione degli spazi), a quello delle parole, delle frasi, dei paragrafi, eccetera.

Per non citare il fatto che forniscono una serie di moduli operativi palesemente ispirati al mondo della tipografia evoluta, dalla possibilità di inserire neretti e corsivi a quella di forzare il passaggio da una pagina all’altra. Oppure della gestione dell’impaginazione, la forma con cui il contenuto è scandito e strutturato sul piano logico-visivo per essere offerto al lettore. E così via.

D’altronde, sul versante della lettura, ebook Reader e tablet cercano in modo esplicito ed evidente di imitare per quanto più sia possibile le modalità operative e le implicazioni cognitive a cui essa ha abituato i… lettori; non sarebbe convenienti costringere questi ultimi a cambiare ciò a cui sono avvezzi, su cui sono competenti.

È il caso soprattutto della tecnologia dell’inchiostro elettronico, che riproduce pagine statiche la cui percezione e decodificazione dipende dalla luce dell’ambiente: è lo stesso meccanismo sotteso all’impiego della carta, mentre altri dispositivi hanno uno schermo che consente la gestione di materiali dinamici (audio-video), ma è retroilluminato e stanca maggiormente gli occhi. Nell’uno e nell’altro caso potremo comunque immagazzinare una grande quantità di libri, sfogliare le pagine con movimenti (tap e gesture) che sono la proiezione virtuale di quelli messi in atto sul supporto materiale, oltre che ingrandire o ridurre i caratteri a seconda delle nostre esigenze.

Sia gli ebook reader sia i tablet, inoltre, propongono un’unità di flusso e di gestione del contenuto del file a cui attingono che riempie la superficie dello schermo. Così come i “vecchi” libri ci propongono l’unità di flusso e gestione “facciata”, la cui estensione è a sua volta corrispondente all’area della faccia del foglio su cui essa viene stampata.

Non è del resto un caso che nel corredo di funzioni finalizzate a incrementare l’accessibilità dei dispositivi non vi sia soltanto la riproduzione mediante sintesi vocale (non disponibile per altro su tutti), ma anche la già citata possibilità di adattare la dimensione dei caratteri alla capacità visiva del lettore umano, con conseguente accomodamento automatico della schermata.

Questa dinamicità adattiva è del resto una delle proprietà fondamentali implementate nei linguaggi di descrizione della “pagina” elettronica, dai formati aperti e trasversali, come EPUB, a quelli legati alle sorti di uno specifico dispositivo, come MOBI di Kindle. Insomma, hardware e software sono stati pensati e realizzati in funzione delle esigenze di coloro a cui erano destinati, non viceversa.

La spiegazione di questa scelta, altamente ergonomica, è molto semplice: sia i libri tradizionali sia gli ebook sono infatti prima di tutto tecnologie il cui compito è ospitare fisicamente, organizzare logicamente e rendere disponibile visivamente soprattutto testo scritto, ovvero “un insieme di parole, correlate tra loro per costituire un’unità logico-concettuale” – come opportunamente ci ricorda Wikipedia – fissato su un supporto in modo durevole.

Insomma, il “contenuto” dei libri e dei loro derivati digitali è nei fatti lo stesso manufatto cognitivo, le cui caratteristiche identitarie fondamentali (completezza, coesione, coerenza, articolazione logica, organizzazione tematica, strutturazione visiva e così via) non solo restano invariate, ma costituiscono i veri elementi di condizionamento dell’intero processo. Eventuali trasgressioni – frutto di scelte esplicite, per esempio quella di superare i canoni narrativi in vigore e di introdurne dei nuovi – devono essere frutto di volontà degli autori e richiedono, con ogni probabilità, un incremento del carico cognitivo immediato del lettore, una richiesta di una sua maggiore partecipazione interpretativa. In tutti i casi, non hanno dipendono le caratteristiche tecnologiche del supporto impiegato.

Che si tratti di integrazione e di continuità e non di opposizione e discontinuità è del resto testimoniata dalla perfetta sovrapponibilità delle edizioni cartacee e elettroniche del medesimo libro (opera compiuta, insieme di testo dotato di una struttura interna e di confini esterni, condizioni e garanzie della sua identità culturale e riconoscibilità cognitiva), sempre più frequentemente in uscita contemporanea, sul versante sia della saggistica sia della narrativa. È anche del tutto evidente che è assolutamente efficace e sostenibile la migrazione di testi scritti in epoche diverse su supporto elettronico, senza che vi sia alcun impoverimento; e nemmeno alcun arricchimento intrinseco. Agli autori il compito di scrivere il testo; agli editori quello di pubblicarlo. In qualche caso – self publishing i due ruoli sono unificati, ma nemmeno quest’ultimo modo di procedere vincola saggisti e narratori a far dipendere l’organizzazione logico-concettuale del loro libro, del loro testo, dalla tecnologia con cui intendono implementarlo.

Per tornare al quesito iniziale, quindi: la lunghezza del testo – su supporto tradizionale o digitale – dipende da variabili costanti, in buona misura indipendenti dalla tecnologia impiegata.

La prospettiva può essere differente se si considerano le pratiche e strategie di lettura “native digitali”. Qualche studioso le chiama esplorativo-decisionali e vengono adottate in contesti comunicativi, cognitivi e operativi in cui l’uso e la fruizione del testo scritto – pur preponderante –sono rese parzialmente diversi da velocità, ubiquità, ipertestualità attiva, discontinuità, multimedialità.

Il luogo di adozione di questa modalità è per eccellenza Internet, da dove – se si adottasse in forma definitiva la prospettiva recentemente ripresa dal Washington Post – non giungerebbero davvero buone notizie per le capacità di riflessione delle future generazioni.

Ci pare invece che pensare a vecchie e nuove modalità di lettura – e di scrittura! – come a elementi tra loro in conflitto insanabile, piuttosto che adottare anche in questo caso una prospettiva che integri il “vecchio” con il “nuovo”, sarebbe davvero volersi abbandonare a una sorta di destino meccanico, una forma perversa e superficiale di consumer care.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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