Non ricordo esattamente la prima volta che ho sentito parlare di storytelling. Posso far risalire il mio interesse per la narrazione al periodo universitario, quando ero impegnato nella scrittura della tesi di laurea sulla formazione del libro dei Trucioli di Camillo Sbarbaro, e poi, soprattutto, a un periodo di studio trascorso all’Università di Ginevra, verso la fine degli anni Novanta, durante il quale ho perfezionato la mia conoscenza della narratologia – la disciplina che si occupa in modo rigoroso dell’analisi dei testi narrativi – e maturato la mia predilezione per i formalisti russi e per gli strutturalisti europei e nordamericani. Inoltre, sempre a Ginevra, grazie a un appassionante corso di letteratura comparata, ho cominciato a prendere confidenza con l’opera di Jean-Jacques Rousseau, con le sue Confessioni e, quindi, con gli studi sull’autobiografia.
Con il senno di poi, posso dire che gli strumenti concettuali acquisiti in quei lunghi mesi trascorsi tra le biblioteche e le aule di Ginevra e Losanna sono serviti a dare solidità al mio successivo lavoro di educatore, di formatore e di consulente “narrativo”, e, quindi, a trovare un mio specifico spazio all’interno di un mondo di professionisti specializzati soprattutto in scienze sociali. Ma non posso dire che gli studi narratologici siano stati il punto di partenza della mia passione per la narrazione. Intanto perché l’approccio degli strutturalisti è centrato sul testo scritto e, in ogni caso, sul testo come oggetto, che per essere sottoposto ad analisi deve essere isolato, sottratto al suo rapporto con un autore e un lettore concreti. E a me, invece, come a ogni educatore, servivano strumenti utili a cambiare le persone – autori e lettori in carne e ossa – le quali, attraverso la narrazione, avrebbero dovuto acquisire un maggiore controllo sulla loro vita.
Credo sia stato determinante, invece, il contatto con alcuni progetti di sviluppo locale di cui sono stato coprotagonista insieme all’amico Andrea Caldelli, economista ambientale esperto di processi partecipativi e di animazione territoriale. Grazie a lui sono entrato in contatto con gli strumenti della progettazione partecipata e ho capito che, a guardar bene, il suo lavoro di consulente e di project manager non era poi tanto lontano dal mio d’insegnante e di studioso di letteratura. Il punto di contatto – ancora solo intuito – era rappresentato dal comune bisogno di rendere le persone protagoniste attive della propria vita e di quella delle loro comunità, e dall’idea che attraverso la condivisione di storie sia possibile ottenere grandi cambiamenti e risultati positivi in termini di apprendimento e di motivazione.
Il mio primo lavoro di storytelling – anzi, più precisamente, di corporate storytelling, perché applicato allo sviluppo di un’organizzazione – è consistito nella produzione di un libro intitolato Progetto e racconto di un’altra città, realizzato a partire da interviste ai dirigenti di un gruppo di associazioni di volontariato e cooperative sociali, con lo scopo di favorire il ricambio generazionale e di sollecitare una riflessione sul senso delle attività volontarie e della partecipazione civile. Collaborando all’ideazione e alla realizzazione dei progetti La memoria della terra e Dietro il paesaggio, per conto del Consorzio della Bonifica Grossetana, e, nel 2004, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’esplosione della miniera di Ribolla, del più imponente La miniera a memoria, ho avuto modo di mettere a punto alcune idee sull’utilizzo dei linguaggi dell’arte in iniziative di sviluppo del territorio. Inoltre, per la prima volta mi sono confrontato con un fenomeno che fino a quel momento mi era sconosciuto: la rimozione collettiva di eventi traumatici o, più in generale, di un passato ritenuto indegno di essere narrato. Nel caso di Ribolla, per esempio, in pochi erano disposti a ricordare la tragedia del 4 maggio 1954, durante la quale morirono 43 minatori.
Anche perché, in seguito a quegli eventi tragici, le famiglie dei minatori deceduti, in cambio di risarcimenti assegnati dalla Montecatini attraverso trattative private, non si erano costituite parte civile al processo contro i dirigenti dell’azienda, che furono assolti in primo grado. E quel silenzio, reso necessario dalle contingenze della vita, ancora dopo quasi cinquant’anni sembrava opprimere gli abitanti dell’ex villaggio minerario più grande delle Colline Metallifere, uno dei principali distretti minerari d’Italia. Il “cubo nero” dell’architetto Daniele Cariani, una struttura in muratura costruita in mezzo alla strada principale, di fronte al cinema che fu adibito a camera ardente, è stato aperto per un mese, a partire dalla data dell’anniversario. Le persone, abitanti del paese e turisti affluiti da ogni parte d’Italia, all’interno trovavano due proiezioni: sulla parete di fronte, in alto, una sequenza di foto dei funerali; in basso, sulla ghiaia scura e appuntita e, in parte, direttamente sul corpo degli spettatori, un piano sequenza del paesaggio primaverile ripreso da un’auto in corsa nei dintorni del paese. E poi, usciti dal cubo, si poteva entrare nell’ex cinema, adibito a museo-teatro, dove campeggiavano le foto scelte dagli album di famiglia dei cittadini: ritratti di divi transitati da Ribolla all’inizio degli anni Cinquanta, matrimoni, ragazzi e ragazze in Vespa, bambini, e una straordinaria Miss Ribolla immortalata durante una festa dell’Unità. All’ingresso era possibile ritirare un’audioguida narrativa realizzata in collaborazione con Enrico Menduni e Aldo
Zappalà: un vero e proprio sceneggiato radiofonico, fatto di storie raccolte durante focus group con gli ex minatori e con i loro familiari, grazie al quale l’ascoltatore poteva immaginare, ad ogni tappa del cammino attraverso il paese, le architetture, i colori e le atmosfere del villaggio minerario ormai quasi del tutto scomparso. E per chiarire ai cittadini di Ribolla il valore che quel loro luogo poteva avere, se osservato da altri punti di vista, abbiamo presentato, in collaborazione con il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Galleria degli Uffizi di Firenze, una cartella di incisioni di archeologia industriale di Gianni Cacciarini.
Quel giorno, il 4 maggio 2004, si è parlato di Ribolla sulle principali testate giornalistiche nazionali, in tutti i TG e in alcuni talk-show. Due troupe televisive della Rai vagavano stupite tra le centinaia di persone presenti, e un inviato dell’ANSA, dal suo ufficio improvvisato all’interno del cinema, batteva agenzie di stampa sul susseguirsi dei fatti. La tragedia è diventata così di nuovo – o, forse, per la prima volta dopo il tentativo fatto da Luciano Bianciardi nella Vita agra – narrabile, degna di essere raccontata perché udibile da migliaia di ascoltatori e di lettori pronti a condividerne anche gli aspetti più cupi e grotteschi.
Nei mesi precedenti, durante l’autunno-inverno del 2003, avevo collaborato con Federico Batini, amico dei tempi dell’università divenuto nel frattempo pedagogista, e ideatore della metodologia dell’orientamento narrativo, alla realizzazione di un progetto didattico per la scuola elementare di Ribolla. È grazie a Federico che sono entrato per la prima volta in contatto coi testi di Jerome Bruner – La ricerca del significato, innanzitutto, e poi La cultura dell’educazione e La mente a più dimensioni – e con quelli di Andrea Smorti, Paolo Jedlowski, Giuseppe Mantovani, Gabriel Del Sarto, studiosi coi quali è nato in seguito un sodalizio determinante per la mia formazione di storyteller: fabbricante e cercatore di storie (trascorrendo lunghe ore in compagnia di adolescenti dall’aria smarrita e dai modi spicci, fornendo loro continue sollecitazioni a narrare e a narrarsi, mettendo in comune storie di ogni tipo, per poi catturarle nel tempo e fissarle sulla carta o su un supporto digitale, credo di aver davvero vissuto mille vite e di aver sviluppato una particolare competenza nel riformulare le storie altrui, facendo sentire le persone ascoltate e, soprattutto, riuscendo quasi sempre a rilanciare in avanti la narrazione, spostando l’attenzione verso la costruzione del futuro e focalizzando lo sguardo sulle risorse a disposizione per realizzare i progetti in cantiere).
Da quel momento in avanti ogni nuovo progetto di orientamento narrativo, realizzato in parallelo al mio lavoro di docente di letterature comparate e di traduttologia all’Università degli Studi di Cassino e al più duraturo mestiere di insegnante di scuola secondaria, ha portato (e porta) con sé proficue amicizie e nuove letture: saggi di filosofi, scienziati sociali e neuro scienziati (Davide Sparti, Oliver Sacks, George Lakoff, Marco Iacoboni, e Giuseppe O. Longo, Tzvetan Todorov), principalmente, ma anche nuovi romanzi e film da utilizzare nei percorsi di orientamento (la saga di Harry Potter, la fantascienza visionaria di Philip Dick e Richard Matheson, i racconti di Dino Buzzati, la poesia narrativa di Charles Bukowski, i romanzi di formazione di Joe Lansdale, The Truman Show di Peter Weir, Big Fish di Tim Burton, ecc.).
Poi, verso il 2008, deve essere stato Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas – diventato con gli anni il mio libro-feticcio – a suggerirmi la possibilità di ricongiungere il mio personale percorso professionale di formatore e consulente di orientamento con quello dello studioso e docente di letteratura. Nel mio articolo Leggere i classici con il cervello ho tentato, infatti, sulla scorta del libro La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov (2007), di argomentare la necessità di recuperare la lezione della letteratura nell’ambito delle scienze sociali e, soprattutto, di promuovere l’introduzione di alcuni fondamentali concetti e strumenti delle scienze sociali nella didattica della letteratura, che altrimenti rischiava – e rischia ancora – di portare alle estreme conseguenze un atteggiamento di totale chiusura verso gli interessi della persona che apprende attraverso la lettura e attraverso la scrittura.
Come poi ho avuto modo di scrivere con maggiore consapevolezza in Insegnare con la letteratura nel 2011:
Per quanto possa sembrare lontano da un’idea di letteratura basata sulla conservazione e la trasmissione delle opere del passato, la lettura dei testi narrativi si fonda comunque sull’interesse per la relazione con un ipotetico interlocutore. Non è sufficiente l’interesse per la storia, la fiducia cieca nella qualità del racconto che mi stai per proporre. Il punto di partenza – e la conditio sine qua non della narrazione, anche di quella mediata dalla scrittura – rimane la relazione. Se io rifiuto di entrare in relazione con te, allora non mi interesserà nessuna storia che hai da propormi.
Per questi motivi è fondamentale che, per far circolare liberamente le storie nel suo spazio relazionale, l’insegnante riesca a rappresentarsi come un interlocutore affidabile che mette in comune delle storie senza aspettarsi un preciso ritorno ma manifestando interesse alla relazione con gli alunni. È l’insegnante, infatti, l’interlocutore che si presenta davanti agli alunni in veste di narratore per condividere una storia. Come pensiamo, al di fuori di questo spazio e di questa relazione, di riuscire a far concorrenza alle storie spesso perfettamente raccontate dalle più potenti agenzie narrative della terra?
Mi illudo troppo, forse, se penso che un insegnante di letteratura capace di gestire i processi narrativi è effettivamente in grado di produrre un cambiamento significativo nella vita delle persone? Di certo posso dire che un insegnante che riesce a divenire un interlocutore affidabile è in grado di far circolare storie all’interno della sua comunità, e quindi, ha la possibilità di far allenare i suoi alunni nella difficile arte della narrazione e, soprattutto, di mettere in contatto – un contatto autentico e profondo – gli alunni con quei particolari racconti che sono le opere letterarie.
In anni più recenti, oltre a cercare di tradurre questi principi in pratiche didattiche da diffondere al di là dei confini delle mie classi, ho sentito l’esigenza di usare le storie per lavorare sulla percezione del futuro – e in particolare del futuro professionale – da parte degli aspiranti lavoratori e di alcune categorie di lavoratori del settore sociale, nella convinzione che le tecniche di storytelling possano essere utili non solo alla promozione dell’azienda (quello che Andrea Fontana chiama storyselling), quanto piuttosto al benessere dei lavoratori e alla qualità dei servizi. Mi sono dedicato con passione a due aree di intervento: la percezione del ruolo dell’assistente sociale – uno dei mestieri più influenzati dalla sua rappresentazione sociale divulgata attraverso alcune storie e metafore esemplari – e quella dell’artigiano, figura quasi mitologica studiata in modo esemplare da Richard Sennett, le cui caratteristiche possono essere estese e applicate a molti aspetti del lavoro nella società contemporanea.
Naturalmente, non mi sarebbe mai venuto in mente di cercare metodi e strumenti per aiutare gli assistenti sociali a gestire la propria rappresentazione sociale e, soprattutto, a cooperare con la loro organizzazione al fine di divenire protagonisti e narratori della propria storia all’interno della comunità di appartenenza, se non avessi avuto relazioni con la Società della Salute del mio territorio, e se non avessi avuto la possibilità concreta di lavorare con assistenti sociali e psicologi del servizio pubblico.
Così come non avrei impiegato tanto tempo nella ricerca e nello studio di storie di artigiani, senza l’interessamento di un’associazione di categoria con la quale il settore ricerca e sviluppo dell’associazione che presiedo collabora per organizzare progetti di orientamento finalizzati all’allenamento dello spirito di iniziativa e dell’imprenditorialità.
In fin dei conti, mi rendo conto che, per quanto abbia trascorso metà della mia vita a lavorare con le storie, non riesco a considerarmi un tecnico dello storytelling. Anzi, ritengo che proprio adesso, in questo momento in cui le tecniche di narrazione sono utilizzate in modo massiccio in ogni settore della comunicazione pubblica, occorra dotarsi, insieme alle necessarie competenze di base per diventare protagonisti e narratori della propria storia, di una buona dose di anticorpi in grado di difenderci dagli attacchi di quei tecnocrati che credono sia sufficiente dominare gli strumenti per avere il controllo sul mondo circostante. Le narrazioni, prima di tutto, ci insegnano che occorre avere relazioni e che per avere relazioni è necessario avere fiducia, e viceversa. È un circolo virtuoso. Ciascuno scelga da quale parte cominciare.
[Per approfondimenti sul catalogo Loescher: Non so che fare. Storie per le scelte; Non mi importa di voi. Storie per le competenze di cittadinanza; Non mi vedo. Storie per diventare se stessi; Quaderno della ricerca #5 Imparare dalla lettura]