Ma andiamo con ordine, e parliamo di multimedialità.
La multimedialità, com’è noto, è l’utilizzo contemporaneo di più media per veicolare conoscenze o informazioni: nel contesto scolastico, ovviamente, si fa riferimento alla multimedialità connessa alla didattica e all’apprendimento.
Il collega Reali, giustamente, fa notare il rischio di far diventare i mezzi tecnologici “un fine, e l’utilizzo degli strumenti elettronici e la formazione dei docenti per usarli si sono talora trasformati in un vero e proprio business: spero vivamente che il Suo Ministero riconduca PC, tablet, LIM al ruolo di mezzi, al pari del libro cartaceo, gessi e lavagne. Intendiamoci, mezzi preziosi, insostituibili, ma pur sempre tali: e lo dice uno che scrive questo pezzo fuori casa, da un PC collegato allo smartphone ed ha deciso di affidarlo a una rivista online!”. La prima risposta, facile e ironica, sarebbe questa: concordo, in pieno, con il collega Reali se non che allo stesso rango di mezzi proporrei al Ministro di far tornare nozioni e contenuti, che sono funzionali agli apprendimenti che riescono a stimolare e alle competenze da sviluppare, le quali servono a realizzare attività e prodotti. Troppo spesso autori, opere, formule, date sono state trattate come se fossero un fine e questo, credo, ha nociuto non poco alla considerazione che i ragazzi italiani hanno della scuola.
Certo i mezzi multimediali sono strumenti e come tali vanno interpretati, ma la questione non è liquidabile così facilmente. Quando abbiamo conosciuto le possibilità di scrivere per ciascuno, con penna e calamaio o con biro e stilografiche poco importa, abbiamo strutturato una didattica conseguente: centrando moltissimo del tempo scuola dei primissimi anni sul rendere autonomi i bambini e le bambine rispetto alla produzione scritta attraverso quei mezzi. Chi non ricorda le paginate da riempire di una sola lettera? Chi non ha fatto dettati e accumulato quaderni di frasi ed esercitazioni calligrafiche?
Oggi pc, tablet, smartphone e quant’altro non sono semplicemente sostituti della penna – il che già richiederebbe di riflettere se non sia il caso di “allenare” i bambini e i ragazzi sin dai primi gradi di scolarità ad un uso competente e consapevole di questi mezzi –, sono anche degli strumenti complessi che possono, contemporaneamente (e progressivamente) sostituire sì la scrittura manuale, ma anche i libri di testo ed altre fonti informative. Come si può ovviare ad un uso maldestro, centrato sul copia-incolla, di questi strumenti? Come si può “dimenticare” di favorire lo sviluppo di competenze legate all’utilizzo di questi strumenti? Chiunque sia cresciuto in una civiltà pre-TIC ben conosce la differenza tra scrivere una lettera cartacea e scrivere una email, anche solo perché quest’ultima consente un’immediatezza non permessa dalla carta, come ci racconta bene un piccolo romanzo recente (Allego alla presente il mio amore per lei, di Giuseppe Vigo, edito da Fuorionda):
Pensavo adesso alle lettere d’amore dei nostri genitori, dei nostri nonni. Le scrivevano, le mandavano con il cuore trepidante e se tutto andava bene ricevevano una risposta dopo una quindicina di giorni. Chissà quante se ne sono perse nel tragitto da un innamorato all’altro. Cadute dai muli prima, dalle motorette poi. O rimaste in fondo ai sacchi di juta in qualche deposito di periferia. Quelle lettere sono ancora vive, vecchiette e piene di acciacchi, ma ancora vive. E qualcuno invece ci sarà pure morto di crepacuore per non averle ricevute. Noi siamo fortunati, altroché. I sentimenti ormai ci raggiungono veloci come frecce, non hanno tempo di ammuffire. Per questo bisogna andarci cauti.
Bisogna andarci cauti? Occorre più cautela di una volta perché i tempi sono diversi? Cosa si rischia in più? Cosa si rischia in meno? Cosa cambia? Quanto viene influenzata dal mezzo la lunghezza dei messaggi? Riceveremo solo dichiarazioni d’amore che stanno dentro un tweet?
Peraltro il libro appena citato è proprio un romanzo epistolare (epistolario elettronico, of course), il che già potrebbe dirci molto su quanto occorra allontanarsi dalla classica retorica del “le tecnologie sono utilissime se usate come mezzi” o “l’uomo deve controllare il computer e non il contrario” o ancora “i ragazzi scrivono solo più in stile sms, una volta eravamo più capaci”, e provvedere a declinare gli apprendimenti necessari.
Non serve insistere sulla maggiore facilità di veicolazione degli apprendimenti per il tramite di strumenti multimediali: basta pensare alla scuola come qualcosa di collegato strettamente alla vita successiva, e il resto verrà da sé. Che senso avrà fra pochi anni imparare a scrivere con la penna che poi utilizzerò soltanto nel contesto scolastico, e in pratica mai nella mia vita successiva?
La rivoluzione tecnologica è anche una rivoluzione cognitiva: occorrerà, giocoforza, farci i conti, e meglio prima che poi. La scuola italiana è endemicamente lenta a ricevere e introiettare i cambiamenti sociali. Quello introdotto dalle TIC è però tale e ormai così pervasivo da non consentire ulteriori dilazioni.