Ogni insegnante dovrebbe ricevere, almeno una volta all’anno in ciascuna classe, questa domanda. Vorrebbe dire che qualcuno si preoccupa di lui, delle sue preferenze, delle sue origini. Capisce, lo studente, l’importanza della lettura e, quindi, della scrittura, nella vita di quella persona retribuita per insegnare qualcosa che, si dice, dovrebbe essere importante e prestigioso, ma non si capisce sempre bene per quale motivo.
Georges Simenon, quindi, è il mio scrittore preferito. Non lo è sempre stato, ma oggi, nel mese di maggio del 2013, mi sento di poterlo affermare: ho una sincera ammirazione per quest’uomo. Un’ammirazione che a tratti si confonde con la paura e che non è necessariamente correlata al mio lavoro di studioso di letteratura. Non ho mai pensato, infatti, a Simenon come a un oggetto delle mie ricerche. Mi è capitato di pensare di essere io, semmai, un campione umano sottoposto a delle ricerche condotte dallo scrittore Simenon, il quale, coi suoi romanzi, ogni volta mi prende, mi scuote, mi scandaglia fino a quando, ne sono quasi sicuro, non abbia ottenuto da me ciò che occorre al loro funzionamento.
Non che non consideri i romanzi di Simenon dei capolavori della tecnica letteraria. Analizzati con gli strumenti dello studioso, essi finiscono per acquistare valore, mostrandosi in tutta la loro perfezione. C’è un trucco, in particolare, che mi ha sempre colpito. Consiste nel frapporre un ostacolo tra il protagonista del romanzo e gli altri personaggi che lo circondano. Occorre tener presente il fatto che solitamente il racconto, per quanto sia narrato da una voce impersonale, è focalizzato su un personaggio, il protagonista appunto, dal cui punto di vista è osservato il mondo. Ecco, immaginate una cosa di questo tipo:
Era la seconda notte. Aveva cercato di restare sveglio più a lungo possibile, con gli occhi ben aperti. Le veneziane lasciavano filtrare fra i listelli metallici la luce fredda dei due lampioni che illuminavano la strada al di là del prato.
(da Il trasloco, trad. di Laura Guarino, Milano, Mondadori, 1968).
Una voce narrante racconta, in terza persona, cosa accade a Emile, il protagonista del romanzo, intorno al quale ruotano le vicende e, soprattutto, attraverso il quale le vicende vengono in qualche modo filtrate. È come se Emile prestasse i suoi sensi al narratore e, di conseguenza, al lettore. Il fatto è che Emile e sua moglie Blanche si sono trasferiti da poco in un asettico quartiere residenziale alla periferia di Parigi. Il luogo appare allucinante, spaesante, e forse per questo finisce per rivelare a Emile aspetti della vita a lui prima sconosciuti, in cui finirà per perdersi irrimediabilmente.
Verso le undici aveva sentito la donna, dall’altra parte della parete, che si coricava. La parete che separava i due appartamenti doveva essere molto sottile, oppure c’era, in quel punto, un difetto di costruzione, un mattone rotto. La donna stava probabilmente dormendo, come la notte precedente; a meno che fosse in attesa, come lui.
Questo è il punto. Una parete sottile impedisce a Emile di vedere cosa accade dall’altra parte. Tuttavia, egli può udire i suoni, le voci e le frasi pronunciate nella stanza accanto, e ricostruire nella sua immaginazione i volti, le espressioni, i corpi, le posizioni dei personaggi protagonisti di questo mondo possibile che è reale solo in parte, poiché è il risultato dell’interpretazione di Emile, del suo desiderio di fuga, di cui finirà per rimanere vittima.
Questa sera, lo sentiva, non si sarebbe addormentato; sentirli ancora era diventato un vero bisogno. Voleva sapere di più. Si chiese se succedeva così tutte le notti. Nello spazio di un’ora gli si era rivelato un mondo nuovo…
È un trucco usato anche nel romanzo Gli intrusi (titolo originale Les inconnus dans la maison, 1946), pubblicato da Adelphi nel 2000. Un uomo vive rintanato da diciotto anni una stanza della sua casa, dove abita anche la figlia. Legge, fuma, beve, guarda dalla finestra e, soprattutto, ascolta. Ma è un ascolto disinteressato, che non lo incuriosisce e non lo attrae, almeno fino al momento in cui viene riscosso dal suo ultradecennale torpore da “un rumore nuovo, del tutto insolito”.
In Le finestre di fronte (Les gens d’en face, 1933), Simenon rappresenta perfettamente – e con grande anticipo rispetto al resto del mondo – l’inquietante universo totalitario staliniano. Siamo sulle rive del Mar Nero, il protagonista è Adil bey, il nuovo console turco. Stavolta è la vista il senso privilegiato, poiché siamo in un mondo silenzioso, in cui, ci si accorge gradualmente, non è possibile esprimere con i suoni, attraverso le parole, né i propri pensieri, né tantomeno i sentimenti. Per capire gli altri, per avere indizi sufficienti a comprendere il mondo in cui si è immersi, occorre guardare dalla finestra; con la consapevolezza che anche gli altri fanno altrettanto con te.
È grazie a trucchi come questi che Simenon riesce a far entrare il lettore dentro il mondo narrato e, soprattutto, a farlo sentire incredibilmente attivo. Perché il lettore, come il protagonista, disponendo di pochissime informazioni sul mondo narrato, è costretto e allo stesso tempo invogliato a riempire i vuoti con la sua immaginazione, costruendo un film mentale molto semplice, fatto di poche inquadrature e di scenografie e personaggi essenziali.
Scelgo un romanzo a caso e trascrivo l’incipit:
La portinaia si schiarì la voce, bussò, poi disse guardando il catalogo della Belle Jardinière che teneva in mano;
“C’è posta per lei, signor Hire”.
E si strinse lo scialle sul petto. Un rumore filtrò dalla porta scusa. Proveniva ora da destra ora da sinistra, era a tratti un’eco di passi e a tratti un debole fruscio di stoffa o un acciottolio di stoviglie, e gli occhietti grigi della portinaia sembravano seguirne attraverso il pannello di legno le tracce invisibili.
(Il fidanzamento del signor Hire, trad. it di Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2003).
Ma il Simenon che preferisco, anche se può sembrare paradossale, è quello che mi fa paura. E che, proprio per questo, mi impedisce di prendere in blocco tutti gli oltre duecento romanzi e leggermeli d’un fiato, come si farebbe – e come ho fatto – con Fred Vargas o con Andrea Camilleri.
Prediligo l’autore di Corte d’assise e di L’assassino, romanzi strazianti i cui protagonisti sono destinati, un po’ come l’Emile di Il trasloco, a superare il confine che fino a un momento prima ha tenuto insieme la loro identità. Sono personaggi centripeti, debordanti, che tendono a rompere gli argini, a disperdersi e, infine, a perdere. Ma la loro sconfitta è anche, ovviamente, la sconfitta del mondo come loro stessi se lo sono rappresentato, che d’improvviso crolla sotto i colpi di decisioni imprevedibili, autolesioniste e tuttavia liberatorie.
Aveva una geografia tutta sua, un mondo intero che lui solo conosceva. La via della scuola, per esempio, dove aveva abitato a sei anni: sul muro aveva disegnato un bersaglio con le frecce del suo arco in legno e, nel cancellarlo, il portinaio aveva rotto lo spigolo di un mattone. C’era ancora il buco…
Giacché il tempo era diventato relativo, all’angolo della stessa strada faceva un balzo in avanti di trent’anni, al giorno in cui lui e sua moglie, appena sposati, sono andati a far visita a un’amica che aveva partorito da poco ed erano tornati a casa pieni di speranza…
Più avanti…
Ma non c’era bisogno di andare lontano, perché il suo universo lo seguiva ovunque col suo straziante mistero, quel mistero che la sera finiva così spesso col farlo infuriare.
(L’assassino, trad. it. di Raffaella Fontana, Milano, Adelphi, 2011).
Non consiglio di cominciare da qui, comunque. Meglio passare attraverso qualcosa di meno traumatico. Tanto vale cominciare da un Maigret, se ancora non siete caduti nelle maglie della sua rete. Uno dei miei preferiti è Maigret et le marchand de vin, ma credo che si possa entrare nel mondo del commissario più famoso di Parigi a partire da uno qualsiasi degli oltre cento tra romanzi e racconti scritti da Simenon tra il 1929 e il 1972. Forse, prima ancora di leggere un libro, si potrebbe consigliare una gita a Parigi, per prendere confidenza con i tavoli o con il bancone di una brasserie, per passeggiare lungo la Senna, per fermarsi su una panchina a ruminare intorno a un caso, in attesa che la matassa delle idee si dipani da sola, come per incanto. Oppure, si può cominciare dalla fine, passeggiando sul lungo lago di Losanna, dove Simenon ha trascorso gli ultimi anni – che immagino tremendamente infelici – della sua vita. Ma è meglio non sapere troppo, per adesso, della sua biografia. Io ancora non ho letto le sue Memorie intime, né credo che lo farò prima di aver terminato la lettura di tutti gli oltre quattrocento libri che ha scritto. È un modo come un altro per non mettere fine troppo presto a una bella storia d’amore.