Continuità didattica: chi scrive è contrario al ragionamento per cui ciò che abbiamo sempre fatto, per il solo motivo di averlo sempre fatto, dev’essere mantenuto (convinzione che, seppur non proposta in questo modo, riposa in molte più menti di quanto si creda). Sono dunque estremamente favorevole a una scuola centrata sugli output di apprendimento, anziché sugli input d’insegnamento. Sembra un gioco di parole ma non lo è. Porre al centro i ragazzi e le ragazze oppure l’azione dell’insegnante non è la stessa cosa. Ovviamente però è pre-condizione perché questo avvenga che vi sia un certo grado di continuità didattica. La continua modificazione degli organici, l’essere “sballottati” come merci da un istituto all’altro, non giova né alla professionalità degli insegnanti e nemmeno ai risultati di apprendimento dei loro allievi.
Competenze: marco forse in questa sezione una delle distanze più forti dal collega Reali. Mentre lui parla di termine abusato io parlerei invece delle pratiche, e su quelle mi concentrerei. Le pratiche in uso sono ancora, nella maggioranza dei casi, quelle classiche, con la lezione frontale al centro e le nozioni (e conoscenze) come obiettivo implicito (implicito nel senso che nella didattica per contenuti l’azione dell’insegnamento si esaurisce nell’aver spiegato e poi nella valutazione, quasi che la responsabilità dell’apprendimento sia tutta a carico agli allievi).
Il fatto stesso che al collega Reali la parola «competenza» faccia venire in mente «esercizi astrusi», ma soprattutto «schede da crocettare a fine anno e da archiviare a beneficio di qualche archeologo della nostra epoca» è significativo. Dice molto, infatti, di come siano stati recepiti i provvedimenti che dal 2006 in poi si sono succeduti e che, con alterne fortune e, ahimè, alcune contraddizioni, hanno costituito il tentativo di adeguarsi alla richiesta, proveniente dall’Unione Europea e dal resto del mondo, di iniziare il lungo percorso che porti il nostro sistema d’istruzione a centrarsi sui risultati di apprendimento, anziché sulle “intenzioni d’insegnamento”. Il collega Reali conclude la sezione relativa alle competenze con un accorato appello che cito: «La prego, faccia sì che la Scuola delle competenze non si proponga come alternativa a quella delle conoscenze: non rinunciamo al nostro ruolo di trasmissione di saperi, prendendoci così una (ir)responsabilità enorme verso le future generazioni». Ora, io non ho chiaro quali siano gli enormi vantaggi che i ragazzi avrebbero acquisito tramite la cosiddetta scuola delle conoscenze (definizione a mio avviso già generosa, trovando più appropriata e realistica quella di scuola dei contenuti) e, soprattutto, non riesco a capire come si possa credere che la stessa scuola che preparava alla vita, al futuro, alla cittadinanza le generazioni che crescevano in una società un tempo piuttosto stabile e prevedibile (ammesso e non concesso lo facesse davvero), possa farlo ancora oggi, nella società di oggi, in cui di stabile e di prevedibile è rimasto ben poco. Credo di aver espresso in modo piuttosto chiaro nel Quaderno della Ricerca n. 02, pubblicato da questo editore e messo a disposizione gratuitamente anche on line, per quali motivi esercito una decisa opzione per un insegnamento per competenze: rimando dunque a quel contributo per approfondire la mia posizione. Cara Ministro, la invito caldamente a riflettere sul tema dei risultati di apprendimento e a centrare l’intero percorso di istruzione (direi a partire dal nido, perché considero anche quello, sino all’Università compresa) sugli esiti, sugli output. Possiamo partire da questo? Possiamo decidere che cosa dovrebbero apprendere i ragazzi e da lì ripartire? Sono consapevole che i documenti di riordino, gli indirizzi, le indicazioni contengono già un chiaro orientamento in questo senso, ma allora perché non essere congruenti in tutto? Ridefiniamo le modalità di valutazione, ridefiniamo le modalità di esame, ridefiniamo la formazione iniziale degli insegnanti e quella in servizio. Ridefiniamo la carriera degli insegnanti stessi.
Possibile che esista ancora questo equivoco? Possibile che ancora oggi si possa ritenere bravo un docente sulla base delle conoscenze che ha della sua disciplina? L’insegnante più bravo non è colui che fa apprendere di più? E l’apprendimento non ha bisogno per realizzarsi di partecipazione, motivazione, percezione di utilità? Chiediamo ai nostri ragazzi oltre 10.000 ore di impegno solo in aula, sino ai sedici anni, per assolvere all’obbligo di istruzione. Non è gravissimo che le percepiscano come distanti dalla vita, poco utili, poco motivanti e poco significative?
– Debiti: qui mi trovo, invece, consonante con il collega. Riflettiamo e guardiamoci in giro. La valutazione è, da noi, prevalentemente sommativa. Non sarebbe meglio, fino almeno a un certo punto del percorso, non prevedere nessuna bocciatura e nessun debito, ma semplicemente una valutazione (composta anche da elementi, fondamentali per la crescita, di autovalutazione) in direzione di una logica in cui ciascuno diventi, progressivamente, responsabile del suo percorso di istruzione? Un patto che suoni grossomodo così: io ti aiuto a comprendere a che punto del percorso sei arrivato, ma non lo interrompo, se tu vuoi portarlo avanti. Le pare una logica folle? Per arrivare al momento in cui ci sarà la valutazione finale di quel percorso (fatta come? attraverso performance? perché no?), in cui lo studente è consapevole – perché questa consapevolezza e autodeterminazione gli sono state insegnate – del fatto che se si sta presentando senza aver completato l’intero percorso sarà responsabile in prima persona (e dunque pronto, o predisposto, ad assumersi le conseguenze delle sue scelte e delle sue azioni). Che ne dice?